martedì 31 dicembre 2013

C'era una casa tanto carina.


Solo che questa aveva il soffitto, e anche la cucina.
Aveva anche un salotto grande e pieno di carabattole e oggetti per lo più di medio-cattivo gusto, decine di orologi di ogni tipo, un trambusto asincrono di tic-tac destabilizzante. E poi bambole di porcellana inquietanti con vestiti di pizzo e merletti, pupazzi di pezza, porcellane zoomorfe quasi su ogni singolo gradino della scala di pietra che portava al secondo piano. Non un centimetro quadrato libero.
Mimi quando ci è entrata per la prima volta è letteralmente impazzita.
Tutto voleva toccare e tutto la entusiasmava.


Siamo salite al primo piano facendo attenzione a non inciampare sui gradini di altezze variabili (questa cosa va sistemata, aveva detto l'architetto, con serietà). Stessa situazione anche al piano di sopra: due camere da letto e un bagno zeppi zeppi della paccottiglia più inutile che mai si possa immaginare.
"Eh! Questi sono i ricordi di una vita!" aveva sospirato con un accenno di malinconia la signora, come se già la nostra sola presenza lì significasse il loro addio a tutto ciò che quella casa era stata.
Ma la cosa che più di tutte mi aveva fatto lasciare il cuore in quella casa era stato il giardino.
Per accedervi bisognava girare intorno all'antico casale sul canalone, di cui la casa in questione costituiva una terza porzione.
Mi immaginavo con le bimbe a potare cespugli di rose facendo sperpero, almeno nel mio mondo immaginario di un pollice verde che mai ho posseduto. Vedevo le bimbe razzolare nell'erba nei caldi pomeriggi estivi... freschi pomeriggi estivi, poiché la casa, già di per sé poco esposta al sole, a ridosso del monte com'era, apriva solo l'uscio e una piccola finestra a sud, mentre il giardino era posto sul lato nord.
"Qui si dovrà fare un'apertura bella ampia, in modo che il giardino si renda accessibile da casa, senza dover uscire in strada" diceva intanto l'architetto.

Ho vissuto quei mesi dilaniata tra l'euforia e il terrore, tra l'incredulità e la determinazione, tra l'incertezza e il rimpianto, in un mix di stati d'animo che la gravidanza mi rimescolava nel suo ribollente calderone ormonale.
Cercare casa per me è sempre un'esperienza ai limiti del metafisico, una ricerca in cui per un attimo ti si schiudono le porte di futuri possibili e tu puoi intravederti come in uno squarcio spazio-temporale nelle svariate potenzialità inespresse delle scelte scartate. Il più delle volte sono realtà agghiaccianti. Come quella volta della famosa casa-container, da cui scappai coi capelli ritti e il cuore in gola dopo aver avuto una visione di me in salopette e camicia a quadrettoni, che estirpavo ortiche e spazzavo cacca di topo dalla porta a vetri dell'ingresso, modello roulotte in Alabama. O come l'altrettanto leggendaria casa-bunker, dove mi vidi aggrappata alle grate dell'unica minuscola micro-finestra vicino al soffitto in corridoio, un'espressione da pazza furiosa negli occhi iniettati di sangue, un rantolo in gola che voleva dire "Ariaaaa!".

La ricerca di casa è sempre stata per me l'occasione in cui si vagliavano le infinite declinazioni del concetto di "casa".
Comunque la casa in questione fu uno spiraglio di speranza nel labirinto della disperazione possibile, un raggio di sole nell'oscurità delle inquietanti prospettive che mi avevano lasciato intravedere le case alla nostra portata che avevo visionato fino a quel momento.
La prima volta che vi misi piede quasi non credevo. Non credevo a quella casa, a quel prezzo, in quella zona, tutto sommato vicina alla città, tutto sommato in ottimo stato, giusto qualche sistematina ancora da dare qua e là, e sì, va bene, decidere su due piedi di andare a vivere in campagna era pur sempre una scelta che avrei dovuto ponderare attentamente, però, suvvia, alla fin fine si trattava di spostarsi a dieci minuti di auto, dieci minuti dieci orologio, dalla nostra residenza attuale. Come dire, da un rione all'altro di una città come Roma, per esempio.

Eppure, avrei dovuto dare ascolto ai segnali.
I segnali c'erano stati, eccome se c'erano stati.
E quei segnali mi dicevano: lascia perdere. Ma io andai avanti.

La primissima volta che presi appuntamento andai a vederla con Hasuna. Ne avevamo vista un'altra prima, qul giorno, bella sì, ma insostenibile economicamente, per noi. E mentre ci recavamo a questo secondo appuntamento ecco che... ci si buca la gomma. Madonne e santi vennero giù nell'abitacolo della nostra autovettura e quel giorno l'appuntamento saltò.
Ecco perché la seconda volta ci andai da sola.
Il beduino, lui, è scaramantico al punto bastevole da non averne voluto più sapere.
Quindi il mio innamoramento, il mio entusiasmo, e la volta successiva ci trascinai anche lui.
Allora si era di agosto e ancora non ci sembrava un problema il fatto che il sole non battesse in maniera importante sull'abitazione in questione.
Ma poi il tempo passò, un problema e poi un altro.
Facemmo il compromesso, giungemmo ad un accordo, ma mancavano i documenti.
Rinviammo il tutto, aspettammo e aspettammo.
Il geometra figlio fece qualche casino per tirarla in lungo, aspettando in una sanatoria che gli avrebbe permesso di sistemare alcuni inguacchi che rendevano difficile la vendita.
L'agente immobiliare si ammalò, e si eclissò per un tempo indeterminato. Poi rinvenne e non aveva fatto niente di quel che c'era da fare.
Era tutto molto scoraggiante.
E quindi passò settembre, giunse ottobre, arrivò novembre.
Iniziammo a pensare che la casa fosse davvero troppo buia e freddina, e l'inverno, a ridosso dei monti pisani, davvero troppo lungo e triste.
Fu la crisi, e il naufragio dei miei sogni di campagnola felice, quando poi capitò che quei mesi coincidessero con il tracollo finanziario definitivo dell'attività del beduino.
Eppure continuai a sbattermi tra banche, preventivi di mutuo, architetti, piani, catasto, notai, negozi con l'agenzia immobiliare, imperterrita, testarda e fiduciosa che quel che c'era da fare andasse fatto per raggiungere l'obiettivo. Iniziai a non dormire la notte, a sentirmi stanca e depressa di giorno, e mi chiedevo se in fondo ne valesse davvero la pena.

Oggi è passato ormai più di un anno e la risposta, tardiva, ce l'ho. La risposta era no.
Non vale la pena mettere un'ipoteca sul proprio futuro per un'illusione di stabilità.
La stabilità non vale la serenità.
La stabilità è davvero ciò di cui ho bisogno per sentirmi felice di me stessa?
Sebbene sia stata una scelta dettata da cause contingenti a me esterne, credo che la rinuncia finale a questo folle volo sia stata la più saggia. Infine l'ho vissuta come una vera liberazione quando, il giorno precedente alla stipula finale del contratto, con un giro rapido di telefonate, decidemmo di disdire i molteplici appuntamenti presi.
E così finì quell'avventura; l'avventura della casa che non fu mai. Tra tutte le mie case, quella che rimase, più delle altre, una delle millemila eventualità possibili, possibili e mai effettive.

Allora a cosa è servito tutto questo?
Tutto quel progettare castelli in aria, tutto quell'affannarsi dietro a parole incomprensibili, mai prima di allora bazzicate, a persone e cifre, valori e date, tutto quel calcolare, pianificare, immaginare sistemazioni ad hoc, tutto quello spiare a lungo, e per mesi, attraverso l'occhio indiscreto di Google Maps quella vita che sarebbe stata la mia, se solo le cose fossero arrivate in porto nel migliore dei modi possibili?
Forse è servito ad avere più chiaro il valore del mio presente, di ciò che volevo essere, di ciò che per me era più importante. La stabilità o un'illusione di essa? No: la libertà di poter fare ancora scelte diverse per la mia vita, senza vincolarmi a un debito ventennale, e a metri quadrati freddi, privi di vissuto precedente, tutti ancora da colmare di ricordi, da valorizzare di affetti.

Tra tutte le case che nella mia memoria hanno un posto, ed in cui la mia memoria ha tuttora dimora, c'è un posto della memoria per quella casa sul canalone, a ridosso dei monti pisani, al termine dell'acquedotto, il posto dei ricordi che stavano per essere e non sono mai stati, per un battito di ciglia della vita, l'altrove dove non ho mai costruito. La casa altrove.
Dopo tutto l'altrove...
L'altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.


Foto di repertorio: le mie spiate su Google Maps.
Vi chiederete: e dopo tutto questo tempo, tiri fuori questa storia?
Eh, sì, ce n'è voluta per rielaborare il lutto.
Diciamo che il post mi è stato ispirato da quest'altro, di un'amica blogger che da allora non ho più avuto il piacere di leggere, ma che di recente mi è venuta a cercare.
Che la fine di questo 2013 suggelli definitivamente questa storia, assieme ai rimpianti oziosi, ai se e ai chissà, alle felicità distanti e ipotetiche, sempre altrove dal qui e dall'ora. Che la vostra felicità sia qui e sia ora.
A voi tutti un buon futuro e un buon presente.

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