venerdì 5 settembre 2014

Quel che è tra l'arrivo e la partenza.


Mio fratello quest'anno è andato in vacanza in Croazia. Da solo.
Poi, va be', è andato anche in Normandia con amici, ma tutto ciò non riguarda questo blog, comunque.
E comunque, in Croazia, dicevo, ci è andato da solo, e si è fatto un bel giro.
Gli dico: mandami delle foto.
E lui mi manda delle foto.
Dico: Wow! Scrivendo, non parlando, sul cellulare. Lo scrivo tanto per scrivere qualcosa, la reazione doverosa che chiunque si aspetta in risposta ad una propria condivisione, ma intanto vorrei dirgli e scrivergli qualcosa di diverso, perché questo pensarlo in giro su suolo straniero, la testa leggera, il cuore a zonzo, gli occhi affamati di cose nuove, mi smuove qualcosa dentro e richiama sensazioni sopite, di vite trascorse e cose vissute tipo millenni fa.

In realtà l'unica volta che ho viaggiato da sola è stato quando andai per qualche giorno in Andalucìa, che è stato tipo nel 2008, anzi, senza "tipo".
L'Andalucìa l'avevo già visitata qualche anno prima, ché facevo l'Erasmus a Madrid e partii con due amici alla ventura. Mi era piaciuto molto quel viaggio, per tutto un contorno di situazioni carine e luoghi calienti, e certo, tornarci a così breve distanza di tempo denotava il mio scarso spirito di avventura. In fondo ci sono un sacco di altri posti che avrei potuto decidere di visitare, ma quell'anno mi trovavo con famiglia in vacanza sulla costa meridionale della Spagna, vicino ad Alicante, posto di merda, néh, non stiamo a sottilizzare. Vale a dire che stavo lì a due passi, e già interiormente e truffaldinamente avevo meditato una fuitina a solo, per allontanarmi un poco da situazioni familiari che in quel periodo, data la mia scarsa adattabilità nei confronti delle vite altrui, mal tolleravo, e per allontanarmi ancor di più, se possibile, dall'idea del mio quotidiano, sempre nella città palustre, dove avevo lasciato senza rimorsi e senza pietà il beduino a smazzarsi l'agosto lavorativo, a chiusura di un anno che ci vide abbastanza ai ferri corti, entrambi abbastanza saturi l'uno dell'altro per aver lavorato, vissuto, mangiato, dormito, respirato, gomito a gomito e spalla spalla per interminabili giorni di piedi pestati, polemiche verbali, sbuffi grugniti risposte tra i denti e risposte urlate in faccia.

Insomma, per farla breve, ero andata in vacanza con la mia famiglia scappando dal beduino e dai miei oneri di coppia, che all'epoca includevano l'odioso lavoro in macelleria fianco a fianco; ruffianamente però progettavo in cuor mio di scollarmi di dosso anche la vacanza con la famiglia alla prima occasione per potermi andar a rinfrancar lo spirito e distendere i nervi in un altrove in cui fosse bandita qualsiasi forma di legame parentale-affettivo a cui dover render conto di me o dei miei spostamenti, dei miei tempi e dei miei spazi, dei miei perché e dei miei per come.
E l'occasione fu una gita a Granada, al termine della quale, con una faccia da culo che ancora non saprei spiegarmi, annunciai che mi distaccavo dalla compagnia per proseguire da sola un piccolo giro turistico, e che mi lasciassero in stazione, prego.

A pensarci ora un comportamento abbastanza ignorante.
La comunicazione non è mai stata il mio forte, ma possiamo giustificare il tutto con la solita accomodante frase: "Ero ggiòvane. Avevo ancora tanto da imparare sul vivere civile".
Avvertivo allora un gran bisogno di quella forma di solitudine.
Avvertivo il bisogno di scrollarmi di dosso la parte di me che meno mi ero scelta, e che mi era rimasta appiccicata nella normale progressione degli eventi della vita, un po' passivamente e incautamente, e quella anche che gli altri mi avevano appiccicato addosso nei perenni e stantii giochi di ruolo familiari, ai quali tuo malgrado tendi sempre ad adeguarti e a ricadere.
Sentivo l'urgenza di calcare la terra coi miei piedi sapendo di avere avanti a me suolo inesplorato, orizzonti nuovi, sentire intorno parlare una lingua che non era quella in cui io pensavo, e sognavo, immergere me stessa in un contesto estraneo per poter essere davvero solo me stessa, chiunque io fossi.

Il viaggio è già di per sé un'occasione di ricerca e rinnovamento, ma viaggiare da soli, io credo, è l'unico modo in cui puoi arrivare davvero a portarti dietro solo il minimo bagaglio indispensabile: nessuna parola di troppo, nessuna discussione sulla strada da prendere, nessuna pausa non richiesta se non da te medesimo, nessuna espressione adeguata al contesto, nessun vissuto comune con altri, solo tu e il tuo bagaglio di identità e memoria, che un pochino si sovrappongono, perché non ci può essere l'una senza l'altra, e viceversa, e senza di esse non vi può essere neppure conoscenza, per cui l'idea stessa del viaggio sarebbe inattuabile, in loro assenza.

Hai solo la strada davanti a te, e tutto quel che ti lega al tuo mondo te lo sei lasciato dietro.
Non esiste stato di maggior comunione con se stessi e col mondo circostante che quando sei in viaggio da solo.


Ricordo l'arrivo a notte inoltrata a Siviglia, e la preoccupata ricerca di un posto dove passare la notte.
Ricordo la stanzetta della pensioncina che lasciai per andarmi a tuffare nelle strade della città, la mia visita in notturna, nell'aria tiepida di fine agosto, e il mio entusiasmo silenzioso alla vista spettacolare della cattedrale illuminata.

Ci sono momenti in cui ti dispiace un poco non avere nessuno con cui condividere le emozioni del viaggio, di un luogo particolarmente suggestivo, di un panorama mozzafiato, ma il rapporto che si crea con i luoghi che incontri quando viaggi da solo è inarrivabile, la familiarità e l'intimità che stringi con loro, e con cui sempre li ricorderai, perché diventeranno per te luoghi dell'anima.

Ricordo l'arrivo a Càdiz, in pulman, quasi volando sulla strada sospesa sopra il mare, le stradine della città vecchia, il clima di festa del sabato sera, la gente in costume per la fiera, i padiglioni dei falconieri, i giocolieri, i funamboli, la sensazione di esser giunta in un luogo magico, fuori dal tempo. Persino il mio locandiere sembrava un pirata.
I miei itinerari serrati, giornate intere in marcia, a tappe forzate, senza nessun riguardo per il riposo o per i pasti. Il giro della città la mattina successiva, salire su una torre e trovarmi davanti l'Oceano.

Ricordo di Màlaga la faticosa ascesa alla sua poderosa Alcazaba sotto il sole cocente, la stanchezza di una sera in cui girovagavo smarrita per stradone e distanze troppo lunghe da coprire a piedi, il senso di solitudine nella città semideserta, e Almerìa, coi profili magrebini delle sue case bianche e la decadenza pittoresca del quartiere gitano, arrampicato ai piedi del castello. Gli incontri balordi a cui mi esponeva la mia inusuale soledad.

Ricordo tutto questo e la sensazione di totale libertà, e onnipotenza, e la quasi complicità che instauravo con quelle città, vissute per un giorno, o per una notte e poco più, pronte a fagocitarti nei loro meandri, ma poi capaci di restituirti alla luce piena di aperture inattese, abbacinata e confusa.
E mi chiedo se in questo ricordo ci sia anche solo una puntina di nostalgia e rammarico, per una condizione di leggerezza e spensieratezza che ormai non mi appartiene più.

Invece mi stupisco a non trovarne, e ripenso al mio viaggio recente, io alla guida della nostra scassata veneranda auto, forte del sapere che tutto quanto vi è al mondo di più caro, io in quel momento lo avevo con me, su quell'auto, e me lo scarrozzavo su e giù per tornanti costiere e straduzze di campagna, in cerca della vacanza che fosse nostra.
Ché se per "vacanza" si intende la vacuità, allora non c'è niente di più lontano da quello che abbiamo fatto noi, col "riempire" quel nostro tempo insieme di ricordi, e immagini, e dar loro un senso.
Io come un proiettile sparato sull'autostrada, pensando alla responsabilità enorme di condurre quel carico di affetti che era il mio, e che fiducioso si rimetteva alla mia capacità logistica e pionieristica.
E non c'è nulla al mondo che mi abbia mai fatto sentire altrettanto forte, e appagata, e piena.
Scoprire che non sei mai stata così libera nei tuoi spostamenti, come ora, che sai che nel viaggio non ti stai lasciando dietro proprio niente di tutto ciò che ti appartiene, non ti stai scrollando di dosso nessuna faticosa identità, perché tutto ciò che fa parte di te e che dà senso al tuo esistere, è lì, in viaggio con te, nell'abitacolo rumoroso di quell'autovettura.



(Si ringrazia mio fratello per avermi offerto inconsapevole spunto per queste inestimabili riflessioni).

6 commenti:

  1. Questo post è davvero bellissimo. Scrivi sempre meravigliosamente, ma stavolta un po' di più!
    gina

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    1. Un pochino si tenta sempre di far meglio. Grazie di vero cuore.

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  2. Io ti leggerei ad oltranza...hai mai pensato di scrivere un libro Suster???
    Baci!!!!!!

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    1. Ah ah ah! Sì, quand'ero piccina, e prima di sapere che potevo scrivere un blog. :-)

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  3. Bello leggere del tuo passato viaggio.... sarà anche perché io non ho ancora mai viaggiato da sola, forse perché più che scoprire la mia identità ho sempre cercato di sfuggirla...
    Ma ancora più bello leggere, nel controcanto di quel lontano viaggio, le tue vacanze, piene di senso e affetti, che contano più di qualsivoglia identità... forse perché la rendono... abitabile.
    Bellissimo leggerti, Suster.
    E grazie per questo viaggio nei tuoi viaggi!

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    1. In effetti il viaggio più lungo lo facciamo nella memoria.
      Vale la pena viaggiare solo per poterlo poi ricordare, e raccontare; chè il viaggio di per sé è roba effimera, e quando sei arrivato, è già finito. Ed è proprio allora che inizia... (Che filosofa mio Dio!) ;-)

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