giovedì 1 novembre 2012

Umanità intorno a me.


Poi arrivano giorni che tutto sembra improvvisamente ingrigito e privo di interesse, di motivazione. Sarà il cielo lattiginoso e il freddo improvviso, da neve in bassa quota, sarà il ritorno dell'ora solare, sarà.
Al mattino io e Mimi pedaliamo con la nostra bicicletta (io pedalo e lei canta) e passiamo sempre di fronte al carcere.
Ci abitiamo praticamente accanto; il sabato pomeriggio dalla terrazza di casa riusciamo a vedere i detenuti che giocano a calcio nel campo del penitenziario; e nei lunghi giorni di protesta li sentiamo fischiare e manifestare fragorosamente contro le condizioni inumane in cui si deve vivere là dentro. Io non lo so: guardo i servizi in tv, e mi chiedo anche io a volte "Vale la pena?".
A volte sentiamo anche parlare i detenuti da un'inferriata all'altra, gridandosi parole incomprensibili, spesso in arabo, e mi chiedo se posso ad Hasuna di tradurre, ché i cavoli miei non me li faccio, e lui mi fa: "Lascia stare, barlano di droga".
Poi la mattina a volte arrivano le visite, e Mimi che fa domande sul mondo intorno a lei, io che in genere le rispondo dicendo la verità, anche se non sempre mi viene facile.
- Mamma cosa fanno quei bimbi?
Dice riferendosi alla piccola schiera di bambini che si affollano all'ingresso del carcere con le loro madri, mentre noi pedaliamo verso il nido.
- Vanno a trovare il loro babbo.
Dico io.
- E dove tta il lo'o babbo?
- Il loro babbo abita dentro questo... castello, e non può uscire.
Allora per adesso le domande e le risposte le bastano, almeno così pare, anche perché andando avanti non saprei davvero più come spiegarle e spiegarmi la logica di questo mondo in cui viviamo, e intanto mi incazzo in silenzio per quei bambini che dovrebbero essere a scuola e invece sono lì, a trovare il padre in carcere.

Qualche giorno fa invece mi ritrovo tra le mani un bigliettino con un numero di telefono e un nome: Natalia. Era nella mia agenda, tra le pagine infilato, e a tutta prima non riesco a ricordare chi sia questa Natalia.
Poi mi torna in mente un pomeriggio estivo che ero uscita a buttare la spazzatura, e proprio di fronte ai cassonetti chi ti incontro? Natalia, nelle vesti di una badante bielorussa sulla cinquantina, che mi aggancia disperata e piangendo mi chiede di seguirla, anche se non ci  capisco nulla di quel che mi dice, che c'è una signora malata, e che lei sta sostituendo una sua connazionale momentaneamente assente per ferie, ma che presto tornerà, mentre lei, Natalia, tornerà a non avere un lavoro, e allora io devo aiutarla a trovarne un altro, e non è che conosco qualche signora, mia mamma o mia nonna, una mia zia che ha bisogno di essere assistita? E a nulla vale che io le spieghi e le rispieghi che no, non conosco nessuno e qui in città non ho parenti, perché sono un po' immigrata anche io, dall'Italia per l'Italia, e disoccupata anche io, se vogliamo, e devo tornare a casa, perché ho lasciato la bimba che dorme a casa. Ma come faccio di fronte a una persona in lacrime a dire grazie e buonasera?
Allora, anche se da un momento all'altro mi aspettavo di essere cloroformizzata o tramortita e sequestrata da chissà quali bande criminali bielorusse organizzate, la seguo in una villetta, mi fa entrare e mi introduce in una stanza in penombra, dove giace a letto un'anziana signora, gli avambracci gonfi di punture e lividi e le gambe pure gonfie per l'età o il lungo decubito, o chissà che disfunzione fisiologica dovuta all'età o al diabete. Si alza imbarazzata, io più imbarazzata di lei per l'intrusione, ché non ci credeva davvero che Natalia sarebbe riuscita a traghettarle qualcuno in casa facendo la posta davanti ai cassonetti, e si copre con una vestaglia e mi viene incontro spiegandomi per bene la situazione, che lei era costretta a letto e impossibilitata ad aiutare la signora Natalia nella ricerca di un nuovo impiego perché anche lei in città non ha parenti, e anche io le spiego che purtroppo Natalia, nella sua ricerca disperata, ha arpionato la persona sbagliata, che io non le potrei mai essere di nessun aiuto, che al massimo posso aiutarla pubblicando su internet un annuncio a suo nome, dove si dice che lei cerca lavoro etc etc. e così mi faccio lasciare il bigliettino e prometto che se avessi mai saputo di qualcuno che avesse avito bisogno, subito l'avrei chiamata, e lei mi bacia e abbraccia, e mi ripete grazie, Dio ti benedica tu brava ragazza, e io mi sentivo un po' una merdina perché già lo sapevo che mi sarei impegnata il minimo indispensabile per aiutare Natalia, ma come fai quando vedi una persona in lacrime davanti ai cassonetti? Come fai a tornare a casa e a fare come se non avessi visto e sentito chiederti un aiuto che tu non potevi comunque garantire?
Chè io per quanto a tratti mi ritenga un po' una mezza disperata, per la verità non ci sono mai ancora arrivata al punto di fermare gente davanti ai cassonetti chiedendo tra le lacrime di aiutarmi a trovare un lavoro, e prima di arrivarci penso che proverei a battere altre strade (in senso metaforico).
E così anche quando poi, dopo qualche settimana Natalia mi ha telefonato (perché anche io le ho lasciato il mio recapito telefonico, non so perché mi ficco sempre in queste storie assurde) chiedendo spiegazioni di quel mio lungo silenzio, ho continuato a sentirmi un po' una merdina, nella mia impotente inattività, ma ho tagliato corto seccata, dicendo che il lavoro non me lo posso mica inventare, e che se mai sapessi di qualcuno che cerca una badante, sicuro che la chiamo.
Del resto non conosco nessuno che cerca una badante, accidenti!
Che tristezza però, ritrovare quel bigliettino, che continuo a non buttare, forse come promemoria per una buona azione mancata, per ricordarmi di non dimenticare quel senso di colpa per un aiuto che non posso permettermi di dare a qualsiasi sconosciuta che mi si para davanti ai cassonetti.

Questo Natalia e poi Sohat.
L'altro giorno siamo passati a trovarla, io e Hasuna, la signora Sohat, che ha avuto un incidente da poco ed ora è tutta rotta e dovrebbe stare a letto, ma è un carro armato umano e chi la ferma mai? Non fratture diffuse al bacino e al femore di sicuro. Lei che ha lottato con l'invalidità del marito per dieci anni, e combattuto contro l'ottusità e la negligenza degli inservienti delle strutture mediche, e contro la burocrazia del nostro Paese senza saper nemmeno leggere e per anni ha lavato flebo nell'acqua e sale per poterle riutilizzare più e più volte, e minacciato denunce ai giornali locali, e rifiutato soluzioni di compromesso, contentini per il silenzio, e alla fine l'ha spuntata e ha ottenuto l'assistenza a domicilio, cresceva due figli, e rammendava vestiti e puliva scale, e ora finalmente vedova e nonna, sgravata dal peso di un'infermità coniugale totalizzante.
Abitano in un piano terra che sa di muffa in tre famiglie. E' una conoscente di Hasuna molto affezionata a noi tutti e tre, e che sempre ci riempie di moine e riguardi ed anche di ingombranti seggioloni per bambini privi di imbottitura ereditati a sua volta da chissà chi.
Allora passavamo a renderle l'enorme e poco pratico seggiolone, che presto servirà alla sua nipotina di 4 mesi.
Ma siccome lei era per l'appunto in ospedale per un controllo, ci accoglie la figlia, una ragazza splendida, dolcissima, con un sorriso radioso e una calma e una serenità capaci di metterti in pace col mondo solo parlandole.
E mi spiega che non possono restare per l'inverno, che a giorni programmano di partire in Tunisia, perché da un anno sono disoccupati entrambi, lei e il marito, e non ce la fanno a pagare anche le spese per il riscaldamento della casa e non vogliono gravare sul bilancio domestico delle due famiglie con cui dividono l'appartamento. Allora vanno in Tunisia e torneranno, forse, in primavera. Problemi con la carta di soggiorno: non le hanno dato neppure l'assegno di maternità perché ancora non le hanno convalidato la carta.
Ma scusa, tu non sei nata in Italia?
Sì, sono nata e cresciuta in Italia, ma non sono italiana in effetti, mi dice lei, ma non c'è rancore né denuncia né lamentela nella sua voce e nella sua intonazione, e continua a sorridere sempre, e ancora di più le si illumina il volto quando mi mostra la sua bimba dormiente, e mi dice che va bene così, che è contenta perché in fondo hanno passato un anno sereno, e molte persone li hanno aiutati in tanti modi, e non si aspettava che ce l'avrebbero fatta in fondo essendo entrambi senza lavoro, e che la bimba stava bene ed era una benedizione, e a lei bastava questo, tutto il resto prima o poi si aggiusta.
Allora ho pensato che certi incontri ci vorrebbero più spesso, e ricordarsi di essere consapevoli di quanto si ha. Che non importa se ogni cosa non va proprio alla grande.
Mi chiedo anche perché io mi trovi assai più a mio agio tra extracomunitari, e se non sia perché in fondo mi sento un po' extra anche io da questa società, da questa "comunità" che di comunità non ha proprio un bel niente, ché siamo noi ad essere extra-comunitari, anti-comunitari.
E penso che magari consolarsi delle proprie sfighe pensando che c'è gente che sta peggio non è proprio il massimo: non è questo il punto. Il punto è: è davvero necessario avere tutto?
E' davvero utile affliggersi per ciò che non si ha, perché la nostra vita non è come vorremmo che fosse sotto tutti i punti di vista? Vale la pena lasciarsi andare in balia di quello che ci va storto, e vivere giorni di amarezza, che ricorderemo con amarezza?

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