domenica 26 febbraio 2012

Memorie libiche. Dall'henné al maharma: cose di vita quotidiana.

Alleggeriamo.
Stavolta nessun argomento serio e impegnato. Parleremo di cose futili, o almeno ordinarie, che ogni tanto ce n'è bisogno, di svaccare.


Henné.

O "henna", come dicono laggiù.
Tadàààn!



Le donne libiche ce l'hanno fatta: dopo insistenti proposte di sottopormi a questa ennesima infinita tortura, ho ceduto. Mi sono fatta dipingere le mani con l'Henné!
Solo le mani eh, ché la sola idea di scoprirmi i piedi e le gambe con quel freddo casalingo, mi faceva accapponare la pelle (e tralasciamo i problemi di peli superflui che non interessano a nessuno).
Il problema vero è che per realizzare questi fantastici disegni ci sono volute tre ore buone, anche con l'ausilio di mascherine di nastro adesivo che si vendono apposta in grandi fogli preforati, che laggiù vanno alla grande (eh, ne saprò qualcosa: ho un cognato che ha un emporio dove vende di tutt'un po', inclusi i famigerati "stampini" per henné).
Questa dell'henné per loro è proprio un'istituzione, una pratica quasi sacra! Oltre alle mascherine con i motivi prestampati un altro oggetto che va alla grande sono dei piatti di ceramica variamente decorati al cui interno si lavora la polvere di henné ad impasto, con acqua e succo di limone se ben ricordo, mentre tutto intorno si accendono delle candele fissate su appositi supporti, delle quali non individuo la funzione se non nella necessità di creare atmosfera. Me le immagino tutte lì, raccolte in cerchio, a dipingersi a vicenda... insomma un'attività collettiva e di gran valore ricreativo, che spesso coincide con i giorni di festa, o meglio, con le vigilie, perché si possano sfoggiare gambe e braccia pittate a dovere durante la festività.

Il fatto è che serbavo memoria della mia ultima seduta di henné già dalla scorsa venuta in terra libica, e quella volta, reduci da un viaggio lungo e faticoso, stanche e assonnate vi ci sottoponemmo in due, ignare del fatto che saremmo rimaste fino ad ora molto tarda della notte a farci inguainare e ricoprire le braccia di una specie di fanghiglia puteolente, l'impasto di henné, per poi andarci a coricare fasciate come mummie egizie per permettere all'impiastro di agire l'intera notte.
Ovviamente al mattino mi ritrovai viso e capelli pieni di grumi di fanghiglia secca e macchie nere e rossastre, poichè mi ero selvaggiamente stropicciata la faccia con le mani durante il sonno e le mie bende pendevano misere e inerti semisrotolate dai miei polsi.
Insomma, memore del tragico trascorso, non so com'è che ho accettato di prestarmi di nuovo a questo supplizio, e lo so bene che chi bella vuol apparire... ma devo dire che stavolta è stata meno tragica.
Sì lo so che a vederle così 'ste macchie nere sulla pelle fanno un po' impressione, che ti pare di avere la scabbia o che so io. L'han fatta pure a me la prima volta che mi son vista tutta maculata e non riuscivo a capire quale fosse la bellezza di questa usanza di dipingersi mani e braccia, spendendovi tanto e tanto tempo e fatica, che io già dopo il primo dito mi ero rotta le palle, e avrei interrotto volentieri.
Il punto è che loro lì non si pongono mai in conflitto con l'idea del tempo. Il tempo che si impiega a fare una data cosa è quello, e quello rimane, tutto il resto può aspettare, per quanto futile possa apparire lo scopo ultimo di tanto impegno.
L'henné comunque, ragazze, se vi capita, almeno una volta nella vita, va fatto. Mai come allora potreste veramente provare come ci si sente in una pelle diversa dalla vostra. E' strano ma ci si abitua.
Pensate che dopo il mio rientro in patria ho coinvolto la mia amica di sempre in un folle pomeriggio di henné, durante il quale lei ha offerto alla causa le sole mani, mentre io ho soddisfatto la mia vanità femminile tatuandomi addirittura il polpaccio e il collo delpiede. Assuefazione da henné? I miei sforzi per integrarmi nella cultura libica hanno fruttato questi sinistri risultati? Il contatto prolungato con le donne libiche ha stuzzicato quel senso sopito di femminilità vanesia che si celava in me? Chissà.




Inverno.

Esempio di cielo invernale in Libia.

Esempio di calzatura di bambina importata dalla fredda Europa

Esempio di calzatura di bambino autoctono della bollente Libia.
Da quanto constatato soggiornandovi tra gennaio e febbraio posso dire che l'inverno in Libia è fatto di giornate fredde fredde e giornate tiepide. Non fa mai veramente quel freddo esagerato dei nostri peggiori gennaio, grigi e uniformi, infiniti e cupi, di nuvole perenni e temperature rigide.
Diciamo che il freddo invernale si avverte più perché le persone non lo sanno affrontare, pare quasi che l'inverno li colga impreparati, di sorpresa, senza possibilità di difendersi dal calo delle temperature altrimenti vivibilissime da marzo a novembre.
Ma forse, invece, ero solo io a non essere pronta, che illudendomi di andare a stare al sud, ovvero, nella mia testa, al caldo, sono partita assai poco equipaggiata e assai poco consapevole del fatto che anche lì fosse inverno.
Per esempio:
Oggi fa mediamente freddo ma a tratti esce il sole e forse sto iniziando ad acclimatarmi visto che ho smesso di indossare i pantaloni felpati sotto la gonna e i calzini di lana sopra quelli di cotone. Infine ho preso a girare in maniche di maglietta visto che con gran lungimiranza ho portato un solo maglione a maniche lunghe, poi solo maglioni leggeri a mezze maniche, reputandoli più adatti allo stile e al clima libici.
Loro invece lo sanno bene, come dimostra il fatto che dispongano di un armamentario di coperte di lana praticamente impenetrabili, sotto le quali non soffri le rigide temperature notturne della casa. Il problema vero è sgusciarne fuori al mattino, soprattutto se capita una di quelle (sia pur rare) giornate di cielo coperto, ché non esce il sole a scaldare l'aria, con i suoi raggi diretti.
E' che loro sono anche avvezzi a questo tipo di freddo, e in fondo, attendono che passi con pazienza, svernando in casa, imbottendosi in diversi strati di vesti, infilando calzemaglia di lana sotto ai pantaloni ai bambini, che oltretutto girano tranquillamente scalzi anche nei giorni peggiori, accendendo un braciere attorno al quale raccogliersi a scaldarsi le mani congelate, attendendo alle mille incombenze della casa, che non permettono al tuo corpo di intorpidirsi in una stasi glaciale, ché tanto la primavera arriva in fretta.
Noi invece, nelle nostre abitazioni riscaldate a metano, non facciamo veramente i conti con il rigore invernale che quando usciamo, così diamo per scontato che il cappotto si debba indossare soltanto quando si esce di casa, mentre per me è stato l'esatto contrario, uscendo me ne liberavo, perchè il sole picchia.
Il bello è che la luce non manca mai, il cielo è di un azzurro impeccabile, screziato di nuvole bianche e colorate che si disfano in fretta, per lasciare il posto a macchie di sole che intorno alle ore centrali del giorno è capace di darti alla testa pure a gennaio.
Può piovere, a giorni, una pioggerella sottile e intermittente, soprattutto durante le ore notturne, che al mattino fa presto ad asciugare, ma basta a raffreddare la terra e l'aria, con sbalzi termici sorprendenti, come accade quando ti sposti dalle aree di luce a quelle d'ombra.
Il vento dal mare porta umidità e foschia, quello dall'entroterra polvere e cielo terso.

Le guide turistiche indicano i mesi di mezza stagione come i più indicati per effettuare un viaggio in questo Paese, e forse me lo spiego con l'imprevedibile andamento di questo inverno bislacco.
Sarà che ognuno è abituato al suo clima di origine, ma il fascino di questi Paesi caldi io continuo a vederlo più nelle loro bollenti stagioni calde che in questi luminosissimi, tersi e cinguettanti di stormi emigrati inverni di luce dorata e fioriture anticipate, ché non mi ci raccapezzo più nulla, e l'ordine naturale del tempo mi sembra tutto rimescolato, e fai presto a sudare sotto il tuo velo, e fai presto a sentirti addosso il sudore ghiacciato dalle raffiche impietose di un vento implacabile, sa sud o da nord, fa poca differenza.

Lingua.



Inshallà! Rahamukhallà! Mashahallà! Alhamdulillà!

Potreste cavarvela senza problemi disponendo di un modesto vocabolario di esclamazioni inclusive del nome di Dio nella maggior parte delle situazioni sociali.
Ma... alla lunga la magagna sarebbe scoperta. Come è successo a me in occasione di una visita in casa di un funzionario della città, che doveva stilarci alcuni documenti.
Lui è rimasto convinto per una buona mezz'ora che io parlassi correntemente arabo, tanto che mi ha invitato a passare nell'altra ala della casa, per far visita alla di lui consorte. Peccato che una volta lì, io mi sia ritrovata nell'assurda situazione di dover sostenere una qualche conversazione laddove non capivo letteralmente un'acca (perché in arabo ce ne sono almeno tre tipi, di "H", e a me sembrano tutte uguali).
Insomma, le mie conoscenze della lingua sono praticamente inesistenti, se si esclude un discreto repertorio di sostantivi abbastanza futili, se non sei in grado di legarli tra loro in una sintassi sensata e di qualche verbo basilare che però non riesco ancora a coniugare a dovere, perchè non sono ancora riuscita ad isolare una sola regola gammaticale da poter applicare.
Davvero complicata nella fonetica, nel lessico quanto mai articolato e ricco di sinonimi ed espressioni colorite, immaginifiche, difficilmente traducibili (come: ti tengo nei miei occhi, per dire che ho intenzione di prendermi cura di te), sfuggente perché articolata in un profluvio di suoni consonantici, aspirati o sputati che si rincorrono spesso accavallandosi, costipando le povere vocali, o direttamente omettendole del tutto, ché in fondo non sono così importanti nell'economia della lingua araba...
Eppure il dialetto libico per un italiano offre per fortuna alcuni appigli che consentono almeno un minimo di adagiarsi in alcune somiglianze, nell'eredità di alcuni termini, per lo più tecnici, legati alla meccanica moderna, o alla cucina (come l'immancabile "macaruna" quasi ad ogni pasto).
Per come son fatta io, che raramente mi butto in una conversazione se non mi sento sicura della mia padronanza dell'idioma, a imparare la lingua semplicemente parlandola e ascoltandola, non mi ci sarebbero bastati tre anni. Ma ho anche avuto modo di constatare che il mio approccio "scolastico" lì non mi avrebbe giovato: l'unica volta in cui ho provato a porgere a una mia interlocutrice (una cugina in visita che mi chiedeva non so che, ripetendo con insistenza sempre le stesse incomprensibili parole, come se la reiterazione continua potesse aiutarmi nella comprensione) il mio utilissimo dizionario arabo-italiano, quella me lo ha restituito dopo esserselo rigirato per qualche minuto tra le mani, con un grande punto interrogativo stampato in viso, chiedendosi probabilmente cosa accidenti pensavo che ci dovesse fare con quel libro che le porgevo. Però almeno mi tolsi dall'imbarazzo di risponderle, perché non mi rivolse più la parola.

Nota per me: potevo anche evitare di portarmi il dizionario di arabo. Mi sarei risparmiata il peso e l'ingombro nel bagaglio.

Maharma.

Non è la tipica donna libica.
Ecco qui, gente: la trasformazione è quasi compiuta del tutto.
Mia mamma quando ha visto le mie foto in questa mise tra un poco non si infartava.
"Figlia mia, così mascherata, giravi?" E' stato il suo commento ripetuto e accorato.
Per la verità adeguarmi a questa moda non è stato l'aspetto più difficile dello stare lì, è stato quasi naturale, visto che il girare senza mi faceva sentire un poco sotto i riflettori.
Ma comunque la trasformazione non è ancora completa: in ultimo quelle assatanate (sempre loro: le donne libiche mie ospiti) sono riuscite persino a vestirmi di tutto punto in costume tradizionale della festa, a truccarmi gli occhi come solo il più degno dei trans sarebbe in grado di fare, a lisciarmi la cotonata chioma a colpi di spazzola e fon, a caricarmi infine di pendagli d'oro, anelli e bracciali, che mi pareva d'essere un guerriero cinese infilato nella sua corazza, invece ero solo una sposa libica.

Per queste complicate operazioni di vestizione c'è voluto l'interminabile tempo di due ore, ma a me, che a mala pena dedico alla mia toeletta mezz'ora del mio tempo giornaliero, son sembrate diciotto.
Fortunatamente non conservo foto di questo esperimento raccapricciante, poiché tutto ciò accadde la sera prima della nostra partenza, e dimenticai (diciamo dimenticai) di passare le foto (che non mancarono) nel pc. Ma se fate i bravi magari un giorno con una buona dose di faccia da culo ve la faccio pure vedere, la mise da sposa libica, chissà.
Ah, diete che non ne morrete, se pure non la pubblico? E vabbé, allora come non detto.

Per ora accontentatevi di questo mio eccellente primissimo piano con maharma.
Ho detto "maharma"! Sarebbe l'affare che si attorcigliano intorno alla testa.
No, qui non si chiama chador, quello è un termine che usano solamente i paesi arabi di lingua francese.
E con mia grandissima immensa soddisfazione, alla fine della mia permanenza avevo forse imparato la raffinata arte dell'intorcinamento, come si può facilmente evincere dalla foto.
Lasciamo stare che si tratta di una sciarpa indiana ricevuta come regalo di Natale da mia cugina: era l'unico drappo con cui riuscivo a vedermi bardata senza sentirmi mia nonna, o qualsivoglia altra castigata matrona di due secoli fa, e la cosa mi deprimeva un poco. Curioso come la non coincidenza dell'immagine che abbiamo di noi con il nostro aspetto effettivo incida negativamente sul nostro umore.
Con questo invece facevo un poco contadina lituana, o profuga armena, fate voi, e per quanto il rosso acceso non sia usato troppo dalle donne libiche, o forse proprio per questo, mi ci sentivo più a mio agio.
Che poi non si dica che in questo blog non si parla anche di moda!

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giovedì 23 febbraio 2012

Memorie libiche. Quel che rimane.

Guerra

Cosa rimane di una guerra perché la si possa raccontare da spettatori tardivi?
Cosa rimane di un Paese in cui per mesi si è andati avanti a forza di "chi la dura la vince?". Cosa rimane di una città nei racconti e nei ricordi di chi vi ha vissuto assedio, invasione, ribellione, repressione, strada per strada e casa per casa?
La memoria di amici scomparsi, figli e parenti, buchi, assenze, rottami, e armi tantissime in giro, ovunque.
Si spara ancora, vai a sapere perché, forse semplicemente perché ci sono le armi.
La paura della prima notte, svegliata da un boato incredibile non appena preso sonno, si è pian piano trasformata in abitudine: non è niente, dicevano tutti, è che fanno brillare le mine. Oppure: è la gente che spara in aria, per i matrimoni.
Solo una volta ho avuto modo di preoccuparmi per davvero un po':
Qui negli ultimi giorni si son sentiti un po' di spari.
Pare, dicono, che i militari di Misurata stessero provando le armi per andare a Beni Walid, dove dei seguaci di Gheddafi erano usciti a manifestare con le bandiere verdi.
Sono andati e tornati, comunicando un falso allarme, per quanto il dubbio da parte mia rimane...
Il resto sono le parole di chi ci è stato, in guerra, chi combatteva, chi aspettava, rifugiato, chi è stato preso, ed è scampato.

"Quanto è lontana Sirt? 50 chilometri? A me sono sembrati mille. Sembrava che la città si allontanasse da noi, man mano che ci avvicinavamo, marciando, combattendo, e non si arrivava mai. Sapevamo solo che dovevamo arrivare a Sirt, prenderla. Alle volte pensavo davvero che per qualche sortilegio ci stesse sfuggendo, e non ce la facevo più.
Poi... poi sono stato colpito. Andò così, no, non è stato così terribile come può sembrare.
Quel giorno avevo lasciato a Ali (ndr. mio fratello) il giubbotto antiproiettile, quello buono, ché non ce n'era per tutti, perché lui doveva andare a combattere con quelli in prima fila. Noi invece rimanevamo nelle retrovie.
Io credo che quel giorno me lo sentissi, perché la mattina, appena sveglio, chiesi della carta e iniziai a scrivere, e io non ho mai avuto questa abitudine. Ho scritto dei debiti che avevo in giro, quanto da saldare a chi, delle cose che volevo lasciare ai miei fratelli, di come mi sentivo. Mi sentivo bene, però, in pace con me stesso, e mi sono chiesto se quel giorno forse sarei morto, e mi sentivo pronto.
Quando è arrivato il razzo, non so cosa è successo, un secondo prima sono caduto, mi sono ritrovato a terra, e questa è stata la mia salvezza. Mi dissero dopo, i medici, che se la scheggia mi avesse preso frontalmente sarei di sicuro morto. Invece è entrata dall'alto, di sbieco, e ha avuto tempo di fermarsi, anche se è arrivata nel cuore, però non ha lacerato la membrana che lo protegge.
Mi sono alzato e non ho capito subito quel che era successo. Non ho capito di essere ferito. Ho visto il mio amico con la faccia piena di sangue che correva a chiudersi in macchina. Lo volevo seguire ma mi sono sentito mancare le forze. Poi ricordo solo momenti, isolati, quando riprendevo coscienza, a tratti. Che mi sollevano e mi portano, mi vogliono caricare in auto, ma il mio amico è terrorizzato, non capisce più niente e si è chiuso dentro, non vuole aprire. Allora mi viene da ridere, anche se capisco che forse sto per morire" (liberamente trasposto da traduzione hasunesca).

Questa una specie di intervista che ho fatto a Mohammed, durante la lunga attesa per la consegna di alcuni documenti, chiusi in macchina a sudare sotto il sole. Mohammed, che ha 18 anni, è il mio cognato più giovane, e si è beccato una scheggia nel cuore che ancora sta lì, perché un'operazione per levarla è stata ritenuta troppo rischiosa.


***
Abdulhadi ha 27 anni, e durante il primo mese di guerra, nel marzo dello scorso anno, è stato preso prigioniero mentre si trovava in casa di alcuni cugini, dalle truppe mercenarie di Gheddafi, che in quella prima fase del conflitto marciavano verso Benghasi in spedizione punitiva, attaccando e razziando la popolazione civile. Lo hanno portato in una prigione di Tripoli, dove è rimasto fino a settembre, quando la città è infine stata presa dai ribelli.

"Quando mi hanno preso, eravamo a casa di mia zia, io e Ali, tre cugini e uno zio.
Ci hanno subito legati e messi a terra, poi hanno iniziato a picchiarci. Mio cugino stava male, chiedeva dell'acqua, hanno iniziato a picchiarlo selvaggiamente, chiedevano dove avevamo nascosto le armi, ché lo sapevano che eravamo dei ribelli. Cosa facevamo tutti insieme in quella casa? Non sapevamo che c'era il divieto di riunirci? Rispondevamo che abitavamo lì, che eravamo parenti, e tutti di Misurata, che non avevamo fatto niente, e che non sapevamo niente della ribellione, che era vero, in quei giorni non ci era arrivata ancora nessuna notizia chiara di quel che succedeva a Benghasi, e le uniche informazioni erano quelle delle due tv di Stato. Ma le reti arabe già iniziavano a parlare di una rivolta, di rovesciamento del potere, e il Potere aveva risposto, subito, con energia.
Hanno picchiato mio cugino così tanto che ha perso i sensi. Lo hanno fatto rinvenire e hanno continuato a picchiarlo. E' morto lì, accanto a me, ero disteso vicino a lui morto.
A un altro cugino hanno tagliato tutte le dita delle mani e dei piedi, gli hanno spezzato le gambe.
Poi ci hanno portati via, sempre riempiendoci di calci e colpendoci con i fucili.
In prigione non capivo quanto tempo era passato, e non sapevo dove erano gli altri.
La cosa peggiore era questa: non sapevo nemmeno se erano ancora vivi. Dopo ho saputo che Ali era riuscito a scappare, ma solo quando alla fine sono stato liberato.
Sì, è stato terribile, ma io ora sono sereno. Ho visto la morte in faccia, letteralmente. La mia e quella degli altri. Ho visto gente morta, gente pestata a sangue. Mi hanno pestato, continuavano a cercare di estorcerci confessioni che non esistevano. Qualcuno non ce la faceva e cedeva, ed erano i pianti più amari quelli di chi incolpava qualcun altro. A cosa serviva tutto questo non lo so.
Ho creduto che avrei perso la mia gamba, che me l'avrebbero dovuta tagliare, perché era ferita e non guariva, ma invece ora sono vivo e intero. Ho passato la fame  e le botte, ho visto la morte e la crudeltà più feroce.
Ma so di essere stato fortunato. Ora non ho più paura di niente."

***
"Quando scappammo da casa nostra, perché arrivava l'esercito da sud e svuotava le case, rapiva i bambini, ammazzava chiunque, siamo andati a stare da mia sorella, che abita di fronte al porto. Quella era la zona più lontana e protetta dai combattimenti e dai bombardamenti. Per questo motivo in quella casa ci eravamo rifugiate tutte, anche altre sorelle, con i figli più piccoli e con le nuore. Eravamo circa (fa un rapido conto enumerando nomi e ruoli) settanta persone, pensa!
Di notte sentivamo le bombe e gli spari, i colpi dei cannoni e c'era sempre qualcuna che iniziava a piangere e lamentarsi.
Io allora le zittivo. Ero stanca, e volevo dormire, non mi importava che la casa mi crollasse in testa: da quando avevo saputo che i miei figli erano stati catturati, e che forse erano stati uccisi, non importava più niente, potevo anche morire."

La guerra è ancora viva e presente nei discorsi e nei racconti di queste persone.
Forse se avessi avuto una maggior padronanza della lingua sarei riuscita a saperne di più, anche senza bisogno di chiedere, di farmi tradurre, ma semplicemente ascoltandoli parlare tra loro.
C'è un distacco di fondo, una leggerezza nel parlarne che mi suona come un grande sospiro di sollievo, il senso di liberazione di chi ha passato il peggio e può tranquillamente lasciarselo alle spalle.
Quel che ne resta sono racconti e ricordi, evocazioni concitate di quei giorni, e il dolore di chi ha perso qualcuno di caro, un figlio, un fratello, tante fotografie di volti, soprattutto giovani, esposte sulle strade, nei cartelloni pubblicitari, nelle vetrine dei negozi, sulle porte delle case, ai finestrini delle auto, perché chi passa li veda e ne serbi la memoria, e possa offrir per loro una preghiera a Dio.

***

Con Hasuna siamo andati a vedere quello che qui chiamano il "museo" della guerra, sebbene di museo non abbia per la verità gran che. Lui voleva fondamentalmente vedere le foto commemorative dei suoi amici morti, e cercare tra le altre facce, se per caso non scovasse qualche altro conoscente, esercizio a mi dire quanto mai sfibrante e angosciante, ma che dire? Mi accompagni? Va bene.
E' stato abbastanza straziante. Tra l'altro vi abbiamo incontrato il padre di uno di questi amici morti il quale ci ha invitati ripetutamente e con insistenza a casa sua, visita che credo mi risparmierò. Non ce la posso fare.
Mimi ha giocato a lungo tra le armi e i mezzi pesanti raccolti in quel luogo a memoria della guerra appena trascorsa. Mi ha fatto un poco impressione vederla giocare così con degli strumenti di morte.
Ma in fondo ho poi capito che gli oggetti non hanno di per sé  un reale potere malefico se privati della volontà di chi li utilizza e ne finalizza lo scopo per il quale furono ideati e concepiti.
Estrapolati dal loro contesto rimangono inerti e complessi aggregati di parti metalliche variamente assemblate, con i quali a rigore una bambina di un anno può tranquillamente giocare senza intuirne il potenziale mortifero.
Senza essere al corrente dei loro trascorsi, quegli oggetti, fermi nell'istante del qui ed ora, nella loro perfetta inutilità, ci rappresentano solo un pezzo di Storia recente, onore e gloria dei caduti, dei vivi, della vittoria, espressione materica e concreta della retorica che ammanta ogni rivolgimento epocale della Storia universale o individuale dei popoli.






***

Girare i primi giorni sul pick-up militare di Ali mi ha fatto un po' impressione, con quella mitraglia montata dietro e i finestrini oscurati, lui in divisa mimetica, ché me lo ricordavo sedicenne che costruiva gabbie per uccelli, e le rivendeva al mercato, sempre taciturno e sorridente, con quei suoi modi pacati. Che poi sono gli stessi che ha ora. Non me lo immagino a sparare contro un altro essere umano. Eppure ha un fucile, e lo tiene sotto il letto, quando torna dal servizio di ronda notturno e si sdraia a recuperare il sonno perso. Tutti hanno un fucile qui.
Come dev'essere stata la guerra, per chi l'ha combattuta? Chissà se ci hanno capito qualcosa, loro.
Io, per quanto mi sforzi, non riesco a capirci gran che.
-Vedete quel palazzo tutto bruciato? Quello è stato un casino prenderlo. (Traduce Hasuna). Eravamo una trentina e siamo rimasti meno di dieci.
Lo guardo incredula, perché io questa cosa della guerra proprio non me la figuro come realtà effettiva e reale, presente e concreta, malgrado i segni tangibili, ciò che è rimasto per le strade di Misurata.
Ci dice di fare le foto ai palazzi, se ci va, ma a me non va molto. Che bellezza ci può essere a fotografare un palazzone semidistrutto e carbonizzato?
Eppure scatto, ché non è detto che solo ciò che è bello sia degno di essere ricordato, ché non sempre ciò che è reale è bello, ché non sempre ciò che sembra bello è reale, e allora tra il vero brutto e le belle favole, stavolta lascerò spazio al vero, così com'è.



***

La decisione di andare a vedere la casa distrutta è stata sofferta, ma anche stavolta mi sono accorta che lui ci teneva, ad andarci con me. Presagi funesti lo inchiodano lontano da essa, lui che, sostiene, questa guerra l'ha sempre sognata, sin da bambino, e sognava di morirci, ed è convinto di esser scampato inspiegabilmente al suo destino. Ho smesso di contraddirlo su questo argomento: non ne veniamo a capo.
Entriamo ed è tutto carbonizzato.
Mohammed ci guida tra le stanze: non c'è molto da vedere, poi in giardino dove mi dice che sarebbe meglio io non camminassi tra l'erba, ché hanno tolto tutte le mine visibili ma... non si sa mai. Mi affretto a saltellare via dal prato nella mia lunga gonna, smadonnando un po' tra me, della flemma dannata di questi libici, anche in questi frangenti allarmanti.
Mi chiedo che impressione faccia vedere casa tua, la casa dove sei cresciuto, ridotta in cenere, ma poi penso ai soldati che sono entrati in quella casa, l'hanno occupata per giorni, che avrebbero ucciso chiunque vi avessero trovato, probabilmente, che per fortuna non ci hanno trovato nessuno, per un pelo, a come dev'esser stato scappare via, con tanti bambini, alla notizia delle truppe che entravano da sud, pensare a figli per le strade che non giocavano più a fare la guerra ma che la facevano per davvero, e aspettare che tornassero (vivi) ogni volta che andavano via, e mi accorgo di come tutte quelle persone che io avevo imparato ad amare in quei giorni di convivenza, per un battito di ciglia della casualità avrebbero potuto non essere più.



***

Come ci è venuto in mente questo tour nella distruzione non saprei, è che ti viene voglia di capire fino a che punto tutto ciò sia possibile. Quello che riesci a vedere a distanza di mesi, non è molto, non è senz'altro ciò che ti aspetti: solo scheletri di cemento armato e muri crollati, soffitti sfondati.
Cosa rimane di quella guerra? Resti.
Resti dei conflitti a fuoco i buchi sulle facciate di case e palazzi, moschee crivellate di colpi, automobili bruciate sul ciglio della strada, pali divelti, slogan a caratteri grossi un po' ovunque, insulti e caricature del dittatore, il grande nemico: "Il posto del prepotente è la cloaca della Storia" leggiamo su quel che rimane di un'auto a bordo strada.
Si alza un gran vento carico di polvere e tutto acquista un'aria surreale e onirica, un po' lontana nel tempo, offuscata.

Quel che rimane della guerriglia per le strade della città sono i bivacchi delle milizie, quelle nemiche, e quelle cittadine. Tra le macerie, materassi e casse di bottiglie, vuote, resti di vestiti, di cibo, di fuochi, bossoli dei proiettili in gran quantità, un po' ovunque.
Siamo arrivati in un posto, una piazza: Maidan Ramadan Suehli, nome di un grande patriota libico, dell'altra guerra, quella contro gli Italiani. Ci ha portato qui Hassan, che conosce questi posti e ci guida sicuro: "Questa era una roccaforte delle milizie di Gheddafi, quando siamo arrivati qui sono fuggiti, lasciando indietro tutto quello che avevano rubato".
Ci guardiamo intorno: oggetti, vestiti vari, una scarpa, i resti di una batteria (una batteria per fare musica, intendo), di tutto un po', persino un brandello di una foto del Colonnello. Quel che rimane di quei soldati: chissà che fine avran fatto?

Mi sembra tutto molto irreale: essere lì, dove prima erano accampati questi uomini, guardare tra le loro cose, tra quello che hanno lasciato.
Questa doveva essere una bella piazza, anche.
La delimita un portico di ampie arcate regolari (qui c'era il mercato, un tempo, ci dice Hassan) e la domina un grande edificio, massiccio, in stile moresco, color sabbia. Una chiesa, ci dice. Come, una chiesa? Sì, una chiesa vecchia. Vecchia nel senso di antica o nel senso di vecchia? Vecchia. C'è anche il campanile, in effetti: è proprio una chiesa. Ma di che periodo? Insisto io. Di quando gli Italiani erano in Libia o di prima? O dopo? Vecchia, non lo so. Questa era una zona dei cristiani, ma sono costruzioni vecchie. Ok, mi ripropongo di cercare info su piazza Ramadan Suehli una volta in Italia, scatto anche una foto alla targa, tiè, così non mi scordo (ma la ricerca non ha prodotto alcun risultato, con buona pace della storica dell'arte che è in me).
Intanto siamo qui ed è tutto un po' triste: questi diversi passati che si accavallano sullo stesso luogo, mischiandosi, e non lasciando più capire quale distruzione abbia la precedenza sull'altra.
Quel che rimane sono brani di vita di gente che ha combattuto contro altra gente, rimangono monconi di palme, mozze e bruciate, abbattute, divelte.

Ma poi, tra la poca erba, ho trovato un fiore piccolo piccolo e profumatissimo, che ho raccolto per portarlo a Mimi e ho pensato che anche quando non ti par di trovare che bruttura, anche in mezzo al peggio del peggio che l'umanità è capace di tirar fuori, si può infine trovare almeno un poco di bellezza, spontanea, gratuita.












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martedì 21 febbraio 2012

G come gatto: gatti libici per Roba da Gatti.

La pupa si è dovuta rassegnare all'evidenza.
Non che non ci abbia provato...





I gatti libici non si lasciano prendere!



Smilzi e ossuti, guardinghi e circospetti, ti guardano da distanze di sicurezza...


 Rintanati in qualche anfratto o appollaiati laddove 80 cm di essere umano mai potranno arrivare...





Alla fine ha dovuto prendere atto della sconfitta!

Roba da gatti, la rubrica del martedì.

domenica 19 febbraio 2012

Memorie libiche. Grande grande famiglia.


Lo so che sembrerò ripetitiva, che ne ho già parlato e riparlato, ma questo della famiglia è stato in effetti l'aspetto più significativo della mia vita laggiù. Merita per questo un capitolo tutto suo, e non è certo detto che l'argomento si esaurisca qui.
C'è da fare una debita premessa ai miei appunti sul campo: a detta dello stesso interessato signor Hasuna, che della famiglia è il primo rampollo, la famiglia in cui io ho navigato per un mese è una famiglia estremamente tradizionalista, oserei dire all'antica. Certo a questo avrà un poco contribuito il carattere burbero del capofamiglia, la sua formazione militare, il suo essere a sua volta il primogenito di un altrettanto numerosa e prolifica famiglia di origine, o il fatto di essersi sposato giovanissimo e dietro accordo delle famiglie, altri tempi, altra mentalità, altre consuetudini.
Fatto sta che il mio campo di osservazione è stata questa, e non altre famiglie: lungi da me la pretesa di voler generalizzare. Chissà, sicuramente anche in Libia i tempi cambiano, la gente si adegua, i giovani smaniano, e la famiglia pure, di conseguenza, modificherà impercettibilmente e sempre più la sua forma tradizionale, per lasciar spazio a nuove esigenze, nuove aspirazioni, nuovi tipi di rapporto.


Famiglia.

Grande, grande famiglia: io in effetti mi ritrovo con una quantità notevole di cognati e cognate e la pupa con una quantità non indifferente di zii e zie.
Jamal  ha 30 anni, Hassan ne ha 28, Abdulhadi 27, Ali 25, Monà 22, Zenab 20 e Mohammed appena 18, e questa è solo la prima tranche. Perché poi ci sono Fatma (13), Safah (11), Ahmed (9), Marua (7), Aiub (5), Basma (4) e Aimen (3).
Ecco, tanto per rendere l'idea.

Ci tengo a dire che io in mezzo a queste persone mi sono trovata benissimo: nessuna rimostranza da muovere nei loro confronti, sono stata trattata con un affetto e un'attenzione, una disponibilità e una gentilezza che non avrei potuto desiderare o immaginare maggiori, e i miei rapporti con loro improntati a una generale spontaneità e intesa (salvo che col burbero suocero, preciserei) malgrado le ovvie difficoltà comunicative.
Si tratta di persone estremamente aperte, schiette, semplici e, non mi viene altro termine, pulite. Tutte, a loro modo, belle e interessanti, ricche, in sentimenti e capacità di dare e di darsi all'altro.
Devo dire che in generale la pacatezza dei rapporti e del vivere che mi sembrava di respirare lì in mezzo mi faceva spesso sentire come una nota stonata, avendo avuto modo nel corso della lunga convivenza, di mettere in luce i miei pessimi momenti di insofferenza, astiosità, esasperazione, intemperanza , scorbuticità e musonaggine (fortuna che la tipa del piano di sotto per contro era davvero una gran rompiballe, e a gareggiare con lei avrei sempre e comunque perso).

Cosa annotare sulla vita in famiglia? La famiglia qui è un luogo in cui ci si confronta, ci si aiuta e sostiene, si cresce, si impara (i più piccoli dai più grandi), si fanno esercizi di autonomia e si dà grande importanza all'altro. Si condivide, quasi tutto per la verità e raramente ci si pesta i piedi. I bambini appartengono alla famiglia, più che alla mamma: orgoglio e ansia di farsi approvare dai fratelli maggiori, apertura a spazi comunicativi in cui i più piccoli si possano raccontare e partecipare alle attività dei grandi. In generale una grande ricchezza di esperienze e di socialità.


Ma... la famiglia in Libia è un concetto dai confini ampi e assai poco definiti.

Ecco quanto annoto in proposito:

I rapporti umani e familiari qui sono complicati per la mia sensibilità, figlia della civiltà borghese post-industriale.
La famiglia è patriarcale, gerarchica, i confini tra i nuclei familiari al suo interno chiari solo per chi vi appartiene.
I parenti da parte materna hanno un nome specifico: "Kawali" (trascrizione fonetica approssimativa) che io ricordo con facilità perchè mi fa pensare ai cavalli. Dunque i parenti da parte di madre per me sono cavalli.
La famiglia paterna invece non ha bisogno di altri appellativi perché è generalmente a quella che si fa riferimento. E' intorno alla famiglia paterna che tendono a svilupparsi tutti i successivi nuclei familiari; anche la sposa di un figlio finisce nell'orbita della famiglia di lui, per quanto continui a mantenere contatti con la propria.
Di fatto è come se ne uscisse. Con questo fatto si spiegano almeno due cose: perchè Iman, mia cognata, è sempre a casa della suocera, cosa che se io potessi eviterei volentieri.
L'altra è l'usanza da parte della famiglia dello sposo di offrire in dono alla sposa per il matrimonio un tot quantitativo d'oro. In pratica una dote al contrario.
E' come se i parenti dell'uomo offrissero un riscatto per l'entrata della donna all'interno del loro nucleo familiare (la donna è un plus-valore all'interno della famiglia).
Se vogliamo svilire la cosa, è come un contratto di compravendita, e in fin dei conti in un tempo non tropp lontano doveva trattarsi di una cosa del genere.

Le tradizioni che resistono salde ai cambiamenti globali portano in sé il segno residuo di un tipo di civiltà ormai estinta, o in via di estinzione, di cui forse non è neppure del tutto viva la coscienza.
Quando ho chiesto ad Hasuna che senso avesse che uomini e donne (appartenenti a diversi nuclei familiari) non si potessero incontrare all'interno del perimetro domestico, ma fuori sì, lui non ha saputo rispondermi altro se non che era tradizione.
Poi però vivendo e osservando ho forse capito. Il divieto a incontrarsi in casa non riguarda tutti gli esponenti di sesso maschile e femminile in seno alla famiglia, ma solo quelli al di fuori di un certo livello di vicinanza parentale.
Se arrivano cugine in visita per intenderci, loro cercheranno di non incontrare i propri cugini adulti, almeno se maritati (o soprattutto se). ma su questo punto sorgono poi delle deroghe.
Se però dovesse arrivare in visita (per disgrazia) la moglie di un cugino, guai a quel maschio di famiglia che osasse farsi vedere i giro per il "gineceo" (mi permetto questa contaminazione con il mondo dell'antica greia, sebbene non esista nulla di simile in Libia, non vorrei essere equivocata).
La mamma vigila con rigore a che questa regola venga osservata e rispettata e le giovin donzelle si scherniscono pudicamente attendendo fuori dall'uscio della sala che l'eventuale presenza maschile intrusa si sia dileguata prima di fare il proprio ingresso (pazzesco eh?).
Questi divieti non sussistono però tra cognati dell'identico nucleo familiare (per fortuna, se no sarei impazzita). Sia io che Iman, cioè, possiamo incontrarci e parlare (parlare???) liberamente coi nostri cognati, maritati o no (quella del contatto fisico è un'altra storia, niente stretta di mano per i saluti, di scambio di baci fraterni sulle guance, poi, non se ne parla nemmeno! Attenti a sforare se mai vi trovaste a passare di lì!)

E' tutto un po' complicato a doverlo imparare da forestiera, ma assai di più da spiegare per iscritto.
Io comunque, in questi complessi balletti per non incontrarsi, ci vedo il residuo di una società in cui la donna, in quanto bene privato, andava preservato da sguardi e vicinanza di possibili pretendenti antagonisti, compresi gli appartenenti alla medesima cerchia familiare (chè la carne è debole, eh!)

Mi sembra di atteggiarmi ad antropologa quando osservo e annoto queste cose. Ma davvero, la curiosità che suscitano in me è simile a quella di chi osserva il comportamento sociale di un gruppo animale di qualche strana specie sconosciuta (il pangolino africano?), tanto diversi siamo nelle nostre usanze, nei codici espressivi e comportamentali, nel nostro considerare normale una cosa che per altri non lo è affatto.











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