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venerdì 1 luglio 2011

Filastrocche: radici e tradizione

Sono il risultato di un curioso miscuglio del caso e delle vite di altre persone, arrivate su questo mondo prima di me.
Mia madre era l'ottava di nove figli, settima femmina in ordine di apparizione, di una famiglia di modeste origini contadine dell'entroterra sardo. Giovane dalle brillanti speranze, lasciò il nido natio, grazioso paese adagiato tra i monti della Barbagia nuorese, per seguire le proprie aspirazioni di vita, studiare medicina a Roma e diventare medico psichiatra, trasferendosi quindi, come si dice ancora oggi laggiù, "in continente", ove mise su famiglia. E qui intervengo io.
Non mi sono mai sentita particolarmente radicata nel tessuto folklorico della mia città di nascita, potendo vantare d'altro canto una romanità risalente a non più di una generazione.
Per contro posso appropriarmi in parte delle mie radici materne, che in quanto isolane e montanare, si rivelano assai più salde e profonde, quasi viscerali, delle mie cittadine plurinnestate di contributi diversi.
Quindi io la lingua di mia madre non ho mai imparato a parlarla, ma la comprendo in parte, e conosco tutta una serie di filastrocche, residuo orale di quella cultura popolare contadina che lei si porta dentro e che ci ha trasmesso così, quasi per osmosi.

Dunque ecco quelle che vorrei oggi presentarvi:
Serrali serra
palas a terra
palas a muru
su serradore
a bibé bole
a mandi'are
a trorrare a serrare.
Traduzione:
Sega sega
spalle a terra
spalle al muro
il taglialegna
vuole bere
vuole mangiare
e tornare a segare.
E' scema? Sì, è scema. Ma ai bambini piace un sacco perché mentre viene recitata li si fa scapitombolare all'indietro, tenendoli seduti sulle ginocchia della mamma/nonna/zia/varie ed eventuali. Uno scapitombolo all'indietro ad ogni strofa recitata. Vedi un po' quanto poco basta per far divertire un bambino. Siamo noi grandi che ci facciamo tante seghe e siamo sempre annoiati. Siamo nel tunnel del divertimento.

Ecco la seconda:
A duru a duruseddu
sas campanas de Csteddu
las sonana a su manzanu
su puddu callaritanu
e sa mmela thattharesa
su coro cantu mi pesa
su coro cantu mi tocca
cheriasa barracocca
'nde bindat in bidda mia
barracocca cheresia
a duru a duru siada
a duru a durusiada.

Traduzione:
Gira gira (trotta trotterello)
le campane di Cagliari
le suonano di mattina
il gallo cagliaritano
e la mela di Sassari
il cuore quanto mi pesa
il cuore quanto mi tocca
ciliege e albicocche
originarie del mio paese
albicocche e ciliegie
gira gira gira gira.

Questo Duru-duru è un canto molto diffuso in tutta l'isola e in quanto tale può presentare svariate versioni diverse. Io qui ne ho presentata una: quella che più di frequente ho sentito cantare a mia madre, ma navigando un poco per la rete ne ho scovate tantissime, nel tentativo vano di rintracciarne la presunta seconda strofa che non ricordo benissimo, ma che presentava una divertente schermaglia amorosa tra un giovane e una ragazza (il mio cuore sarà tuo quando Natale verrà in aprile, quando il sole splenderà a mezzanotte, quando il Cristiano sarà moro e il Moro Cristiano... ed altri simili non-sense).
Ed ecco inoltre cosa ho trovato in proposito su un sito dedicato all'argomento:
"Su Duru duru, é originariamente un canto monodico che le donne cantavano ai bambini facendoli ballare sulle proprie ginocchia. La parola duru deriva dall'arabo duru e significa gira".
Interessante: devo ricordare di chiedere conferma al Beduino di questa interpretazione etimologica, che mi sa un po' strana, sebbene non impossibile, vista la forte presenza moresca nella terra "dei quattro mori".
Forse vi sto annoiando ma io in queste cose folkloriche ci sguazzo. Mi piace molto indagare le ragioni profonde delle manifestazioni culturali, di un'identità, di quelle tradizioni orali che sanno di reminiscenze di un passato ancestrale.

Ringrazio quindi l'ideatrice della proposta per avermi permesso di compiere questa incursione-deviazione su questo terreno.


Per gentile invito di Fedricasole, "Diario di una magica avventura".