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martedì 10 novembre 2015
Oltre il reef
Siamo stati fuori, un paio di week end fa, per l'immaginario ponte dei morti, che ponte non era, poiché l'unico giorno festivo in questione cadeva di domenica, ma sono sottigliezze al giorno d'oggi, soprattutto per chi non ha cartellini da timbrare il lunedì mattina, come la sottoscritta. Sono i vantaggi della disoccupazione. Dunque un week end lungo in gita con zii e cugini (mio fratello e famiglia), graziato dal meteo che ci ha regalato giornate luminose di caldo sole, per quanto ventose, con buona pace dei miei meteoropatismi.
Genova ci ha accolto coi suoi svincoli micidiali e i suoi palazzi proiettati verso il cielo, la sua umanità cordiale, la carta da parati anni '90 della nonna e i terrazzini che danno su cortili vertiginosi, tagliati dai fili da bucato che ne spezzettano in forme irregolari il poligono di cielo soprastante.
La città dal sapore retrò, assediata tra mare e monti, col suo porto futurista e il suo colossale acquario, meta agognata e principe dalla nostra gita, ci ha ospitato per tre giorni e quattro notti.
La città mi ha un po' frastornata, con le sue distanze da città, i suoi marciapiedi stretti tempestati di cacche di cane, i percorsi tortuosi per arrivare a comprare la farinata buona, che ti sembra di tornare continuamente sui tuoi passi e non hai la minima idea di dove sei finita, e magari stai a pochi passi da casa.
domenica 16 agosto 2015
A Olivia
A Olivia che è nata. Non è roba di tutti i giorni, nascere, non è da tutti.
A Olivia che è stata attesa. Così tanto che il cielo era diventato fermo e non una foglia si muoveva più, solo le pale del ventilatore ci tenevano in vita, nell'attesa infinita di Olivia.
A Olivia che ora riposa tra chiacchericci e grida, e giochi rumorosi e dinosauri lanciati in aria, e ogni tanto riceve un triceratopo di gomma sulla testa, e allora anche lei dimostra di saper protestare, nel caso.
A Olivia ninna nanne di risate di bimbi e litigi, abbracci focosi e palpeggiate ovunque, e carezze maldestre sulla faccia, a Olivia che non è schizzinosa.
venerdì 10 aprile 2015
Parente-si.
Illustrazione di Loretta Serofilli |
Per me è un tornare, per loro un andare.
Per me è un ritrovare e non ritrovarmi, per loro è un esplorare e una scoperta continua.
Per me è una retrovia, per loro un'avanscoperta.
Per me è fare i conti col noto, col tempo che si accumula a ritmo di decenni, con le dita di polvere che denunciano la vanità del ricordo, della mania di mettere da parte e conservare, di circondarsi di oggetti nell'illusione di costruirsi un'identità, prima, una storia, poi.
Per me è rivedere la mia adolescenza e fare i conti con la passata smania di futuro, con l'ansia di fuggire, con le promesse di riscatto altrove, di affermazione fuori dalla casa paterna, lontano da quegli oggetti noti, accuratamente allineati sullo scaffale a rappresentare i miei anni trascorsi tra quelle mura, in quell'abbraccio a volte soffocante che è la famiglia.
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venerdì 9 dicembre 2011
Valigie e valige: che passione! (Nel senso di sofferenza!)
Eccoci qua infine.
E' stato bellissimo. Dico fare le valige con la pupa che mi inseguiva con un libretto nella manina tesa, un libretto e un paio di calzini, un altro libretto e pulisci la cassetta dei gatti, un terzo libretto e scusa Hasuna ti sposti che passo la scopa?
Un altro? No pupa, aspetta ora che devo preparare la pappa per te per il viaggio.
Biblo! Biblo! Biblo!
Pupa, fammi respirare, non vedi che siamo in alto mare?
Allora siamo pronti, andiamo?
Hasuna, porca pala, ma tu l'hai preso il cambio per te?
No, ovvio che no.
Questi sono i momenti in cui mi chiedo a cosa accidenti servano gli esponenti del sesso maschile.
Però poi mi modero da sola e mi rispondo che, lo so, non è che sono tutti così, gli uomini.
Allora mi correggo e mi chiedo a che caspita servano quelli di questo stampo.
E ancora mi dico che, suvvia, in certi momenti si rendono utili pure loro, basta sapere cosa non puoi aspettarti, cosa non devi pretendere.
Non certo che sappiano gestire una partenza, quello no.
E mentre arrancavo con la pupa appollaiata sul fianco, i pannolini sotto un braccio e lo zaino semipreparato in spalla, lui mi chiede, con tono seccato come uno che sia ormai stanco di aspettare: "Dai, dimmi cosa posso portare giù, intanto. Prendo la valigia?"
"No! Ma sedvo ancora finire di riempirla! Cosa porti giù!"
"Allora prendo le coperte, le portiamo o no?"
"Non lo so, aspetta che chiamo Gunchina, e sento se ce ne hanno anche per noi..."
Non si sa mai che temperatura faccia, in montagna.
Non è che noi siamo avvezzi montanari. Io son donna di pianura, e il beduino... beh: c'è bisogno di dirlo? Quello uomo di deserto è!
Io sono abituata a quelle di casa nostra, di temperature, che pure se fuori fanno venti gradi, dentro casa batti i denti dal freddo, per qualche oscuro fenomeno di microclimatizzazione. Fauna locale, pappatacei perenni e iperattivi, anche nel cuore di gennaio, quando io mi intabarro in giri di lana intorno al collo e pluristrati di maglia addosso, e la pupa muove a fatica le braccia annaspando sotto cotte di pile e ciniglia, loro, le zanzare, ti vengono a bisbigliare i loro canti d'amore notturni nell'atrio del tuo padiglione auricolare.
Ma di questi tempi per fortuna ancora non siamo arrivati a quei livelli di freddo domestico e abominevoli zanzare delle nevi.
In quel di Torino però, chissà...
Lui accende la tv (ecco una cosa che, almeno, gli impedirà di rompere le palle per un po', finchè non finisco di fare i bagagli, e mente locale su cosa manca, cosa sto dimenticando, cosa di strepitosamente essenziale sto abbandonando qui?):
"Torino: 0-9 °C..."
"Porca zozza! Allora sì che le portiamo, le coperte! Aspetta che prendo un maglione pesante per me. Cacchio, me l'hanno mangiato le tarme, pure questo! Guarda che buchi! Ma c'entra tutta 'sta roba in macchina?"
"Sì, t'ho detto che prendiamo la macchina di Kamis!"
"Ah, e quindi dobbiamo ancora andare da Kamis? Perchè non vai tu intanto che io finisco qui, a prenderla e la porti qui, la macchina?"
Ma non c'è stato verso di togliermelo dalle palle.
Uomini!
Non è che io voglia un uomo iperorganizzato. Non potrei: morirei il secondo giorno.
Un uomo modello Furio, no. Ne ho conosciuti, in vita mia, di uomini-Furio, gli uomini ingegneri nell'animo. Non in senso biblico. Ne ho conosciuti almeno due, e non erano nemmeno ingegneri. Ti fanno passare la voglia di fare la più figa delle cose che tu possa anche solo immaginare. Te la rovinano in partenza, con levatacce a ore rocambolesche, liste dell'occorrente, equipaggiamento alla Messner, tabelle di marcia. Un suicidio, davvero.
Ma neanche un uomo Homer, però.
Una via di mezzo tra un Furio e un Homer, ecco.
Mio padre, per esempio, quando ci preparavamo per una delle nostre villeggiature da incubo, esodo vacanziero sulla Salerno-Reggio Calabria per ore e ore in una FIAT station wagon azzurrina tutta scassata, oberata dal peso di almeno sette valige, sette come il numero degli occupanti in vettura, o sullo strepitoso furgoncino rosso Subaru sette posti, carico come un somaro, ogni figlio col suo personale carico di vestiario libri e giochi, senza considerare il vettovagliamento per la comunità, lui, caspiterina, incastrava peggio di un Tetris! Mentre mia madre strigliava casa a dovere prima di chiuderla per un mese, cospargendola a sazietà di DDT.
Ecco, io non sarò mai così metodica. Per questo necessito un uomo almeno un pochino più metodico di me. Ma mi dovrò accontentare.
Il segreto è trovare a ognuno qualcosa da fare, così che tu possa finire in pace il vettovagliamento viatico.
Alla pupa ho tirato fuori il bellissimo zainetto verde con la ranocchia che al nido non han voluto (acquistato per il nido, eh!).
"Tieni, pupa, prendi i libretti che vuoi portare e mettili nello zainetto".
Oh, lei è stata fantastica! Non fosse che se li sarebbe caricati tutti e 54 se io non le avessi a un certo punto imposto un limite.
Percorreva lunghe distanze, dalla piccola libreria pupesca in corridoio, allo zainetto posto in camera (metterlo più vicino non le è balenato in mente) con il suo piccolo carico di uno o due per volta. Poi li infilava.
"Gatti! Gatti! Gatti!" Ripeteva a ogni nuovo arrivo.
"Pe' tte! Pe' tte! Pe' tte!" con tono interrogativo ascendente.
"Sì, brava, prendi Per te"
"Mino! Mino! Mino!"
"Anche il Valzer del moscerino? E va be', piglialo"
"Iaiaò! Iaiaò! Iaiaò!"
"Pupa, basta quanti ne vuoi portare?"
"Iaiaò! Iaiaò! Iaiaò!"
"E va bene, prendi anche La vecchia fattoria, però poi basta, eh!"
"Popò?"
"No, Popoff proprio no. Basta adesso."
E via così.
Bellissime vallate, verdi montagne, e gallerie gallerie gallerie.
Valli strettissime e vicinissime, addossate le une alle altre, borghi arroccati dimenticati dal mondo, con pittoreschi campanili a cupoletta svettanti, e tetti aguzzi, intonachi rosa e giallini , e azzurri.
"Sembrano francesi queste case".
"Non sei andato troppo lontano dal vero, caro il mio Hasuna..."
E lì partiva il pippone storico artistico.
Era la Liguria, con il suo mare e i suoi monti, e poi Piemonte, infine arriviamo, siam qui.
La pupa che: "Ora si sveglia e ci fermiamo per mangiare", invece s'è fatta una tirata di tre ore.
Poi il camino, il fuoco, il gatto Geggio, i giochi in legno della zia Gunchina, i galli asincroni che cantano a ogni ora, le montagne rosa sul far del mattino che ci siamo perse, perché siamo rimaste a letto credendo che fosse ancora notte fonda, perché dalle tapparelle chiuse non trapelava un filo di luce. La casa iperriscaldata, il giro ai giardini in mattinata, il fiume, che emozione! La polenta, gli interruttori della luce da far scattare, su e giù, "Atteto... Petto.." e grasse risate, una foto appesa al muro in cui misteriosamente si riconosce una bambina, che "momme" (dorme), in braccio alla zia, una bambina di nome Mimi.
E' stato bellissimo. Dico fare le valige con la pupa che mi inseguiva con un libretto nella manina tesa, un libretto e un paio di calzini, un altro libretto e pulisci la cassetta dei gatti, un terzo libretto e scusa Hasuna ti sposti che passo la scopa?
Un altro? No pupa, aspetta ora che devo preparare la pappa per te per il viaggio.
Biblo! Biblo! Biblo!
Pupa, fammi respirare, non vedi che siamo in alto mare?
Allora siamo pronti, andiamo?
Hasuna, porca pala, ma tu l'hai preso il cambio per te?
No, ovvio che no.
Questi sono i momenti in cui mi chiedo a cosa accidenti servano gli esponenti del sesso maschile.
Però poi mi modero da sola e mi rispondo che, lo so, non è che sono tutti così, gli uomini.
Allora mi correggo e mi chiedo a che caspita servano quelli di questo stampo.
E ancora mi dico che, suvvia, in certi momenti si rendono utili pure loro, basta sapere cosa non puoi aspettarti, cosa non devi pretendere.
Non certo che sappiano gestire una partenza, quello no.
E mentre arrancavo con la pupa appollaiata sul fianco, i pannolini sotto un braccio e lo zaino semipreparato in spalla, lui mi chiede, con tono seccato come uno che sia ormai stanco di aspettare: "Dai, dimmi cosa posso portare giù, intanto. Prendo la valigia?"
"No! Ma sedvo ancora finire di riempirla! Cosa porti giù!"
"Allora prendo le coperte, le portiamo o no?"
"Non lo so, aspetta che chiamo Gunchina, e sento se ce ne hanno anche per noi..."
Non si sa mai che temperatura faccia, in montagna.
Non è che noi siamo avvezzi montanari. Io son donna di pianura, e il beduino... beh: c'è bisogno di dirlo? Quello uomo di deserto è!
Io sono abituata a quelle di casa nostra, di temperature, che pure se fuori fanno venti gradi, dentro casa batti i denti dal freddo, per qualche oscuro fenomeno di microclimatizzazione. Fauna locale, pappatacei perenni e iperattivi, anche nel cuore di gennaio, quando io mi intabarro in giri di lana intorno al collo e pluristrati di maglia addosso, e la pupa muove a fatica le braccia annaspando sotto cotte di pile e ciniglia, loro, le zanzare, ti vengono a bisbigliare i loro canti d'amore notturni nell'atrio del tuo padiglione auricolare.
Ma di questi tempi per fortuna ancora non siamo arrivati a quei livelli di freddo domestico e abominevoli zanzare delle nevi.
In quel di Torino però, chissà...
Lui accende la tv (ecco una cosa che, almeno, gli impedirà di rompere le palle per un po', finchè non finisco di fare i bagagli, e mente locale su cosa manca, cosa sto dimenticando, cosa di strepitosamente essenziale sto abbandonando qui?):
"Torino: 0-9 °C..."
"Porca zozza! Allora sì che le portiamo, le coperte! Aspetta che prendo un maglione pesante per me. Cacchio, me l'hanno mangiato le tarme, pure questo! Guarda che buchi! Ma c'entra tutta 'sta roba in macchina?"
"Sì, t'ho detto che prendiamo la macchina di Kamis!"
"Ah, e quindi dobbiamo ancora andare da Kamis? Perchè non vai tu intanto che io finisco qui, a prenderla e la porti qui, la macchina?"
Ma non c'è stato verso di togliermelo dalle palle.
Uomini!
Non è che io voglia un uomo iperorganizzato. Non potrei: morirei il secondo giorno.
Un uomo modello Furio, no. Ne ho conosciuti, in vita mia, di uomini-Furio, gli uomini ingegneri nell'animo. Non in senso biblico. Ne ho conosciuti almeno due, e non erano nemmeno ingegneri. Ti fanno passare la voglia di fare la più figa delle cose che tu possa anche solo immaginare. Te la rovinano in partenza, con levatacce a ore rocambolesche, liste dell'occorrente, equipaggiamento alla Messner, tabelle di marcia. Un suicidio, davvero.
Ma neanche un uomo Homer, però.
Una via di mezzo tra un Furio e un Homer, ecco.
Mio padre, per esempio, quando ci preparavamo per una delle nostre villeggiature da incubo, esodo vacanziero sulla Salerno-Reggio Calabria per ore e ore in una FIAT station wagon azzurrina tutta scassata, oberata dal peso di almeno sette valige, sette come il numero degli occupanti in vettura, o sullo strepitoso furgoncino rosso Subaru sette posti, carico come un somaro, ogni figlio col suo personale carico di vestiario libri e giochi, senza considerare il vettovagliamento per la comunità, lui, caspiterina, incastrava peggio di un Tetris! Mentre mia madre strigliava casa a dovere prima di chiuderla per un mese, cospargendola a sazietà di DDT.
Ecco, io non sarò mai così metodica. Per questo necessito un uomo almeno un pochino più metodico di me. Ma mi dovrò accontentare.
Il segreto è trovare a ognuno qualcosa da fare, così che tu possa finire in pace il vettovagliamento viatico.
Alla pupa ho tirato fuori il bellissimo zainetto verde con la ranocchia che al nido non han voluto (acquistato per il nido, eh!).
"Tieni, pupa, prendi i libretti che vuoi portare e mettili nello zainetto".
Oh, lei è stata fantastica! Non fosse che se li sarebbe caricati tutti e 54 se io non le avessi a un certo punto imposto un limite.
Percorreva lunghe distanze, dalla piccola libreria pupesca in corridoio, allo zainetto posto in camera (metterlo più vicino non le è balenato in mente) con il suo piccolo carico di uno o due per volta. Poi li infilava.
"Gatti! Gatti! Gatti!" Ripeteva a ogni nuovo arrivo.
"Pe' tte! Pe' tte! Pe' tte!" con tono interrogativo ascendente.
"Sì, brava, prendi Per te"
"Mino! Mino! Mino!"
"Anche il Valzer del moscerino? E va be', piglialo"
"Iaiaò! Iaiaò! Iaiaò!"
"Pupa, basta quanti ne vuoi portare?"
"Iaiaò! Iaiaò! Iaiaò!"
"E va bene, prendi anche La vecchia fattoria, però poi basta, eh!"
"Popò?"
"No, Popoff proprio no. Basta adesso."
E via così.
Bellissime vallate, verdi montagne, e gallerie gallerie gallerie.
Valli strettissime e vicinissime, addossate le une alle altre, borghi arroccati dimenticati dal mondo, con pittoreschi campanili a cupoletta svettanti, e tetti aguzzi, intonachi rosa e giallini , e azzurri.
"Sembrano francesi queste case".
"Non sei andato troppo lontano dal vero, caro il mio Hasuna..."
E lì partiva il pippone storico artistico.
Era la Liguria, con il suo mare e i suoi monti, e poi Piemonte, infine arriviamo, siam qui.
La pupa che: "Ora si sveglia e ci fermiamo per mangiare", invece s'è fatta una tirata di tre ore.
Poi il camino, il fuoco, il gatto Geggio, i giochi in legno della zia Gunchina, i galli asincroni che cantano a ogni ora, le montagne rosa sul far del mattino che ci siamo perse, perché siamo rimaste a letto credendo che fosse ancora notte fonda, perché dalle tapparelle chiuse non trapelava un filo di luce. La casa iperriscaldata, il giro ai giardini in mattinata, il fiume, che emozione! La polenta, gli interruttori della luce da far scattare, su e giù, "Atteto... Petto.." e grasse risate, una foto appesa al muro in cui misteriosamente si riconosce una bambina, che "momme" (dorme), in braccio alla zia, una bambina di nome Mimi.
martedì 25 ottobre 2011
Last but not least.
Solo per dirvi che: da noi ottobre era il mese dei compleanni.
Ce n'erano ben quattro su sette, più quello della gatta.
Ultimo in ordine di arrivo, sia sul tempo ciclico, che su quello lineare, era quello di Lermo, anche detto Il Cicci.
Cosa dire su questo mio fratello ultimo arrivato: me ne sono perso troppo, andando via di casa quando lui aveva appena 10 anni. Non mi sdebiterò mai abbastanza, e non potendo colmare questa mancanza, userò poche parole, ché mai discorso potrà mai eguagliare la grandezza del personaggio.
Ciccio infatti ha sempre avuto grandi doti:
Una gran testa.
Un grande appetito.
Un gran sorriso.
Una grande sorella!
Tanti auguri caro Cicci!
Hai visto che bel regalo che ti ha fatto oggi la pupa (in anticipo di un giorno)?
"Tci-tccio!"
Chi non vorrebbe una nipotina che ti chiama "Ciccio"?
Ce n'erano ben quattro su sette, più quello della gatta.
Ultimo in ordine di arrivo, sia sul tempo ciclico, che su quello lineare, era quello di Lermo, anche detto Il Cicci.
Cosa dire su questo mio fratello ultimo arrivato: me ne sono perso troppo, andando via di casa quando lui aveva appena 10 anni. Non mi sdebiterò mai abbastanza, e non potendo colmare questa mancanza, userò poche parole, ché mai discorso potrà mai eguagliare la grandezza del personaggio.
Ciccio infatti ha sempre avuto grandi doti:
Una gran testa.
Un grande appetito.
Un gran sorriso.
Una grande sorella!
Tanti auguri caro Cicci!
Hai visto che bel regalo che ti ha fatto oggi la pupa (in anticipo di un giorno)?
"Tci-tccio!"
Chi non vorrebbe una nipotina che ti chiama "Ciccio"?
P.S.
Nota per i lettori gattofili: la Roba da gatti è stata posticipata per motivi di priorità affettiva. Ma arriverà.giovedì 6 ottobre 2011
Totto.
La fregatura è che una volta che cominci ti tocca farteli tutti.
Dopo Gunchina, mamma e Ergino, ecco a voi:
La bambina è un'anima candida e innocente, non si capacita proprio di come i due fratelli possano aver avuto una visione dei fatti tanto diversa da quella avuta da lei.
Prova il secondo: usciamo tutti. Rientriamo: funziona! Anche lui non si vede più, ma la piccola lo trova accoccolato sotto alla scrivania. "Cosa ci fai qui?" "Caspita! Il panchettone magico deve avermi teletrasportato qua sotto, e io non ricordo niente di niente!"
Prova la piccola ora, uscite! Rientrate, sono pronta!
"Dove sei, oh piccola Suster? Non ti vediamo! Sei qui?" "Sei qui?"
Felice la piccola gode come Calandrino della sua fortunata condizione di invisibilità, gioendo in cuor suo di averla finalmente fatta ai suoi due grandi fratelli, che ora, che bellezza, non possono vederla!
Portentoso!
Sale la piccola da un lato. I fratelli dall'altro la tengono su, col loro peso sommato. Lei è felice di rimanere in alto, sul dondolo, e di non scendere più.
Prendono i fratelli delle grosse pietre, le trascinano alla giostra e le ammassano all'estremità vuota, mentre dall'altra parte c'è sempre la bambina sollevata a mezz'aria.
Ride lei, quando loro, finito il lavoro, si allontanano, lascinadola lì.
Tanto ora tornano e mi tirano giù. Certo, non mi lasceranno mica quassù, tutta sola. Ora tornano e mi tirano giù. Ora arrivano e levano i sassi dall'altra parte. Ti pare che mi lasciano qui? Nessuno farebbe una cosa del genere alla propria sorellina piccola... ehi? Yuhùù?
Dopo Gunchina, mamma e Ergino, ecco a voi:
Totto.
Attenzione: questi non sono due poveri bimbetti rumeni che pescano la misera (probabilmente tossica) cena nel lurido fiume Aniene, ma siamo io e Totto intenti in amene attività, in occasione dell'esondazione di suddetto fiume nel lontano mill... millenovecento... va be', ma che importanza ha?
Al mio fratello grande Totto, filosofo e Doctor Universalis, devo alcune importanti prese di coscienza, che senza di lui mai avrei acquisito:
- non esiste verità assoluta ( o della relatività dei fatti).
La bambina è un'anima candida e innocente, non si capacita proprio di come i due fratelli possano aver avuto una visione dei fatti tanto diversa da quella avuta da lei.
- i sensi sono fallaci (o della relatività delle percezioni)
Prova il secondo: usciamo tutti. Rientriamo: funziona! Anche lui non si vede più, ma la piccola lo trova accoccolato sotto alla scrivania. "Cosa ci fai qui?" "Caspita! Il panchettone magico deve avermi teletrasportato qua sotto, e io non ricordo niente di niente!"
Prova la piccola ora, uscite! Rientrate, sono pronta!
"Dove sei, oh piccola Suster? Non ti vediamo! Sei qui?" "Sei qui?"
Felice la piccola gode come Calandrino della sua fortunata condizione di invisibilità, gioendo in cuor suo di averla finalmente fatta ai suoi due grandi fratelli, che ora, che bellezza, non possono vederla!
Portentoso!
- la morale è soggettiva (o della relatività del sentire etico).
Sale la piccola da un lato. I fratelli dall'altro la tengono su, col loro peso sommato. Lei è felice di rimanere in alto, sul dondolo, e di non scendere più.
Prendono i fratelli delle grosse pietre, le trascinano alla giostra e le ammassano all'estremità vuota, mentre dall'altra parte c'è sempre la bambina sollevata a mezz'aria.
Ride lei, quando loro, finito il lavoro, si allontanano, lascinadola lì.
Tanto ora tornano e mi tirano giù. Certo, non mi lasceranno mica quassù, tutta sola. Ora tornano e mi tirano giù. Ora arrivano e levano i sassi dall'altra parte. Ti pare che mi lasciano qui? Nessuno farebbe una cosa del genere alla propria sorellina piccola... ehi? Yuhùù?
- non è bello ciò che è bello (o della relatività del sentire estetico).
Erano soliti guardare i due fratelli piccoli in televisione un cartone animato chiamato "Ghostbusters".
Lui si fa comprare un pupazzo: un mostro di questo cartone animato, un fantastico lupo mannaro. Lei ne vuole uno pure, perché farebbe tutto quel che fa il fratello grande e non esita di fronte ai fondi di magazzino del negozio di giocattoli. E' rimasto solo un pupazzo piuttosto bruttarello: un esploratore dalla pelle viola, rispondente al nome di "Viscid". Ma a lei piace, non vede l'ora di confrontare il suo pupazzo con quello del fratello, di mostrare che anche lei ora ne ha uno.
Quale umiliazione, quale delusione! Lui la deride per quel pupazzo violaceo: "Ah ah ah! Ti sei presa Viscid!" Ancora ride , il fratello, dopo anni e anni, di quell'orrendo pupazzo della sorellina, che voleva solo emularlo. Ride, l'infame!
Come avrei fatto senza un fratello maggiore (e filosofo, per giunta)?
(Auguri!)
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lunedì 15 agosto 2011
Ergino.
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Agosto 1985. |
- avrei dovuto coltivare di più la mia predisposizione ginnica;
- io non metterò mai a mia figlia i calzini ad agosto, almeno non finché rimaniamo su questo parallelo terrestre;
- a cosa serve giocare con le bambole a quattro anni se puoi disporre di un neonato vero?
- non saprei spiegare meglio di così il concetto di "orgoglio fraterno";
- che sono passati 26 anni.
giovedì 23 giugno 2011
A casa di nonna.
Suster e pupa sono a casa della nonna. Materna, ossia mia madre.
Ecco cosa annotare sulla casa della nonna: casa della nonna sta prendendo incontestabilmente l'aspetto di una tipica "casa della nonna", abbandonando piano piano il suo ruolo che per anni è stato quello di "casa mia".
Casa di nonna è sempre pulita come non lo è mai stato quando la frequentavamo noi cinque, da giovanissimi. Il pavimento ha l'aspetto di un pavimento che viene calpestato pochissimo, le finestre hanno tendine di pizzo lavorate all'uncinetto da esperte e anziane mani sarde fraterne (sorerne non si dice, ve'?) e poi spedite oltremare a rifinir finestre ornate di vasi di gerani e petunie. Proprio finestre da nonna.
Casa di nonna, sebbene sia sempre piuttosto a posto, è straripante di ogni sorta di oggetti abbastanza superflui accatastati nel corso di più di una vita, che qui si sono concentrate accavallandosi per diversi anni, accumulando ricordi di vacanze passate assieme, lavoretti infantili per Natale e Pasqua (Natali e Pasque per diverse generazioni di figli, ma più o meno sempre gli stessi lavoretti), e foto di bambini di tutte le età, infine di bambini cresciuti che non abitano più qui, e che hanno a loro volta bambini, o che vivono lontani e tornano una volta o due l'anno, o che vivono qui, ma ci passano pochissime ore al giorno, e anche quando ci sono non li senti e li vedi poco, perché sono in camera a studiare o a lavorare al computer.
Niente più calci al pallone in casa che vanno a rovesciare suppellettili ornamentali dal valore più affettivo che monetario; niente più briciole di biscotti sui cuscini del divano (anche se ogni tanto sì), niente più urla selvagge alla Tarzan provenienti da sopra, sotto, fuori, dentro; niente più bagni allagati, capanne di cuscini, impronte di scarpe sui muri, calzini sudici agli angoli delle stanze, pennarelli senza tappo con la punta secca, gatti liberi di razzolare su tavoli e fornelli, foglie martoriate del filodendro, intrugli col cibo, gavettoni esplosi in casa, scie di piedi luridi, pozze d'acqua e vestiti fradici sparsi in giro, creazioni artistiche realizzate con banane e creckers, merendine nascoste nello sgabello del bagno, sbattimento di porte e finestre, giocattoli malridotti lasciati ovunque, zaini buttati sotto gli sgabelli o sempre in mezzo ai piedi di chi cammina, asciugamani appallottolati nel bidet dopo esser stati usati una volta.
Ok, niente nostalgia, ma tante, troppe foto alle pareti stanno a ricordare quanta gente ha intrecciato in questa casa tanti anni della propria vita. Le assenze si sono colmate, o meglio, si sono cauterizzate. E al posto lasciato vacante, sempre qualcosa di nuovo: cuscini, vasi, un poco di tecnologia, senza esagerare.
Qualcosa è cambiato, ma gli sgabelli sono sempre quelli lì, da 20 anni o forse anche 30, quelli di legno a incastro, orgoglio del padre di famiglia. E il tavolo, che con le sue cornici concentriche di essenze differenti aggiunte in successione negli anni, sta a testimoniare la crescita della famiglia, che necessitava sempre di ampliare la disponibilità di posti a tavola. E la credenza del bisnonno, con i 40 e più volumi della Treccani. E lo stile naif dell'arredamento di mia madre.
La casa di nonna ha un piccolo giardino traboccante vegetazione e fiori, infestato da zanzare e formiche, un piccolo seminterrato adibito a spazio personale della nonna, dalle pareti completamente occupate da librerie stracolme di libri. Che lei ha letto. Dal primo all'ultimo. E poi lettere, infilate in portacarte e scatole colorate, album fotografici, ritagli di stoffa, materiali da lavoro di ogni tipo, un piccolo organo elettrico scordato rimediato da chissà dove, un assortimento improbabile di sedie provenienti da differenti e scompagnati disimpegni di appartamenti sgomberati, lasciati da amici, parenti o altro.
La casa della nonna trabocca vita passata, e accusa anche un poco il tempo, malgrado i soli 20 anni di vita. La caldaia fa le bizze e nessuno ha voglia o tempo per occuparsene. Gli infissi alle finestre necessiterebbero di essere cambiati, rosi dalle tarme e dalle intemperie (Ah, un tempo le case si facevano per durare! Direi qui se solo avessi almeno il doppio della mia età).
A casa di nonna il frigo è sempre pieno di troppa roba avanzata da finire, del giorno prima e di quello prima ancora. Ah, e poi della cena di quello ancora prima. E la nonna continua a sfornare comunque pizze e rustici, anche se ormai non deve cucinare più per 7 persone ma per 3 o 4 al massimo, e continua a fare la spesa all'ingrosso, comprando pacchi su pacchi di biscottame e casse di latte a coppie di 12. E continua a comprare shampoo e dentifricio della peggior qualità, per risparmiare, anche se potrebbe comprare solo due tubetti anziché 5 e optare per quelli un po' meno orridi come sapore e consistenza... ma vabbé.
A casa di nonna ci sono stanze in cui non dorme più nessuno, dove le serrande non vengono aperte quasi mai. E ci sono stanze con ampie scrivanie a cui non si siede più nessuno, e scaffali pieni di giochi con cui (bisogna che lo dica?) più nessuno gioca da anni, e libri che ormai non interessa leggere più a nessuno, perché già sono stati letti, e qualcuno lo si conosce pure a memoria, e sono quelli più devastati, con le pagine incollate con lo scotch e tutti scarabocchiati.
Questa è ormai una casa di nonna.
E pazienza se la caldaia non funziona e bisogna lavare la pupa nel lavandino a pezzi, mentre lei esclama allarmata "Ahi-ahi" a sentirsi arrivare sul corpo getti d'acqua alternativamente bollenti e gelati.
E pazienza anche se non siamo riusciti a montare il terribile lettino di ferro generosamente offerto da mia zia, che però si è scordata di dirci che era rotto da un lato, e che mancavano le viti e i bulloni, e che quindi montarlo non sarebbe stato mai possibile, motivo per cui la pupa l'abbiamo messa a dormire per terra, sul suo materassino home-made dall'amorevole nonna, in quella che fu "camera di mamma adolescente" e che mi piace pensare possa diventare in un futuro neanche troppo lontano la camera di lei quando verrà a trovare la nonna, dove conserverà i diari segreti nei cassetti della scrivania che un tempo ospitò dizionari di greco antico e studi matti e disperatissimi, ed erediterà le mie ingenue collezioni di gatti e pecore, e attaccherà i suoi poster, e inventerà i suoi giochi.
Per la pupa questi odori, questi bizzarri assortimenti, queste luci e queste penombre pomeridiane, quando si abbassano le persiane per non lasciar entrare la luce forte e, con lei, il caldo estivo, rimarranno eternamente associati al concetto di "casa di nonna", e questo mi piace.
Con lei che scorrazza gattoni sul vialetto del giardino, tra zanzare e formiche, me ne sto seduta culo a terra sulla ghiaia, a vederla raccogliere sassolini che fa il gesto di portare alla bocca, ma che poi, ricordandosi di non doverlo fare, agita nella mano, nella mano che fa "no", andando veloce da destra a sinistra, facendolo finire infine nel vasetto dei sassi, alternativa alla cavità orale offerta con successo dalla mamma.
Soddisfatta dei nostri piccoli successi, le sto dietro mentre si allena, su e giù per la rampa di scale (quattro) che portano all'uscio di casa. Giù e poi di nuovo su. Avanti e indietro, accovacciata e poi in piedi, tenendosi alla mamma e poi da sola, alla ringhiera.
Mi piace sentirla chiamare "Nenne!" e veder arrivare mia madre felicissima di sentirsi così apostrofare, con una fantasiosa variazione sul tema nonna.
Mi piace vederla gattonare entusiasta lanciando acuti mugolii di gioia che le fanno da colonna sonora mentre, ciaf-ciaf, la sento allontanarsi da me nel modo più rumoroso possibile per andare a scovare la nonna in cucina, indaffarata con le sue pizze e i suoi rustici, perennemente in attività, e poi sentirle ridere da dietro la parete una volta che la nonna è stata "sorpresa" da una nipotina dal passo più che felpato che le è arrivata "senza preavviso alcuno" da dietro.
Mi piace vederla entusiasmarsi per il grosso gatto disegnato sulla parete delle scale da una me tredicenne, puntare il dito raggiante e dire "Ga!"; così come mi diverte vederla impegnatissima ad individuare e comunicarci l'esistenza dell'infinità di bestie assortite che affollano la casa sotto le forme più strane: ciotole con sembianza di papere, galline portaoggetti, giraffe ornamentali senza alcuna velleità utilitaristica, presine a forma di ranocchie e via dicendo, tutti oggetti a cui il nostro occhio assuefatto non presta più ormai la minima rilevanza, ma che non sfuggono al suo, attentissimo a cogliere il benché minimo particolare di ogni angolo, di ogni stanza, di ogni palmo di pavimento.
Mi piace pensare a lei qui, negli anni a venire, a immaginare un passato che non le appartiene ma che fa parte delle sue radici, a scoprire racconti familiari che ormai saranno diventati quasi leggende, a ispezionare fotografie sbiadite cercando i tratti di volti noti e facendo congetture su quelli non noti.
Le case hanno questo potere, di rappresentare la continuità, l'unità, la storia. Raccolgono tracce, conservano cimeli, perpetuano i ricordi.
E questo è vero soprattutto per le case delle nonne.
FOTODOCUMENTARIO NOTTURNO DI CASA DELLA NONNA:
Segnalo questo post di Madamadoré, che mi ha ispirato queste riflessioni.
Ecco cosa annotare sulla casa della nonna: casa della nonna sta prendendo incontestabilmente l'aspetto di una tipica "casa della nonna", abbandonando piano piano il suo ruolo che per anni è stato quello di "casa mia".
Casa di nonna è sempre pulita come non lo è mai stato quando la frequentavamo noi cinque, da giovanissimi. Il pavimento ha l'aspetto di un pavimento che viene calpestato pochissimo, le finestre hanno tendine di pizzo lavorate all'uncinetto da esperte e anziane mani sarde fraterne (sorerne non si dice, ve'?) e poi spedite oltremare a rifinir finestre ornate di vasi di gerani e petunie. Proprio finestre da nonna.
Casa di nonna, sebbene sia sempre piuttosto a posto, è straripante di ogni sorta di oggetti abbastanza superflui accatastati nel corso di più di una vita, che qui si sono concentrate accavallandosi per diversi anni, accumulando ricordi di vacanze passate assieme, lavoretti infantili per Natale e Pasqua (Natali e Pasque per diverse generazioni di figli, ma più o meno sempre gli stessi lavoretti), e foto di bambini di tutte le età, infine di bambini cresciuti che non abitano più qui, e che hanno a loro volta bambini, o che vivono lontani e tornano una volta o due l'anno, o che vivono qui, ma ci passano pochissime ore al giorno, e anche quando ci sono non li senti e li vedi poco, perché sono in camera a studiare o a lavorare al computer.
Niente più calci al pallone in casa che vanno a rovesciare suppellettili ornamentali dal valore più affettivo che monetario; niente più briciole di biscotti sui cuscini del divano (anche se ogni tanto sì), niente più urla selvagge alla Tarzan provenienti da sopra, sotto, fuori, dentro; niente più bagni allagati, capanne di cuscini, impronte di scarpe sui muri, calzini sudici agli angoli delle stanze, pennarelli senza tappo con la punta secca, gatti liberi di razzolare su tavoli e fornelli, foglie martoriate del filodendro, intrugli col cibo, gavettoni esplosi in casa, scie di piedi luridi, pozze d'acqua e vestiti fradici sparsi in giro, creazioni artistiche realizzate con banane e creckers, merendine nascoste nello sgabello del bagno, sbattimento di porte e finestre, giocattoli malridotti lasciati ovunque, zaini buttati sotto gli sgabelli o sempre in mezzo ai piedi di chi cammina, asciugamani appallottolati nel bidet dopo esser stati usati una volta.
Ok, niente nostalgia, ma tante, troppe foto alle pareti stanno a ricordare quanta gente ha intrecciato in questa casa tanti anni della propria vita. Le assenze si sono colmate, o meglio, si sono cauterizzate. E al posto lasciato vacante, sempre qualcosa di nuovo: cuscini, vasi, un poco di tecnologia, senza esagerare.
Qualcosa è cambiato, ma gli sgabelli sono sempre quelli lì, da 20 anni o forse anche 30, quelli di legno a incastro, orgoglio del padre di famiglia. E il tavolo, che con le sue cornici concentriche di essenze differenti aggiunte in successione negli anni, sta a testimoniare la crescita della famiglia, che necessitava sempre di ampliare la disponibilità di posti a tavola. E la credenza del bisnonno, con i 40 e più volumi della Treccani. E lo stile naif dell'arredamento di mia madre.
La casa di nonna ha un piccolo giardino traboccante vegetazione e fiori, infestato da zanzare e formiche, un piccolo seminterrato adibito a spazio personale della nonna, dalle pareti completamente occupate da librerie stracolme di libri. Che lei ha letto. Dal primo all'ultimo. E poi lettere, infilate in portacarte e scatole colorate, album fotografici, ritagli di stoffa, materiali da lavoro di ogni tipo, un piccolo organo elettrico scordato rimediato da chissà dove, un assortimento improbabile di sedie provenienti da differenti e scompagnati disimpegni di appartamenti sgomberati, lasciati da amici, parenti o altro.
La casa della nonna trabocca vita passata, e accusa anche un poco il tempo, malgrado i soli 20 anni di vita. La caldaia fa le bizze e nessuno ha voglia o tempo per occuparsene. Gli infissi alle finestre necessiterebbero di essere cambiati, rosi dalle tarme e dalle intemperie (Ah, un tempo le case si facevano per durare! Direi qui se solo avessi almeno il doppio della mia età).
A casa di nonna il frigo è sempre pieno di troppa roba avanzata da finire, del giorno prima e di quello prima ancora. Ah, e poi della cena di quello ancora prima. E la nonna continua a sfornare comunque pizze e rustici, anche se ormai non deve cucinare più per 7 persone ma per 3 o 4 al massimo, e continua a fare la spesa all'ingrosso, comprando pacchi su pacchi di biscottame e casse di latte a coppie di 12. E continua a comprare shampoo e dentifricio della peggior qualità, per risparmiare, anche se potrebbe comprare solo due tubetti anziché 5 e optare per quelli un po' meno orridi come sapore e consistenza... ma vabbé.
A casa di nonna ci sono stanze in cui non dorme più nessuno, dove le serrande non vengono aperte quasi mai. E ci sono stanze con ampie scrivanie a cui non si siede più nessuno, e scaffali pieni di giochi con cui (bisogna che lo dica?) più nessuno gioca da anni, e libri che ormai non interessa leggere più a nessuno, perché già sono stati letti, e qualcuno lo si conosce pure a memoria, e sono quelli più devastati, con le pagine incollate con lo scotch e tutti scarabocchiati.
Questa è ormai una casa di nonna.
E pazienza se la caldaia non funziona e bisogna lavare la pupa nel lavandino a pezzi, mentre lei esclama allarmata "Ahi-ahi" a sentirsi arrivare sul corpo getti d'acqua alternativamente bollenti e gelati.
E pazienza anche se non siamo riusciti a montare il terribile lettino di ferro generosamente offerto da mia zia, che però si è scordata di dirci che era rotto da un lato, e che mancavano le viti e i bulloni, e che quindi montarlo non sarebbe stato mai possibile, motivo per cui la pupa l'abbiamo messa a dormire per terra, sul suo materassino home-made dall'amorevole nonna, in quella che fu "camera di mamma adolescente" e che mi piace pensare possa diventare in un futuro neanche troppo lontano la camera di lei quando verrà a trovare la nonna, dove conserverà i diari segreti nei cassetti della scrivania che un tempo ospitò dizionari di greco antico e studi matti e disperatissimi, ed erediterà le mie ingenue collezioni di gatti e pecore, e attaccherà i suoi poster, e inventerà i suoi giochi.
Per la pupa questi odori, questi bizzarri assortimenti, queste luci e queste penombre pomeridiane, quando si abbassano le persiane per non lasciar entrare la luce forte e, con lei, il caldo estivo, rimarranno eternamente associati al concetto di "casa di nonna", e questo mi piace.
Con lei che scorrazza gattoni sul vialetto del giardino, tra zanzare e formiche, me ne sto seduta culo a terra sulla ghiaia, a vederla raccogliere sassolini che fa il gesto di portare alla bocca, ma che poi, ricordandosi di non doverlo fare, agita nella mano, nella mano che fa "no", andando veloce da destra a sinistra, facendolo finire infine nel vasetto dei sassi, alternativa alla cavità orale offerta con successo dalla mamma.
Soddisfatta dei nostri piccoli successi, le sto dietro mentre si allena, su e giù per la rampa di scale (quattro) che portano all'uscio di casa. Giù e poi di nuovo su. Avanti e indietro, accovacciata e poi in piedi, tenendosi alla mamma e poi da sola, alla ringhiera.
Mi piace sentirla chiamare "Nenne!" e veder arrivare mia madre felicissima di sentirsi così apostrofare, con una fantasiosa variazione sul tema nonna.
Mi piace vederla gattonare entusiasta lanciando acuti mugolii di gioia che le fanno da colonna sonora mentre, ciaf-ciaf, la sento allontanarsi da me nel modo più rumoroso possibile per andare a scovare la nonna in cucina, indaffarata con le sue pizze e i suoi rustici, perennemente in attività, e poi sentirle ridere da dietro la parete una volta che la nonna è stata "sorpresa" da una nipotina dal passo più che felpato che le è arrivata "senza preavviso alcuno" da dietro.
Mi piace vederla entusiasmarsi per il grosso gatto disegnato sulla parete delle scale da una me tredicenne, puntare il dito raggiante e dire "Ga!"; così come mi diverte vederla impegnatissima ad individuare e comunicarci l'esistenza dell'infinità di bestie assortite che affollano la casa sotto le forme più strane: ciotole con sembianza di papere, galline portaoggetti, giraffe ornamentali senza alcuna velleità utilitaristica, presine a forma di ranocchie e via dicendo, tutti oggetti a cui il nostro occhio assuefatto non presta più ormai la minima rilevanza, ma che non sfuggono al suo, attentissimo a cogliere il benché minimo particolare di ogni angolo, di ogni stanza, di ogni palmo di pavimento.
Mi piace pensare a lei qui, negli anni a venire, a immaginare un passato che non le appartiene ma che fa parte delle sue radici, a scoprire racconti familiari che ormai saranno diventati quasi leggende, a ispezionare fotografie sbiadite cercando i tratti di volti noti e facendo congetture su quelli non noti.
Le case hanno questo potere, di rappresentare la continuità, l'unità, la storia. Raccolgono tracce, conservano cimeli, perpetuano i ricordi.
E questo è vero soprattutto per le case delle nonne.
FOTODOCUMENTARIO NOTTURNO DI CASA DELLA NONNA:
Decorazione murale della zona "scale". |
Esempio di arredamento naif nonnesco. |
Ulteriore esempio di arredamento naif nonnesco. |
L'antro della nonna con veduta a volo d'uccello. |
Lettino sòla rifilato da mia zia. |
Esempio di tipico assortimento mobiliare nonnesco. |
Antro della nonna: organo e libreria. |
La povera pupa nel suo "letto" di fortuna. |
Segnalo questo post di Madamadoré, che mi ha ispirato queste riflessioni.
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mercoledì 15 giugno 2011
Rimettendo tutto a posto.
Ok, questo sarà un momento serio.
Uno dei rari momenti seri, a cui né io né tanto meno voi siete abituati, quindi, in caso non ne abbiate voglia, lasciate stare.
Da un po' di tempo c'è un pensiero che mi insegue a intermittenza.
Sto lì lì per, poi lascio stare.
Perché esporsi? Perché sbandierare come a Carramba le proprie emozioni più intime?
Però mi sembrava mi inseguisse, davvero.
Prima ho conosciuto Giuppy ed Ele, e ho trovato questo post. E poi, se mi è concesso, anche questo.
Poi mi sono imbattuta in questo di Gnappetta.
Ho conosciuto Owl, e anche da lei ho trovato questo scritto.
E ancora, questo, di Tri mamma.
Di recente la notizia della morte del padre di un'amica di infanzia mi ha portato a ripensare a quei momenti. Di attesa incerta. E ora, cosa accadrà? Non era molto chiaro, all'epoca.
Basta: rimettiamo un po' di cose a posto, che questa casa è un casino.
Ecco: guarda qui, questi quaderni mezzi scritti e mezzi no. Appunti dei miei corsi universitari. Che me ne faccio? Conoscendomi, li tengo per poter utilizzare le pagine ancora vuote.
Potrei strapparle e farne un bloc notes.
E poi, mentre sfoglio, mi capita tra le mani un quaderno di sette anni fa.
Non erano appunti universitari. Erano riflessioni.
E allora ho pensato di trascriverla qui, trovata in un quaderno di sette anni fa, rimettendo tutto a posto.
Non è mettere in piazza il dolore. E' condividere un ricordo.
Anche se poi forse mi pento. Ma ciò che proprio non vorrei è lasciar morire i ricordi.
E poiché ora non mi sento capace di scrivere e ricordare, li raccolgo da allora.
Non ci azzecca nemmeno con il tempo e la stagione, ma così: si è lasciato trovare.
7 ottobre 2004
Caro babbo,
sono tornata a casa.
Casa: mai come questa volta sento davvero di essere a casa. L'aria che si respira qui, il cielo, le vedute del sole che tramonta coi suoi raggi obliqui sulla mimosa e sugli altri alberi che mi fanno pensare a te, i colori di questo autunno appena agli inizi, così dolce e ancora più triste del solito, perché spazza via a ondate progressive anche gli ultimi ricordi di questa estate sofferta, ma pur con te, l'ultimo tempo della nostra vita in cui tu eri ancora presente.
Quanta calma sento dentro quando guardo quei prati al tramonto, dove un tempo, neanche tanto tempo fa, ero abituata a vedere te, tra le tue piante.
E io che per tanti anni mi son sentita tanto inquieta, ora ritrovo questa calma proprio quando tu non ci sei.
Perché qui mi pare di averti più vicino, in questo ambiente familiare in cui tutto mi parla di te.
Non ho mai amato tanto questa stagione. E ho sempre preferito vedere un'alba a un bel tramonto. Le prime foglie secche erano per me una stretta al cuore, e mi son sempre chiesta perché dovessi esser nata proprio in questo mese di ottobre, a festeggiare la mia venuta al mondo proprio quando la natura si prepara ad indossare il suo abito di morte apparente.
Ora non è più così. Penso che il fatto di esser nata in questa stagione abbia influito su quell'aspetto di malinconia e ombrosità che c'è nel mio animo da sempre, la paura che il tempo passi prima di poterne godere, che le cose finiscano prima di essermene saziata, la tristezza di veder morire una cosa bella senza poterci fare niente.
Questo sentimento mi ha accompagnato fin da quando ero piccola. Questo senso di inadeguatezza alla vita, di cui ti parlavo.
Perché la vita è morte, anche, e questa realtà che tutti conosciamo, spesso non amiamo prenderla troppo in considerazione, forse pensiamo che non ci riguardi, e, in fondo, perché preoccuparsene anzitempo?
Eppure il tempo che passa ci spaventa, e il susseguirsi delle stagioni ci stringe il cuore e ci serra la gola, ci fa sentire la finitezza del tutto come una lunga agonia. È stato quest'anno che mi sono accorta di amare questa stagione lenta e fatale.
E' stato solo dopo averti perso, tu, che sei stato una presenza così grande nella mia vita che ora mi sembra di vivere mutilata di un pezzo di anima; è stato solo dopo aver perso te che ho intuito la bellezza incomparabile di quei pochi minuti di attesa prima che il sole lasci il nostro emisfero tirandosi appresso lo strascico delle ultime luci crepuscolari. Solo ora godo la dolcezza di queste serate autunnali ancora memori del caldo e della luce estivi, ma coi loro raggi sempre più inclinati e quel senso di precarietà che ti mantiene consapevole del fatto che sono le ultime da passare in terrazza a guardare il cielo arrossarsi, che ti fanno sentire il desiderio di godertele ora, che ti sfuggono tra le dita scorrendo via sempre più brevi, perdendo di giorno in giorno minuti preziosi di sole, che prima si stiracchiava pigro invadendo le ore della notte, quelle tiepide notti estive quando la gente non aveva voglia di tornare a casa a dormire.
Quanto sono più preziosi questi momenti che sai essere gli ultimi?
Come un memento che si rinnova di continuo sotto i nostri occhi, dicendoci di vivere, vivere e soffrire, vivere e sapere di vivere, e di star vivendo gli ultimi momenti del nostro tempo nell'eternità.
Ancora non riesco a credere che tu sia finito qui, a questo punto incerto della mia vita, nonostante io abbia assistito alla tua lunga malattia, alla tua morte, poi.
Ma nei miei pensieri ti affacci sempre come eri prima, col sorriso di quando avevi appena detto una spiritosaggine o un'osservazione pungente su qualcuno, pieno di forza e di vita e di voglia di fare, di vedere, di conoscere.
Tu, per me, il mio riparo da quel mondo ostile che volevo conquistare ma che poi a volte mi prostrava. Allora bastava prendere il telefono, e chiamarti; rispondevi: "Eh!".
Ora è mattina, e c'è aria di casa in autunno, quando si era all'inizio dell'anno scolastico e ci si svegliava sempre più sonnolenti di giorno in giorno, perché il sole era sempre un po' più in ritardo. E i diari erano nuovi e ancora troppo bianchi, e correvamo per comprare e vendere libri usati, e quando pioveva mi facevo accompagnare da te in macchina ed eravamo sempre in ritardo.
Gli stessi odori della casa, dell'aria un po' più pulita e pungente che in estate, della mattina a colazione, la stessa atmosfera di un mondo che ci appartiene.
Come posso farmi una ragione che in questo tutto manchi qualcuno di così centrale, così importante, così caro?
Quando, dopo l'estate, sono ripartita, tu non mi hai accompagnata alla stazione.
Anche quei momenti avevano la stessa silenziosa malinconia di una giornata d'autunno. Andavamo alla stazione, tu mi accompagnavi, in macchina, ed era sempre tardi.
Parlavamo, lungo il percorso; io facevo come se niente fosse, ma dentro il cuore batteva più forte, come per tentare di superare in velocità le lancette dell'orologio e spingere il motore dell'auto a seguire quel ritmo. Da una parte il treno che partiva, dall'altra tu, che restavi, e gli ultimi minuti per parlare. Presto che perdiamo il treno. Ma in realtà avrei voluto e stare ancora un po', attardarmi...
Anche stavolta il treno è passato lungo la costa, e ho visto il sole tramontare sul mare.
Sentivo il cuore strapparmisi e venivo trasportata sempre più lontana dal tuo ricordo, da quelli che ti amavano, verso un mondo che ti ignorava, e ignorava il mio dolore. Gli amici lo avrebbero rispettato, ma in silenzio, evitando di parlare di te, nessuno però avrebbe capito.
Davanti a quel tramonto ho pensato che mi sarebbe piaciuto ritornare in quei posti per vederli insieme a te, in uno dei tanti nostri viaggi, come sempre capita di fronte a qualcosa di molto bello, che ti vien voglia di condividerne con qualcuno le emozioni.
E poi subito dopo la consapevolezza che tu ed io d'ora in poi siamo separati in due dimensioni diverse, e il baratro nerissimo di non vederti mai più, di non poter più condividere quei tramonti sulla costa, mi ha ingoiato, e sono morta anch'io un pezzettino.
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martedì 3 maggio 2011
Tanti auguri a te
Tanti auguri a te che hai avuto il coraggio di rifarlo per altre quattro volte...
Tanti auguri a te che non hai mai festeggiato la festa della mamma perchè sei nata ai primi di maggio, ed era comunque la tua festa.
Tanti auguri a te che ora con due nipotine sei già arrivata al livello successivo.
Tanti auguri Mamma!
(Tanti auguri a te!)
mercoledì 20 aprile 2011
Venuta al mondo
Sono venuta al mondo in un primo pomeriggio di metà ottobre di quasi un trentennio fa.
Era l'anno dello scandalo P2, che in Italia aveva visto coinvolte tante personalità di riguardo.
L'anno in cui si votava per il referendum sull'aborto.
L'anno che aveva visto convolare a nozze Carlo d'Inghilterra e Lady Diana Spencer.
L'anno dell'arresto di Mario Moretti, esponente più in vista delle BR, esecutore dell'omicidio Moro.
L'anno in cui l'IBM lancia sul mercato il primo PC.
L'anno dell'esordio musicale dei Metallica.
L'anno in cui era morto a Roma Rino Gaetano, investito da un'auto.
L'anno in cui, a Miami, era morto anche Robert Nesta Marley, in arte Bob, ucciso da un melanoma maligno all'alluce destro.
E quell'anno, in estate, la televisione italiana aveva trasmesso, a reti unificate, la lenta agonia di un bambino di sei anni che era caduto dentro un pozzo e non si era riusciti a tirare fuori.
Era l'anno dell'attentato a Carol Woitila, papa Giovani Paolo II, in Piazza San Pietro.
In Francia veniva abolita la pena di morte.
E fu in questo anno già gravido di eventi, più o meno luttuosi,che si inserisce anche la mia storia.
Quel giorno, una settimana dopo l'assassinio di Sadat, il capo maresciallo delle flotta aerea egiziana, Hosni Mubarak diventava presidente dell'Egitto, e lo sarebbe rimasto fino al febbraio del 2011.
Quel giorno era mercoledi.
Quel giorno una donna alla sua terza gravidanza, nel suo appartamento all'ottavo piano della periferia romana, iniziava a sentire ben noti crampi al basso ventre.
Ma è a questo punto che i dati certi a nostra disposizione iniziano a mancare, che Wikipedia non sopperisce più alle faglie della memoria e della conoscenza, che il confine tra realtà storica e leggenda inizia a farsi sottile e labile. E' a questo punto che devo iniziare ad affidarmi ai ricordi di resoconti, e di racconti uditi e ripetuti tante di quelle volte, da divenir racconti di ricordi di racconti fatti precedentemente. Sempre un pochino più mitologici del reale, ma fin dove, è impossibile dirlo. Per me, che raccolgo la testimonianza da destinataria, quanto per la narratrice stessa, che rivive con sguardo di volta in volta diverso quegli istanti un tempo vissuti, ora ricordati.
E dunque non saprei dire, quel giorno, che tempo facesse, per esempio, ma posso provare a immaginarlo, perchè conosco gli autunni romani, nei primi mesi del loro ingresso, variopinti di colori caldi e fruscianti di un tappeto di foglie secche sui marciapiedi, e i loro cieli tersi, di un azzurro impeccabile, intenso come solo in quei mesi dell'anno riesce ad essere, vergato di tanto in tanto di pennacchi di nuvole, che tanti artisti barocchi hanno ispirato, sulle pareti delle sue chiese storiche.
E quindi quel giorno io me lo immagino così: caldo e luminoso, di quella luce dorata di un sole declinante verso sud, che ha già iniziato la sua parabola discendente cedendo le sue ore diurne alla notte, crepitante di passi sui selciati tappezzati di fogliame colorato, appena malinconico per qull'addio momentaneo al tepore e alla luce che sappiamo di godere ancora per poco, per gli ultimi, privilegiati giorni.
E da qui inizia la leggenda.
Narra la mia fonte, che quel giorno iniziò dunque ad avvertire a intermittenze regolari, questi sospetti dolori che lei da esperta qual era, credo avesse dovuto riconoscere subito.
Da esperta qual era però, ben sapeva che la questione sarebbe stata lunga e snervante, se avesse cominciato sin da subito a dare in escandescenze, e quindi, da esperta qual era, trovò il modo di sedare temporaneamente i dolorosi preamboli di quell'incipiente travaglio con ripetute docce fredde (o erano calde? Dovrei tornare a consultare la mia fonte, ma la cosa al momento ha scarsa importanza).
Narra ancora la mia fonte, che quando si rese conto che la situazione stava rapidamente precipitando verso un parto accelerato, entrò in uno stato di concreta agitazione, poichè trovavasi al momento sola in casa, e facendosi impellente la necessità di raggiungere il più vicino ospedale, non aveva chi potesse accompagnarvela in auto, poichè il di lei marito risultava al momento irreperibile.
Ricordo, tanto per definire l'ambientazione storica, che i cellulari all'epoca erano ancora ben lungi dall'essere immessi sul mercato, e se già ne circolasse qualche prototipo, questo lo ignoro.
Fatto sta che la mia fonte dichiara di aver provato una grande angoscia, e racconta di come avesse chiesto aiuto alla signora che allora prestava servizio domestico presso l'abitazione dei suoceri, che abitavano sul pianerottolo, nell'appartamento di fronte del medesimo condominio all'ottavo piano di quella periferia romana.
Tal signora la carica in macchina e insieme si dirigono verso l'ospedale.
E qui per figurarvi la scena non dovete far altro che attingere alle numerosissime riproduzioni televisive, cinematografiche e pubblicitarie, che nel corso di decenni hanno arricchito la cultura collettiva di un campionario nutritissimo di casi di parto precipitoso, corredati da corsa all'ultimo minuto all'ospedale, con tanto di donna partoriente sdraiata nel sedile posteriore, urla strazianti e slaloom giganti in mezzo al traffico comatoso della capitale, tra comici e grotteschi inconvenienti e contrattempi di ogni tipo.
Perché pare che proprio così sia andata anche quella volta.
A detta della mia fonte, quel viaggio per arrivare in ospedale fu una corsa matta e disperatissima contro il tempo e le doglie, in un'auto alla cui guida era una persona che, oltre a possedere scarsissimi rudimenti in tema di conduzione di veicoli a motore, poco ne sapeva anche di logistica stradale, e assai male conosceva anche la sistemazione urbanistica delle città e la dinamica dei suoi percorsi viari.
E quindi la mia fonte racconta di come viaggiasse col cuore in gola su quel sedile posteriore (o era anteriore?), convinta che proprio lì lei avrebbe infine partorito, per quanto si sforzasse di concentrare la totalità delle proprie energie fisiche e psichiche nel tentativo di frenare o quanto meno rallentare quell'evento.
Racconta poi, la mia fonte, di come alla fine fossero arrivate all'ospedale sul filo del rasoio, di come l'avessero caricata sul lettino e scarrozzata di corsa per i corridoi e dentro gli ascensori, tanto che, in questo scarrozzamento folle, si perse persino la borsa del corredino della bimba che stava per venire al mondo, di come poi questa meravigliosa venuta al mondo si fosse consumata sulla soglia della sala parto, anzi no, che sto dicendo, nel corridoio del reparto maternità, anzi, no: nell'ascensore stesso che conduceva al piano.
E di come poi la neonata sia stata piazzata per un tempo non precisato sotto una lampada riscaldante, poiché, come detto prima, non si trovavano più i vestitini da infilarle, smarriti durante lo scarrozzamento folle della madre partoriente per i corridoi della struttura ospedaliera.
Per questo motivo, così credevo da piccola quando mi veniva raccontata per l'ennesima volta questa storia, poiché cioè ero rimasta nuda così a lungo, avevo avuto i miei primi brividi di freddo, di cui conservavo traccia in quella strana zona di pelle ruvida e granulosa che ho sempre avuto sul braccio destro, all'altezza del gomito, che sembra proprio come se avessi la pelle d'oca solo in quel punto, e che mio padre chiamava, con ironico motteggio, "pelle da rinoceronte", definizione che io accettavo e ripetevo con guerrigliero orgoglio.
I bambini si danno strane e fantasiose spiegazioni a fenomeni non altrimenti spiegabili, e se le fanno bastare.
I bambini hanno bisogno di attribuire origini leggendarie ai fenomeni che li circondano, compresa la loro stessa esistenza.
Il racconto della mia venuta al mondo, così come quella bizzarra pelle da rinoceronte che ho tuttora sul braccio, mi inorgoglivano smisuratamente.
Gli adulti dal canto loro finiscono per dare un peso eccessivo ad eventi che si verificano in fin dei conti per null'altro se non il caso, e spesso la nostra interpretazione di esso contribuisce non poco a imprimere una forma definita anche a ciò che viene dopo.
Solo molti anni dopo, trovandomi a mia volta dalla parte di colei che dà alla luce, e non di colei che viene alla luce, ho riconsiderato quel racconto dal punto di vista di chi tante volte me lo aveva narrato, e non dal punto di vista di una bambina che, a detta degli adulti, "non vedeva l'ora di uscire fuori" oppure "aveva proprio deciso che era ora di vedere il mondo", o che infine "non aveva più voglia di aspettare ancora".
Ne vien fuori l'immagine di un neonato predestinato al tagliar corto, al "lasciate fare a me", all' "ora basta, facciamola finita", o al "non ho bisogno di aiuto, io: faccio da sola, grazie" che è quanto meno un azzardo della pseudo-scienza del dimmi-come-sei-nato-e-ti-dirò-chi-sei, che va fortissimo ultimamente.
Del resto è stata un'etichetta che mi sono in parte dovuta accollare nel mio crescere, quella della figlia indipendente e autonoma, che vuole fare da sola, e che ha condizionato non poco anche alcune scelte della mia vita, spingendomi spesso a cacciarmi in situazioni per le quali forse non ero proprio all'altezza.
O magari c'era davvero un poco di verità in quel mio voler venire alla luce a tutti i costi quando lo dico io e solo quando lo decido io.
Ci sarà pure un motivo, dico io, se i Greci raccontavano che Minerva, dea della saggezza e della giustizia, fosse stata partorita dalla testa di Zeus, signore dell'Olimpo.
E forse non tutti sanno che la poetica nascita di Venere, dea dell'erotismo e dell'amore, dalla schiuma del mare, fosse stata in realtà dovuta al fatto che, tra quei flutti, il nostro Zeus avesse gettato i testicoli amputati del suo crudele padre Crono, divoratore dei propri figli.
Fatto sta che in ogni nascita credo ci sia quel tanto che basta di leggendario. E' nello stabilire in quanta parte questo leggendario sia presente, che sta il difficile.
Come l'arrivo tardivo del padre irreperibile all'ospedale, che pare abbia pronunciato, nel suo presentarsi a cose fatte, una frase del genere: "Allora, quanto manca al parto?"; o forse: "Sono già iniziate le contrazioni?", quando la sua adorabile figlioletta già si sollazzava nella culletta accanto agli altri bebé della nursery.
Ecco, come questa.
E mi viene inevitabilmente da pensare a come racconterò a mia figlia la sua venuta al mondo, e cosa lei ne penserà, e come questo racconto potrà condizionare l'immagine che lei stessa avrà di sé nel tempo a venire.
E anche se mi dico, con un pizzico di delusione e rammarico, che quella venuta al mondo in realtà ha avuto ben poco di leggendario e iperbolico, sono sicura del fatto che solo il tempo saprà tirar fuori dalle nebbie della mia memoria quanto di incredibile e mitologico si racchiudeva in realtà anche nella nascita di mia figlia, a pensarci bene.
Perché in fondo ogni nascita ha del miracoloso.
Con questo post rispondo all'invito di Mamma è in pausa caffé, qui.
Se anche voi volete arricchire il repertorio mitografico con la vostra leggenda, prego: fate pure.
Non potrà che essere interessante. E istruttivo!
Aggiornamento a dì 7/12/211: bannerizzo e partecipo al contest (infine) indetto dalla mia comare Trimamma:
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mercoledì 13 aprile 2011
Nonna mani di fata (mamma sconclusionata e pupa scatenata)
Le nonne sono capaci di stregonerie...
In due giorni e mezzo che è stata qui mia madre è riuscita a :
Ma già è qualcosa.
Ho riassaporato l'ebbrezza di muovermi leggera senza pupa.
Mi sono riappropriata del significato della parola "spensieratezza", letteralmente: privo di pensieri. Più o meno.
Precorrendo i tempi della pianificazione con quelli dell'attuazione, posso dire di aver depennato prima ancora di metterli nero su bianco due punti della mia mai realizzata lista dei buoni propositi, anch'essa rimasta un buon proposito, e quindi presente essa stessa in se stessa come punto della lista che, suppongo, mai verrà stesa, se mai è possibile venire a capo dell'interrogativo: è nato prima l'uovo o la gallina?
Quindi:
E ci aggiungo pure un fantastico box, accattato al famigerato Mercatino di Carlotta di Livorno, luogo delle meraviglie dove mi perderei a vagare per i capannoni per ore e ore, chiedendomi se mi potrà mai servire una falciatrice per il prato o una macchina da cucire Singer in ferro battuto del '63, e meravigliandomi del fatto che la gente potesse tenere in casa brutture inimmaginabili come quella consolle con specchiera in legno dipinto finto-liberty o quella carrozzina per le bambole in vimini e velette, e domandandomi infine, se mai tali oggetti approderanno ad altro nido, quali bizzarre personalità potranno mai sentire la necessità di acquistarli.In due giorni e mezzo che è stata qui mia madre è riuscita a :
- far mutare magicamente colore al lavello della cucina, da marroncino-beige a bianco accecante;
- rammendare gli infiniti e innumerevoli squarci della trapunta rossa che abitualmente utilizziamo quale tappeto di gioco della pupa;
- sfinire la pupa durante una mattinata ai giardini sotto il sole meridiano battente di una primavera prepotente, al punto da costringerla a tre ore di sonno di fila per recuperare le energie;
- indurre miracolosamente Hasuna ad alzarsi da tavola non appena terminato di cenare per approssimarsi furtivamente al suddetto lavello abbacinante di bianco e intavolare con lui una lotta all'ultimo sangue fatta di spintoni e spallate per chi dovesse lavare i piatti e chi godersi in santa pace il dopo-cena, mentre la sottoscritta, incredula e strodita, si godeva la scena soddisfatta (quando si dice: tra i due litiganti...).
Ma già è qualcosa.
Ho riassaporato l'ebbrezza di muovermi leggera senza pupa.
Mi sono riappropriata del significato della parola "spensieratezza", letteralmente: privo di pensieri. Più o meno.
Precorrendo i tempi della pianificazione con quelli dell'attuazione, posso dire di aver depennato prima ancora di metterli nero su bianco due punti della mia mai realizzata lista dei buoni propositi, anch'essa rimasta un buon proposito, e quindi presente essa stessa in se stessa come punto della lista che, suppongo, mai verrà stesa, se mai è possibile venire a capo dell'interrogativo: è nato prima l'uovo o la gallina?
Quindi:
comprare il lettino per pupa;cambio guardaroba pupa.
Ora la pupa ha un fantastico lettino di seconda mano smontato, che non saprei proprio dove infilare (bisognerà fare piazza pulita di qualcosa) e un fantastico box ove venir rinchiusa per evitare che si getti giù dalle scale di casa. Altro che bacinella!
E mai acquisto fu più tempestivo e puntuale di questo, poichè la pupa da ieri, ha deciso che era giunta l'ora di iniziare a fare seriamente:
La pupa gattona!
(12 aprile alle 16:09).
Quando il gioco si fa duro, le mamme impazziscono.
E mo' mi voglio proprio vedere!
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venerdì 4 marzo 2011
Regalo di compleanno a costo zero
E invece, eccola qua la primavera! E' arrivata inaspettatamente regalandoci un luminosissimo mattino di sole, frizzante di arietta fresca e un tantino ventoso, ma senza esagerare.
Ora, siccome mi rendo conto che iniziare sempre a scrivere prendendo come pretesto la situazione meteorologica in corso fa molto discorso di circostanza in ascensore, o, in assenza di esso, alla fermata dell'autobus, o, se come me preferite servirvi di locomozione propria, alla fila alla cassa del supermercato, tanto l'occasione per parlare del tempo che fa si trova sempre (non andate mai al supermercato perchè preferite rifornirvi su media-shoping o avete il vostro domestico nepalese che pensa alle vostre domestiche incombenze? C'è sempre Suster che vi aggiorna sull'andamento di temperatura e precipitazioni), dicevo, siccome questi discorsi di circostanza si fanno in genere per riempire attimi di imbarazzante silenzio, o tanto per dar fiato alla bocca, la finirò qui.
Oggi potrei parlarvi dell'emozionantissima esperienza vissuta da me e dalla pupa in questo splendido mattino bla bla bla, ma mi riservo di parlarvene con più calma domani, a cose fatte.
Oggi invece, vi scrivo mentre mastico il mio pranzo, consistente in un fantastico paninozzo, che di cucinare pure per me non ci avevo proprio voglia, dopo aver fatto attaccare per una buona metà la pastina della pupa al fondo della pentola dimenticata sul fuoco mentre raccoglievo i panni in terrazza finalmente asciutti, di grazia!
E quindi paninozzo così strutturato: pane 5 cereali (mìììì, che buono il pane di Ramona!), taleggio e insalata mashwia (trattasi di salsa tunisina a base di verdure, per lo più peperoni, dscisamente piccante). Brava Suster! Poi non lamentarti se: A- sei grassa; B- ti vengono i brufoli pure sulle sopracciglia; C- avverti un leggero bruciore di stomaco. Accidenti! Ma dovrò pur pranzare!
Dunque la pupa emerge dal suo sonnellino mattutino e sgranocchia, o meglio, succhia il suo creker seduta nel suo sproporzionato seggiolone e io scrivo.
Dopo avervi dato utilissimi suggerimenti per fare regali economici al vostro amore, ho quest'alzata di ingegno e mi cimento in un regalo a costo 0 (non è una "o" maiuscola, è uno zero) per mia sorella Gunkina, che oggi compie ben 36 anni (che questo mi serva da promemoria per ricordarmi che quest'anno arrivo anche io ai fatidici 30. Oibò). Auguri Gunchina!
Beh, l'idea mi è venuta perchè tempo fa, dopo aver pubblicato la storia di come Master sia entrata nel favoloso mondo di Suster, la mia sorella di sangue mi ha scherzosamente rimproverato via e-mail di trascurare i legami genetici a favore di quelli spirituali, ed io le avevo risposto promettendole e ripromettendomi di rimediare presto all'ingiusta ingiuria e all'ingiuriosa ingiustizia, con una dedica sul mio blog alla mia sorella di carne (non ho detto "in carne", ora non essere permalosa, su!), ossia Gunchina.
E così, date le circostanze, e trovandosi lei a molti chilometri di distanza, nell'impossibilità di reperire in tempo e recapitare un regalo tradizionale, dato anche il tempo bastardo che mi ha impedito di uscire negli ultimi giorni, ho pensato bene di utilizzare questo spazio come omaggio a Gunchina.
Che culo, a volte, avere una sorella come me, che ti fa di quei regaloni, che altrimenti uno se li sogna! Scommetto che state tutti invidiando Gunchina.
Bando alle ciance, che il tempo è un tiranno che stringe, e si chiama Denaro, soprattutto quando hai rimesso a letto la pupa e lei potrebbe risvegliarsi da un momento all'altro...
Detto fatto: nel Favoloso mondo di Suster, ecco a voi...
Gunchina!!!
Premesso che Suster ha una tendenza patologica ad affibbiare nomi assurdi alla maggior parte delle persone che si trovano ad avere con lei una Frequentazione Assidua e Continuativa (FAC), o un Rapporto Affettivo Significativo (RAS), o infine una Confidenzialità Assodata e Certa (CAC... scusate, non l'ho fatto apposta), o due di queste cose insieme, o addirittura tre, volevo puntualizzare che il nome anagrafico, o di battesimo, della Gunchina in questione, non è effettivamente questo.
Bisogna però anche puntualizzare un'altra cosa: che Gunchina, prima di diventare tale, ossia di assumere il nome Gunchina, era nei riguardi di noi fratelli più piccoli piuttostostr... ehm, dato che dev'essere un regalo di compleanno... piuttosto manesca e sadica, e che solo dopo aver assunto tale più recente nomenclatura è avvenuta la trasformazione interiore di Gunchina che l'ha portata ad essere la sorella maggiore che tutti vorrebbero avere. Ma andiamo per ordine.
1. La fustigatrice. Dei primi tempi della mia infanzia non ricordo gran che. Fortunatamente al degrado e allo sfacelo del tempo è scappata un'importante testimonianza: un'audiocassetta che riporta le nostre performances canore quando Suster aveva la tenera età di 2 anni e mezzo (9 gunchina, NdR.).
Tale registrazione a risentirla ora è un vero spasso, non tanto per la qualità delle nostre esibizioni, in cui mia madre ci incoraggiava a cimentarci, fomentando il nostro egocentrismo, quanto per il contorno di urla, litigi e pianti che condivano il teatrino. I pretesti per scatenare innocenti zuffe erano i più svariati. La più celebre rimane quella che conclude l'interpretazione di Gunchina del brano C'era una casa tanto carina, senza soffitto, senza cucina. Totto in pratica le brucia l'ultima strofa, inserendosi di straforo nella sua esibizione di bravura canora. Seguono pianti di mezz'ora di entrambi (perchè ovviamente era partito qualche pizzico assassino vendicativo) sul sottofondo di una me di 2 anni e mezzo impallata sulla prima frase di Pinocchio, ma dove vai? E via così.
Non lasciatevi ingannare dalla foto, molto amorosa, di me col caschetto biondo in braccio alla mia grande protettiva sorella. La prima Gunchina era il nostro spauracchio dell'infanzia: arrivava lei e finivano i giochi forsennati sul lettone dei genitori. Ci zittiva tutti a colpi ben assestati.
C'è da dire che noi dovevamo essere veramente dei gran rompipalle... ma andiamo avanti.
2. La capo scout. Salto avanti nel tempo di una quindicina d'anni. Gunchina ha una grandiosa carriera da capo scout e io mi accodo nell'organizzazione dei campeggi dei bambini, che fare cartelloni e animare giochi notturni era una cosa in cui mi realizzavo moltissimo. Occuparmi delle incombenze pratiche in un casale dove convivono per una settimana una trentina di bambini sotto i 10 anni... un po' meno. Io e Gunchina a pulire i cessi intasati e i pavimenti dei bagni allagati con i piedi in 5 centimetri di liquame di colore indefinito tra il marroncino e il senape, e lasciamo stare gli odori, e lasciamo stare pure quello che ho visto venire fuori da quei cessi nel tentativo di rimuovere l'ingorgo. Compito ingrato che ci era toccato espletare mentre nel refettorio si svolgevano le premiazioni dei giochi di fine campo. La situazione più ripugnante della mia vita. Grandi momenti, però, quei campi, da cui tornavi sempre coi nervi a fior di pelle e l'eusarimento galoppante.
3. La madrina. Quando, da brava giovane di famiglia cattolica praticante, mi appropinquavo a ricevre il santo sacramento della cresima, la nostra riconciliazione e unione tra sorelle era ormai compiuta al punto che ovviamente scelsi Gunchina quale mia madrina spirituale. Quel giorno avevamo una tabella di marcia serratissima, e io, come sempre organizzata e previdente, ero in crisi perchè dovevo ancora comprarmi un paio di scarpe decenti con cui presentarmi alla cerimonia. Il piano era che lei sarebbe andata a comprarmele quella mattina, mentre io sarei andata a scuola, lei poi sarebbe dovuta passare a prendermi con la macchina al termine delle lezioni, in maniera che io avrei potuto provare le scarpe e andare con lei eventualmente a cambiarle qualora non fossero andate.
Aspettai l'arrivo di Gunchina fin quando non fu sparito dalla mia visuale anche l'ultimo liceale tra quelli che sciamavano attardandosi all'uscita della scuola in quel sabato prefestivo. Aspettai ancora, ma lei non venne. Tornai a casa molto incacchiata perchè ci avevo messo un'eternità, dovendo prendere l'autobus zeppo di ragazzini vocianti delle scuole medie, chiedendomi che fine avesse fatto la mia madrina, munita delle mie scarpe, come la fata Smemorina di Cenerentola. La quale madrina aveva pensato bene, in quell'affannosa mattina, di prendere una curva un po' troppo stretta con la sua sportivissima 500 e di ribaltarsi con macchina e scarpe e tutto, in prossimità del mercato, dove intanto mia madre comprava le verdure, e accorreva di corsa in loco in quanto medico e in quanto madre. E quella fu la fine della gloriosa 500.
Gunchina passò quel pomeriggio al pronto soccorso, mentre io, che sono sempre stata una giovine molto emotiva, lo passai a piangere per buona parte del tempo. Però ci è rimasta una bellissima foto di coppia scattata quella sera al rientro dalla pizzeria in cui lei ostentava un bellissimo enorme cerotto sul naso.
4. La bambinaia. Correva l'anno 2010: Calci, ridente comune a 15 Chilometri da pisa, dove noi trascorremmo il mese di agosto in accogliente e pittoresca casa-mulino presa in affitto per l'occasione da mia madre, per consentire una confortevole e fresca villeggiatura a me puerpera e alla minuscola neonata pupa. Quella casa sarà pure stata pittoresca e avrà pure avuto il merito di essere fresca, ma forse per essere ad agosto, anche un po' troppo. Faceva un freddo che manco a novembre, il sole non ci batteva quasi mai, perchè trovavasi a ridosso di un costone montuoso, esposta a nord, e per finire, trattandosi di un bellissimo ex-mulino, ci passava sotto pure un ruscelletto, davvero molto pittoresco assai, ma che contribuiva alla generale frescura del luogo, pure un po' esagerata. Tanto per rincarare la dose, fu un agosto particolarmente piovoso.
La Suster si ritrovava barricata in casa con una marmocchia di 0 (zero) mesi che a un certo punto della giornata attaccava a piangere a dirotto ed era impssibile farla smettere finchè non si addormentava a notte inoltrata per spossamento. Il sonno notturno era sempre un'incognita, l'allattamento mi risucchiava le forze residue, i miei coraggiosi tentativi di "passegiate con la bimba" si risolvevano in brevi scarpinate verso valle (ci volevano 20 minuti solo per arrivare giù in paese) che terminavano quasi inevitabilmente con la diperazione della pupa, e allora bisognava subitaneamente fare dietro front e risalire l'erta con pupa in collo, spingendo la carrozzina con una mano, arrancando in salita tra i sassi e le buche. Poichè i miei fratelli, che andavano e venivano in conformità ai propri impegni estivi, non erano molto più esperti di me nell'affrontare la furia di quella neonata indemoniata, e mia madre si fermò meno di una settimana, causa altri impegni impellenti nella capitale e altrove, Hasuna giornate in macelleria come sempre, l'arrivo di Gunchina e di Flavio fu per me una manna dal cielo.
Gunchina prese in mano la situazione guidando passo passo quella madre esaurita prima ancora di iniziare nelle complesse e lunghissime procedure di addormentamento che ogni sera bisognava mettere in atto (perchè con me non dorme e con te si? Appena la prendo in braccio io inizia a piangere! Oddio come farò quando voi andrete via?). E Flavio cucinava (in pratica io non facevo niente). Con Gunchina siamo persino riuscite ad andare al mare con la piccola un pomeriggio, niente di che, un'innoqua passeggiata sul lungomare, un'ora in tutto, ma a me sembrava di risorgere a nuova vita.
Senza di lei non so come avrei fatto, e forse sarei morta lì, in quella casa frigorifera di Calci, e mi avrebbero ritrovata mesi e mesi più tardi con la pupa sempre urlante indemoniata che non dormiva mai.
Ecco: ci vorrebbe sempre una Gunchina per ogni madre disperata, per ogni Suster spiazzata, per ogni pupa indemoniata.
Queste le tappe fondamentali della mia vita con Gunchina, mia sorella biologica.
Va bene come regalo di compleanno? (Guarda che ci ho messo tutta la giornata a scriverlo!)
Ora, siccome mi rendo conto che iniziare sempre a scrivere prendendo come pretesto la situazione meteorologica in corso fa molto discorso di circostanza in ascensore, o, in assenza di esso, alla fermata dell'autobus, o, se come me preferite servirvi di locomozione propria, alla fila alla cassa del supermercato, tanto l'occasione per parlare del tempo che fa si trova sempre (non andate mai al supermercato perchè preferite rifornirvi su media-shoping o avete il vostro domestico nepalese che pensa alle vostre domestiche incombenze? C'è sempre Suster che vi aggiorna sull'andamento di temperatura e precipitazioni), dicevo, siccome questi discorsi di circostanza si fanno in genere per riempire attimi di imbarazzante silenzio, o tanto per dar fiato alla bocca, la finirò qui.
Oggi potrei parlarvi dell'emozionantissima esperienza vissuta da me e dalla pupa in questo splendido mattino bla bla bla, ma mi riservo di parlarvene con più calma domani, a cose fatte.
Oggi invece, vi scrivo mentre mastico il mio pranzo, consistente in un fantastico paninozzo, che di cucinare pure per me non ci avevo proprio voglia, dopo aver fatto attaccare per una buona metà la pastina della pupa al fondo della pentola dimenticata sul fuoco mentre raccoglievo i panni in terrazza finalmente asciutti, di grazia!
E quindi paninozzo così strutturato: pane 5 cereali (mìììì, che buono il pane di Ramona!), taleggio e insalata mashwia (trattasi di salsa tunisina a base di verdure, per lo più peperoni, dscisamente piccante). Brava Suster! Poi non lamentarti se: A- sei grassa; B- ti vengono i brufoli pure sulle sopracciglia; C- avverti un leggero bruciore di stomaco. Accidenti! Ma dovrò pur pranzare!
Dunque la pupa emerge dal suo sonnellino mattutino e sgranocchia, o meglio, succhia il suo creker seduta nel suo sproporzionato seggiolone e io scrivo.
Dopo avervi dato utilissimi suggerimenti per fare regali economici al vostro amore, ho quest'alzata di ingegno e mi cimento in un regalo a costo 0 (non è una "o" maiuscola, è uno zero) per mia sorella Gunkina, che oggi compie ben 36 anni (che questo mi serva da promemoria per ricordarmi che quest'anno arrivo anche io ai fatidici 30. Oibò). Auguri Gunchina!
Beh, l'idea mi è venuta perchè tempo fa, dopo aver pubblicato la storia di come Master sia entrata nel favoloso mondo di Suster, la mia sorella di sangue mi ha scherzosamente rimproverato via e-mail di trascurare i legami genetici a favore di quelli spirituali, ed io le avevo risposto promettendole e ripromettendomi di rimediare presto all'ingiusta ingiuria e all'ingiuriosa ingiustizia, con una dedica sul mio blog alla mia sorella di carne (non ho detto "in carne", ora non essere permalosa, su!), ossia Gunchina.
E così, date le circostanze, e trovandosi lei a molti chilometri di distanza, nell'impossibilità di reperire in tempo e recapitare un regalo tradizionale, dato anche il tempo bastardo che mi ha impedito di uscire negli ultimi giorni, ho pensato bene di utilizzare questo spazio come omaggio a Gunchina.
Che culo, a volte, avere una sorella come me, che ti fa di quei regaloni, che altrimenti uno se li sogna! Scommetto che state tutti invidiando Gunchina.
Bando alle ciance, che il tempo è un tiranno che stringe, e si chiama Denaro, soprattutto quando hai rimesso a letto la pupa e lei potrebbe risvegliarsi da un momento all'altro...
Detto fatto: nel Favoloso mondo di Suster, ecco a voi...
Gunchina!!!
Premesso che Suster ha una tendenza patologica ad affibbiare nomi assurdi alla maggior parte delle persone che si trovano ad avere con lei una Frequentazione Assidua e Continuativa (FAC), o un Rapporto Affettivo Significativo (RAS), o infine una Confidenzialità Assodata e Certa (CAC... scusate, non l'ho fatto apposta), o due di queste cose insieme, o addirittura tre, volevo puntualizzare che il nome anagrafico, o di battesimo, della Gunchina in questione, non è effettivamente questo.
Bisogna però anche puntualizzare un'altra cosa: che Gunchina, prima di diventare tale, ossia di assumere il nome Gunchina, era nei riguardi di noi fratelli più piccoli piuttosto
1. La fustigatrice. Dei primi tempi della mia infanzia non ricordo gran che. Fortunatamente al degrado e allo sfacelo del tempo è scappata un'importante testimonianza: un'audiocassetta che riporta le nostre performances canore quando Suster aveva la tenera età di 2 anni e mezzo (9 gunchina, NdR.).
Tale registrazione a risentirla ora è un vero spasso, non tanto per la qualità delle nostre esibizioni, in cui mia madre ci incoraggiava a cimentarci, fomentando il nostro egocentrismo, quanto per il contorno di urla, litigi e pianti che condivano il teatrino. I pretesti per scatenare innocenti zuffe erano i più svariati. La più celebre rimane quella che conclude l'interpretazione di Gunchina del brano C'era una casa tanto carina, senza soffitto, senza cucina. Totto in pratica le brucia l'ultima strofa, inserendosi di straforo nella sua esibizione di bravura canora. Seguono pianti di mezz'ora di entrambi (perchè ovviamente era partito qualche pizzico assassino vendicativo) sul sottofondo di una me di 2 anni e mezzo impallata sulla prima frase di Pinocchio, ma dove vai? E via così.
Non lasciatevi ingannare dalla foto, molto amorosa, di me col caschetto biondo in braccio alla mia grande protettiva sorella. La prima Gunchina era il nostro spauracchio dell'infanzia: arrivava lei e finivano i giochi forsennati sul lettone dei genitori. Ci zittiva tutti a colpi ben assestati.
C'è da dire che noi dovevamo essere veramente dei gran rompipalle... ma andiamo avanti.
2. La capo scout. Salto avanti nel tempo di una quindicina d'anni. Gunchina ha una grandiosa carriera da capo scout e io mi accodo nell'organizzazione dei campeggi dei bambini, che fare cartelloni e animare giochi notturni era una cosa in cui mi realizzavo moltissimo. Occuparmi delle incombenze pratiche in un casale dove convivono per una settimana una trentina di bambini sotto i 10 anni... un po' meno. Io e Gunchina a pulire i cessi intasati e i pavimenti dei bagni allagati con i piedi in 5 centimetri di liquame di colore indefinito tra il marroncino e il senape, e lasciamo stare gli odori, e lasciamo stare pure quello che ho visto venire fuori da quei cessi nel tentativo di rimuovere l'ingorgo. Compito ingrato che ci era toccato espletare mentre nel refettorio si svolgevano le premiazioni dei giochi di fine campo. La situazione più ripugnante della mia vita. Grandi momenti, però, quei campi, da cui tornavi sempre coi nervi a fior di pelle e l'eusarimento galoppante.
3. La madrina. Quando, da brava giovane di famiglia cattolica praticante, mi appropinquavo a ricevre il santo sacramento della cresima, la nostra riconciliazione e unione tra sorelle era ormai compiuta al punto che ovviamente scelsi Gunchina quale mia madrina spirituale. Quel giorno avevamo una tabella di marcia serratissima, e io, come sempre organizzata e previdente, ero in crisi perchè dovevo ancora comprarmi un paio di scarpe decenti con cui presentarmi alla cerimonia. Il piano era che lei sarebbe andata a comprarmele quella mattina, mentre io sarei andata a scuola, lei poi sarebbe dovuta passare a prendermi con la macchina al termine delle lezioni, in maniera che io avrei potuto provare le scarpe e andare con lei eventualmente a cambiarle qualora non fossero andate.
Aspettai l'arrivo di Gunchina fin quando non fu sparito dalla mia visuale anche l'ultimo liceale tra quelli che sciamavano attardandosi all'uscita della scuola in quel sabato prefestivo. Aspettai ancora, ma lei non venne. Tornai a casa molto incacchiata perchè ci avevo messo un'eternità, dovendo prendere l'autobus zeppo di ragazzini vocianti delle scuole medie, chiedendomi che fine avesse fatto la mia madrina, munita delle mie scarpe, come la fata Smemorina di Cenerentola. La quale madrina aveva pensato bene, in quell'affannosa mattina, di prendere una curva un po' troppo stretta con la sua sportivissima 500 e di ribaltarsi con macchina e scarpe e tutto, in prossimità del mercato, dove intanto mia madre comprava le verdure, e accorreva di corsa in loco in quanto medico e in quanto madre. E quella fu la fine della gloriosa 500.
Gunchina passò quel pomeriggio al pronto soccorso, mentre io, che sono sempre stata una giovine molto emotiva, lo passai a piangere per buona parte del tempo. Però ci è rimasta una bellissima foto di coppia scattata quella sera al rientro dalla pizzeria in cui lei ostentava un bellissimo enorme cerotto sul naso.
4. La bambinaia. Correva l'anno 2010: Calci, ridente comune a 15 Chilometri da pisa, dove noi trascorremmo il mese di agosto in accogliente e pittoresca casa-mulino presa in affitto per l'occasione da mia madre, per consentire una confortevole e fresca villeggiatura a me puerpera e alla minuscola neonata pupa. Quella casa sarà pure stata pittoresca e avrà pure avuto il merito di essere fresca, ma forse per essere ad agosto, anche un po' troppo. Faceva un freddo che manco a novembre, il sole non ci batteva quasi mai, perchè trovavasi a ridosso di un costone montuoso, esposta a nord, e per finire, trattandosi di un bellissimo ex-mulino, ci passava sotto pure un ruscelletto, davvero molto pittoresco assai, ma che contribuiva alla generale frescura del luogo, pure un po' esagerata. Tanto per rincarare la dose, fu un agosto particolarmente piovoso.
La Suster si ritrovava barricata in casa con una marmocchia di 0 (zero) mesi che a un certo punto della giornata attaccava a piangere a dirotto ed era impssibile farla smettere finchè non si addormentava a notte inoltrata per spossamento. Il sonno notturno era sempre un'incognita, l'allattamento mi risucchiava le forze residue, i miei coraggiosi tentativi di "passegiate con la bimba" si risolvevano in brevi scarpinate verso valle (ci volevano 20 minuti solo per arrivare giù in paese) che terminavano quasi inevitabilmente con la diperazione della pupa, e allora bisognava subitaneamente fare dietro front e risalire l'erta con pupa in collo, spingendo la carrozzina con una mano, arrancando in salita tra i sassi e le buche. Poichè i miei fratelli, che andavano e venivano in conformità ai propri impegni estivi, non erano molto più esperti di me nell'affrontare la furia di quella neonata indemoniata, e mia madre si fermò meno di una settimana, causa altri impegni impellenti nella capitale e altrove, Hasuna giornate in macelleria come sempre, l'arrivo di Gunchina e di Flavio fu per me una manna dal cielo.
Gunchina prese in mano la situazione guidando passo passo quella madre esaurita prima ancora di iniziare nelle complesse e lunghissime procedure di addormentamento che ogni sera bisognava mettere in atto (perchè con me non dorme e con te si? Appena la prendo in braccio io inizia a piangere! Oddio come farò quando voi andrete via?). E Flavio cucinava (in pratica io non facevo niente). Con Gunchina siamo persino riuscite ad andare al mare con la piccola un pomeriggio, niente di che, un'innoqua passeggiata sul lungomare, un'ora in tutto, ma a me sembrava di risorgere a nuova vita.
Senza di lei non so come avrei fatto, e forse sarei morta lì, in quella casa frigorifera di Calci, e mi avrebbero ritrovata mesi e mesi più tardi con la pupa sempre urlante indemoniata che non dormiva mai.
Ecco: ci vorrebbe sempre una Gunchina per ogni madre disperata, per ogni Suster spiazzata, per ogni pupa indemoniata.
Queste le tappe fondamentali della mia vita con Gunchina, mia sorella biologica.
Va bene come regalo di compleanno? (Guarda che ci ho messo tutta la giornata a scriverlo!)
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