lunedì 30 aprile 2012

Indipendenza.


Un anno e nove mesi.
Lei si arrampica sulla sedia della cucina e pretenderebbe di salire anche sul tavolo.
Sulle sedie, ormai ho rinunciato a impedirglielo, anche se lo so, prima o poi si rovescerà all'indietro, lei, la sedia, e tutto ciò che riuscirà ad afferrare nel tentativo di tenersi, quando cadrà. Sul tavolo tengo duro: non si sale.
Le chiedo di cosa ha bisogno e le allungo il suo bicchiere con succo di mela.
Noooooooooo! Un urlo echeggia per la casa.
Lei vuole arrivarci da sola. Ci sa arrivare, ha imparato come fare e non vuole essere aiutata. Giustamente, anche.
Mi allontano per quindici secondi, torno in cucina e la trovo trionfante, in piedi sulla solita sedia, una banana in mano, che mangia con gusto e soddisfazione.
- Ma... come hai fatto a...
Come vuoi che abbia fatto? Si è allungata sul tavolo e l'ha presa. Prima d'ora mi aveva sempre chiesto di togliere la buccia, ma evidentemente ha trovato la strada.
Sono contenta quando la vedo muoversi in autonomia.
Ultimamente il tempo che dedica a giocare da sola è sempre più lungo. La sento cantare, parlare, recitare a memoria le filastrocche dei suoi libretti. Prende un libro e inizia a leggerlo, da sola, al suo gatto Amleto. Oppure li fissa sull'orlo del comodino, a mo' di leggio, e prende a sfogliarli, seguendo le immagini parlando e cantilenando a voce alta. A volte si blocca o si perde, e allora intervengo io, sulla strofa dimenticata.
- Non leggia'e mamma! Non canta'e mamma!
Mi rimprovera, e io mi zittisco.
Mi porge un cd e mi chiede di mettere la musica.

Indipendenza è sapere ciò che si vuole, effettuare le proprie scelte in autonomia, e non è facile.
Fino a poco tempo fa non sapeva realmente quel che voleva. Ora inizia ad averne un'idea un po' più chiara: il fatto di saperlo comunicare verbalmente la aiuta a focalizzare l'obiettivo.
Scegliere un libro piuttosto che un altro, una canzone piuttosto che un'altra.
Fino a poco tempo fa non avrei potuto chiederle: "Vuoi questo o quello?" L'alternativa la spiazzava.
Ora sa scegliere: io la trovo una grande conquista.
La prima cosa quindi che mi viene in mente a proposito dell'indipendenza è questa: sapere cosa si vuole, e non è facile, neppure per un adulto. Molto più facile è sapere cosa non si vuole.
Prepararsi alle scelte importanti che si faranno crescendo è sapersi chiedere: cosa voglio fare?
Perché ogni scelta ne preclude altre: scegliere è eliminare alternative, riuscire a imporre la propria preferenza, stabilire quale sia per noi la soluzione più praticabile, più gratificante o più urgente.

Se penso a molte delle mie scelte passate, le vedo connotate soprattutto da due fattori: estrema indecisione fino all'ultimo, e una generale passività nei confronti delle circostanze, che ti porta in genere a percorrere la strada più scontata. Malgrado ciò non posso dire di aver lasciato che altri prendessero decisioni per me, o influenzassero, se non con consigli e pareri (che ho sempre richiesto) le mie.
Mi piacerebbe che lei nella sua vita riuscisse ad esercitare un'indipendenza di "scelta" non solo dalle persone, ma anche dai modelli precostituiti, dai percorsi forzati, dalle scelte in cui non credi con tutto te stesso, che riesca ad avere chiara l'idea di "cosa" vuole, "chi" vuole essere e "cosa" vuole fare, perché già il saperlo è la prima parte della realizzazione.
Per questo voglio che lei sperimenti e conosca, che impari a capire cosa le piace, che si identifichi con le proprie passioni, che le sue conoscenze entrino a far parte del suo modo di essere, del bagaglio di ciò che costituirà il nocciolo profondo del suo essere.
Per questo quando scelgo per lei cerco di fare grande attenzione a ciò che al momento la possa interessare e coinvolgere, e osservo le sue reazioni, le sue interazioni con le cose e con le attività.
Per questo, magari ingenuamente, ma provo spesso a proporgli delle alternative possibili, a renderla partecipe di alcune decisioni nell'ambito della gestione della nostra giornata, a farle capire che una cosa esclude l'altra, e a farglielo accettare in maniera consapevole, senza che debba apparire un ricatto. 

La seconda cosa che mi viene in mente è legata al fare.
Fare da sola è dunque al momento un esigenza ricorrente: vuole inserire lei il disco nello stereo e lo vuole far partire lei, vuole accendere e spegnere la luce, quando entriamo in una stanza, vuole sbucciare da sola i mandarini che mangia, aprire pacchetti di creckers, lavarsi e asciugarsi le mani da sola, e pure pettinarsi. Guai ad aiutarla!
- E' MMMIIIOOOOO!
echeggia da qualche tempo per casa e pure per strada, quando ci troviamo noi a passare per un qualche luogo.
All'inizio pensavo si trattasse della rivendicazione di un possesso, e mi stupivo, perché quello della proprietà è sempre stato un concetto che ho cercato di limitare e di circoscrivere all'utilità degli oggetti. Ho pensato che il contatto con i bimbi del nido deve averla messa per forza di cose nella necessità di "marcare il territorio" nei confronti altrui.
Poi ho capito: "E' mio" in questo momento non si riferisce tanto al possesso di cose. Quando Mimi dice "E' mio" in realtà vuole significare: "Questa cosa devo farla io, è di mia competenza!"
Io devo aprire le finestrelle del libro, e tu non puoi nemmeno aiutarmi socchiudendole, anche se non mi riesce, piuttosto che lasciar spodestare il mio primato esecutivo dal tuo intervento, passo avanti e salto la pagina, anche se non saprò mai quale animale si nasconde dietro al bambù.
E se mi cade un pezzetto di carne mentre mangio, guai a raccoglierla! Lo devo fare IO, mamma, anche se non riesco a infilzarla come si deve tra i rebbi della forchetta (va be', rebbi lo dici tu, mamma, io dico "focchetta" ed è già tanta roba), ma ci provo e ci riprovo, anche se potrei portarmela alla bocca con le mani, ma qui è in gioco la dimostrazione della mia autosufficienza e padronanza del bon ton.

Il problema è questo: se non ci riesce perde le staffe, inizia a urlare, si arrabbia, si arrabbia di più se cerco di aiutarla senza toglierle l'oggetto di mano, di mostrarle il modo giusto per riuscire.
Rinuncio: va be', allora se lo sai fare fallo da sola. Ma questa presa di distanza non può che causare un nuovo accesso di rabbia: l'ho appena messa di fronte alla sua incapacità di risolvere da sola un problema. Voglio farlo e non ci riesco. Però voglio farlo io, proprio io, da sola.

Non sono ancora brava ad affrontare queste situazioni di conflitto, la frustrazione delle cose e delle situazioni che non vogliono rispondere ai suoi comandi, alla sua volontà, ora che inizia ad avere chiara l'idea del suo potere su di esse, di poterle trasformare, di avere la possibilità di farle funzionare.
La conquista dell'indipendenza si accompagna allo sviluppo della propria autostima e contribuisce ad alimentarla. Forse il ruolo del genitore in questi casi può essere quello, non solo di incoraggiare la libera iniziativa, ma di insegnare a gestire il proprio orgoglio, ad accettare i propri limiti, ad avere consapevolezza delle proprie capacità e ad essere disponibili per affinarle, imparando dagli altri, a non essere schiavo dell' "Io lo so fare da solo", ma armarsi dell' "Io posso imparare a farlo da solo".

Chissà tra quante altre sfuriate di rabbia ancora...


La riflessione sul tema dell'indipendenza mi viene da un'iniziativa del blog Mens Sana.
Io però sono rimasta indietro, a qualche settimana fa. Recupero oggi a percorso concluso.


domenica 29 aprile 2012

Merende notturne e body art.

Capita, non spesso, è vero, ma capita, alle volte, che alcuni risvegli siano molto anticipati rispetto all'abituale decorso biologico di una madre normo-dotata. Capita che una certa pupa di mia conoscenza intorno alle 4 di notte o giù di lì (quando la sottoscritta ha preso sonno da poco più di due ore o giù di lì) parta con una delle sue miglior performances istrioniche (dove troverà l'energia a quell'ora non saprei) e vedendosi a lungo ignorata nella speranza che i suoi entusiasmi notturni repentini vengano smorzati, insista a gran voce perchè "cialtiamo?" oppure parta con il ritornello: "Fa'e me'enda Mimi, fa'e me'enda Mimi!" "Mimi, ma che merenda, sono le 4, vedi di dormire..." "Tuccodimela tuccodimela!". Ecco io inizio a dubitare che il consumo irresponsabile di questo succo di mela la mandi talvolta in sovradosaggio glicemico, di modo che lei risulta tipo dopata.
In somma, una poveraccia alla fine si alza, che deve fa'?

Cosa fare alle 6 di mattino per sfinire le energie di una pupa dopata?
Attenzione, sto per mostrarvi immagini che non consiglio di ripetere a casa, a meno che voi non vi troviate in una situazione di analoga gravità.

Ok, la finisco: oggi parleremo di Body-art.
Era da tempo che volevo scriverne; oggi coglierò l'occasione di questo mio inutile stato di veglia in condizioni meteorologiche avverse, mentre i restanti quattro abitanti della casa se la dormono (gatti inclusi).
Voglio innanzi tutto segnalare colei a cui mi sono ispirata, in fatto di attività da fare con i bambini è un poco la mia guru, a proposito di pittura ho trovato molto interessante questo post, che mi ha offerto molti punti focali su cui riflettere e lavorare.
Non è così intuitivo e semplice far dipingere un bambino piccolo.
Io credo che la prima e la più importante regola da osservare sia proprio "osservare", capire le diverse esigenze e le diverse propensioni di ciascun piccolo artista del pennello, e proporre un approccio graduale.
Spero che Debbie non me ne vorrà se espongo qui le mie riflessioni in appendice alle sue.

La prima volta con la pupa è stato un mezzo disastro (ne avevo parlato un po' qui).
Nel frattempo abbiamo fatto grandi passi avanti.
Dunque la prima cosa è osservare, la seconda è non arrendersi alla prima difficoltà (i bambini devono avere il tempo di abituarsi a una novità, oltre che di imparare a dedicarsi ad un'attività che non conoscono); la terza è imparare dai propri errori.
E io ne avevo fatti una serie:
  • Credendo di dover lasciare il più possibile spazio alla sua libera iniziativa, le avevo messo a disposizione colori e strumenti (un pennello) e avevo lasciato che sperimentasse da sola l'uso che poteva farne. In realtà credo che questa cosa l'abbia spiazzata: lei era molto attratta dalla pastosità dei colori per dita, se li spiaccicava tra le mani, ma non arrivava a immaginare un possibile utilizzo diverso da quello di assaporarne consistenza e giocare a farci cik-ciak. Mi rendo conto che anche quella è una fase importante: prendere dimestichezza col materiale, conoscerne le qualità materiche e saggiarne le potenzialità. Allora forse avrei dovuto lasciare che questo primo approccio si esaurisse nella reciproca conoscenza, senza pretendere che lei si desse subito alla pratica pittorica.
  • Sempre nella convinzione di lasciarla il più libera possibile, le avevo messo a disposizione un'enorme superficie di cartone su cui lei potesse muoversi liberamente (anche per limitare il debordare dell'esperienza artistica al di fuori dai limiti consentiti). In realtà mi sono accorta  che riusciva a concentrarsi maggiormente e a trarre maggior gratificazione quando si trovava a disposizione uno spazio ben delimitato, più gestibile almeno finché non avesse preso maggior confidenza con la tecnica.
  • L'avevo incoraggiata ad utilizzare le mani, credendo che un approccio più diretto con il colore, il contatto coi materiali, la possibilità di imprimere segni colorati sul cartone direttamente con le dita, fosse più semplice all'inizio e più stimolante. Avevo dei preconcetti, è vero. In realtà ho dovuto constatare che a lei non piace particolarmente avere le mani sporche e molto impiastricciate senza avere la possibilità di pulirle, e questo ha fatto sì che istintivamente le mettesse in bocca, come avrebbe fatto se le avesse avute ad esempio sporche di banana spiaccicata o di yogurt, e le conseguenze sono state pessime.
In realtà rimasi molto stupita quando una maestra del nido (una della classe dei più grandi, tra l'altro, non una delle sue) mi venne a dire che Mimi, la prima volta che aveva partecipato ad un'attività di gruppo di pittura, si era distinta per l'ordine e la disciplina con cui aveva impugnato il pennello, evitando accuratamente di sporcarsi le mani, e mentre tutti combinavano i più grandi casini tutt'intorno, lei spennellava diligentemente e con grande attenzione il suo foglio, senza degenerare più di tanto. Se la maestra era stupita di questo, io ho capito che dovevo ritentare l'esperimento a casa, perché non era vero che lei non fosse pronta, era vero solo che io non avevo prestato la giusta attenzione alle sue attitudini, e non le avevo permesso di trovarsi a proprio agio.

Quindi si ritenta:





Stavolta ho preso questi accorgimenti:

  • Onde evitare lo sgradevole incidente del pasteggio a tempere a dita, mi sono cimentata nella mirabolante impresa di realizzare tempere casalinghe con materiali ingeribili (farina e acqua, più i famigerati coloranti alimentari).
  • Al posto del grande cartone un cartone ridotto, che ho fissato al suo piccolo tavolino milleusi altezza pupa, che lei già utilizza quando disegna con le matite colorate, e vedo che si trova più a suo agio dovendo gestire una piccola superficie.
  • Le ho dato subito in mano i pennelli e le ho mostrato come utilizzarli (ma a quanto pare aveva già fatto pratica altrove!)
A un certo punto di sua iniziativa ha iniziato ad usare le mani per spargere il colore, in alternanza col pennello.




 Avere le mani sporche non le piace a lungo andare, quindi le metto a disposizione diversi canovacci e le mostro come pulire se stessa e i pennelli quando sono molto inzaccherati:

 

Il risultato, di cui siamo state molto orgogliose, è stato questo:


A me piace molto: mi sembra una foresta incantata con alcuni Dolmen... va be', ma non pretendo che li vediate anche voi!

Alcuni appunti finali (partendo dalle osservazioni di Debbie):

  • ho dovuto superare la mia resistenza a lasciare che la pupa si sporcasse da capo a piedi quando la faccio dipingere, anzi, ho messo questa eventualità in conto, e quasi come una necessità. Il problema è che io sono piuttosto pigra per quanto riguarda rassettare e predisporre tutto nie minimi particolari. Piuttosto che cambiarla due volte (prima e dopo la pittura) e dover comunque avere dei panni da lavare, lascio che si sporchi gli abiti che ha indosso, tanto qualsiasi copertura non sarebbe sufficiente del tutto e poi le tempere per bimbi sono perfettamente lavabili e i vestiti tornano puliti senza tanta fatica.
  • Idem come sopra per il pavimento: non metto nessuna protezione sotto, preferisco passare un colpo di straccio alla fine che avere teli e giornali fradici e impiastricciati da levare di mezzo. L'unico problema è che quando la stagione non è ancora calda, stare sul nudo pavimento è altamente sconsigliabile in casa nostra, ma pare che ne stiamo venendo fuori...
  • Le mie tempere fatte in casa erano una ciofeca: troppo liquide,  il colore steso non era opaco, ma praticamente invisibile sul cartone scuro. alla fine le ho integrate con i soliti colori a dita, una volta appurato che l'incidente della prima volta non si sarebbe ripetuto in condizioni ottimali (i colori alimentari sono necessari per i bimbi che vengono iniziati alla pittura quando sono molto più piccoli, ma la pupa ha già quasi due anni, e riesce a controllare quasi perfettamente l'istinto di saggiare tutto con la bocca!). Non escludo però che qualche volenteroso possa provare a mettere a punto una ricetta perfetta (la pasta del colore deve risultare molto densa per poter dare buoni risultati di visibilità!) e realizzare le sue tempere fatte in casa. Fatemi sapere in caso!
  • Debbie non interviene mai nel lavoro di suo figlio. Io con la pupa invece non sono riuscita a trattenermi: ho collaborato. Ritengo che dipenda dallo scopo che vi prefissate: io sono portata per lo svolgere un'attività insieme, pur non interferendo con il suo lavoro, ma mi rendo conto che da un altro punto di vista questo potrebbe essere inteso come "condizionare la sua libera espressività". Però mi piace quando lei dice, indicando il cartone "L'hanno fatto Mimi e mamma!"
  • Io non taccio. Io non taccio quasi mai quando sto con la pupa: praticamente da quando è nata non faccio che parlare di continuo, un monologo ininterrotto fino a qualche mese fa, un dialogare esilarante ora. Il nostro modo di rapportarci l'un l'altra è fatto soprattutto di parole, interrogazioni, risposte, descrizione di ciò che stiamo facendo o che abbiamo appena fatto. Quando lei mi dice: "Mette il giallo Mimi?" Io rispondo: "Sì, Mimi, metti il giallo, brava!". Quando lei mi dice: "Chebello chebello ha fatto Mimi!" io incalzo: "Sì Mimi, è proprio bellissimo! Brava!" E non so se ciò sia ineducativo, ma non credo che lei dipinga solo "per compiacere me", ma che le piaccia condividere la soddisfazione di aver fatto qualcosa di bello. E' una bambina estremamente comunicativa e non potrei smorzare i suoi entusiasmi astenendomi dal parteciparvi.
Terza prova:







Mimi è ormai padrona della tecnica ed è più disinvolta nell'usare pennello o mani. Sperimenta anche le potenzialità della body art. Con che coraggio impedirglielo?

Io per conto mio ho oramai interiorizzato una pressocchè totale indifferenza allo sporco da pittura da dita. Tanto pulire, bisogna pulire, e allora...


 La piccola Pollok!


Mimi sperimenta un'epifania vera e propria: se tu mischi blu...


...e rosso...




"Biola! E' biola mamma! E' Biola!"


Guardava e cercava di capire la magia. E' stato molto bello vederla fare questa scoperta, vederla cosciente della portata di ciò che aveva appena svelato.

Ma veniamo a oggi:





Ottima cosa essere ancora in pigiama e pregustare un bel bagno con animali spompa-pupa.
La body art è ormai pratica appurata e consolidata.
Ci si tinge di rosso con cura i piedi...


Poi si passa alle braccia:




Il misfatto è compiuto.
Posso dire che abbiamo una pupa perfettamente iniziata alla pittura con dita, mani, piedi, corpo...

Oggi ho voluto anche inserire una variazione sul tema (l'idea non è proprio mia: il suggerimento me l'ha dato questo  blog).



Una spugna tagliata in pezzi di varie forme.



L'idea era che si potessero usare come una sorta di timbrini, ma lei ha preferito darsi alla Drip Painting!

Riepilogando care mamme, cosa dire?
Osservare, non desistere, imparare dai propri errori, mettere a loro agio i piccoli artisti, non imporsi metodi prefabbricati, seguire la propria indole, accettare di buon grado lo sporco, lasciare il campo aperto a sperimentazioni, e infine, lasciare che si diverta (divertitevi anche voi, se vi riesce eh!)

(Grazie Debbie!)

mercoledì 25 aprile 2012

Lui, lei... e io!

Lei e lui ora dormono, insieme, sullo stesso grande letto. Materasso ortopedico, rete con doghe in legno... mica robetta! (Ci abbiamo messo nove anni, eh, partendo dalla piazza singola condivisa, ma infine abbiamo assemblato un Signor Letto!).
Lui russa forte, si sente anche da dietro la porta chiusa. Lei russa pure, un poco, e ci va di tosse a momenti. Lui col suo peso fa almeno sei volte lei, ma lei non si fa intimidire, a suon di calci e pedate ben piazzate, si conquista la sua meritata porzione di materasso, relegandolo nell'estremo limbo marginale, laddove lenzuola e coperte finiscono per scoprire porzioni considerevoli di membra, perennemente desiderose di calore.
Lui mi ha detto: "La posso addormentare io, la bambola?"
Io ho lasciato fare, imponendomi un atteggiamento possibilista e genitorialmente equilibrato.
Il fatto è che lo sapevo, in realtà, che non sarebbe stata cosa.
Però li lascio, chiudo l'uscio, raccolgo da terra pupazzi sparsi, sollevo la coperta-tappeto e la piego via, metto a posto libri cartonati ed enormi rilegati illustrati con copertina rigida, mentre sento di là un chicchericcio intermittente, risate soffocate e brandelli di parole non si sa bene in che lingua: "Naso dibabbo!" "Buia!" "Babb..ahahahaha! Buia!" -interferenza- "Pinocchiooo".
Poi un cellulare che suona e una manina che bussa alla porta piano. Allora entro in scena.
Va be', mi trattengo (lo sapevo): "Hasuna la vuoi togliere la suoneria al cellulare se devi addormentarla?"
Comunque mi unisco a loro, sul lettone, e dieci minuti dopo, a furia di "Pinocchi", dormono entrambi.

Lo so che forse a volte dovrei lasciare che lui provi, senza intervenire alla prima difficoltà, ma è infinitamente più facile subentrare con la prassi collaudata, che lasciare terreno a nuove sperimentazioni.
Sì che li apprezzo i suoi slanci di paternità improvvisi e i suoi sforzi per essere più presente.
Ma mi rendo anche conto che in questi quasi due anni ho dovuto imparare a gestire quasi da sola quel mondo, la nanna, la pappa, i risvegli, i giochi, e che adesso inserire il terzo elemento attivo nel nostro tandem sarà un'operazione lunga e delicata.
Però non dispero: a poco a poco, si fa.
E non nego le mie responsabilità: è vero, troppo spesso sbrigarmela da sola è stato più pratico che riuscire a coinvolgerlo come avrei voluto nell'amministrazione delle faccende genitoriali, mediare senza cadere nella polemica, chiedere aiuto senza recriminare, comunicare nozioni senza dare l'impressione di dover impartire una lezione, senza far sentire comunque la mia ingombrante presenza.
Magari se dall'altra parte avessi avvertito una maggior disponibilità all'ascolto, una maggior attenzione a quelle che io ritenevo tappe importanti (ci vieni al corso pre-parto? All'incontro con le maestre? Ai giardini? Ma che. Lui sa già tutto: figuriamoci! Guarda che io ho cresciuto i miei fratelli piccoli, qui vi fate tante seghe mentali e che ci vuole a crescere un bambino?)...

La verità è che ci sono stati giorni, momenti in cui avrei avuto bisogno che fossimo in due, e non l'ho trovato. E ci sono stati momenti in cui mi sarebbe piaciuto che ci fosse anche lui, e lui non c'era, se non fisicamente, di certo con la testa non era lì. E poi ci sono stati momenti in cui ho capito che ce la potevo fare, anche accontentandomi del suo contributo minimo, e allora ho fatto da sola, e andava bene anche così: la cosa ha avuto i suoi lati positivi, niente discussioni sul come e sul perchè.
E poi c'era una cosa che mi faceva incazzare: che la colpa era sempre mia. Se lui non era abbastanza presente, era perché io non lo coinvolgevo abbastanza. Se sua figlia non lo cercava era perché la mia presenza era totalizzante. Se non partecipava alle faccende pratiche di gestione pupesca, era perché io ero troppo attaccata alla bambina e non gli lasciavo fare niente.
Gli amici senza nulla sapere della nostra vita domestica e vedendolo baloccare la pupa per dieci minuti in loro presenza, avanzavano sempre questi argomenti e non si spiegavano come io non volessi ammettere che fosse un "padre eccezionale".
Ecco, forse c'è anche questo subdolo argomento che generalmente viene utilizzato per giustificare un certo tipo di disinteresse paterno, con l'aggravante di generare (oltre al mazzo che una si fa) il senso di colpa materno.
No, no e poi no: mi ribello.
Che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Se tu non ci sei abbastanza la colpa non è certo mia. Io ho dovuto imparare a sopravvivere, mio caro, e non posso sobbarcarmi anche il peso della tua genitorialità inespressa.
Ecco. Così press'a poco è stato il nostro approccio ai ruoli genitoriali. Molto scoraggiante.
Tutt'altro che moderno (cosa ti aspettavi da uno che viene da un Pese deve le donne girano a capo coperto? Eh, te la sei cercata!)

Ma poi è vero che lui a un certo punto si è accorto che si stava perdendo qualcosa, e che, malgrado le proteste, non poteva certo dare la colpa a me, né tantomeno... a lei!
Qualcosa è cambiato.
Tornato a casa dopo una lunga assenza si è sentito "tagliato fuori".
Si è lamentato: l'ho mandato a cagare.

E poi l'ho sentito parlare con alcuni nostri amici, e fare sua una frase che era stata mia (quale gaudio!), rivolta a lui, quando si era lamentato dell'assenza di rapporto con sua figlia (non mi vede da più di un mese e invece di salutarmi mi manda via!), e ammettere con quella frase tante cose: "Stiamo iniziando a costruire un rapporto. Dobbiamo lavorarci".
Allora ho capito che ci teneva. Allora ho capito che mi ascoltava (Hasuna, ma non puoi pretendere che un rapporto nasca dal nulla: ci devi lavorare. Un rapporto va costruito!), e soprattutto ho capito che voleva provarci.

E l'ho visto provarci.
Mi tengo un po' in disparte, per quanto ancora la tentazione di intervenire spesso ci sia, e ancora ogni tanto ci casco ("Aspetta, vuole questo" "No, devi fare così").
Ma è bello vedere come inizino a ritagliarsi momenti per loro due: quando lei, la sera, lo cerca, va da lui, che mangia, gli siede sulle ginocchia, aspettando di ricevere qualche boccone dal suo piatto, di quella cena "da adulti" (lei ha mangiato già da qualche ora, perchè il padre continua a rincasare piuttosto tardino da lavoro), e poi guardano insieme la tv "della Libia", e cantano la canzone della Libia nella lingua "di babbo".
Quando sente l'esigenza di tradurre le parole: "Balena! ...Huta!" e di puntualizzare poi:"dice babbo".
Quando vuole mangiare il pollo impugnando il cosciotto con le mani, dall'osso, "come babbo" senza farselo sminuzzare nel piatto.
Quando quel mattino si è svegliata alle cinque dopo una notte tormentata (l'avevo messa a letto prima che il padre tornasse, perché era molto stanca) e quando lo ha visto, che dormiva lì accanto mi ha sorpreso con una serie di entusiastici: "C'è Babbo! Babbo! Bello bellittimo! Ha'vitto? C'è babbo! Bellittimo babbo! Bellittimo!" e ha iniziato a stuzzicarlo (naso di babbo...) finché non è riuscita a svegliare anche lui. Di dormire non se n'è parlato più, ma credo che per lui sia stato un bellissimo risveglio, anzi: "Bellittimo!"
Quando li ho seguiti dalla terrazza fare il giro della casa, giù nel giardino, piegati a guardare insetti e raccogliere rametti e sassolini che "sembravano tatta'ughe" o "lucettole", lui che fischia come un merlo e che conosce e comprende la natura perché sa osservarla e ha la pazienza di farlo, non certo perché l'abbia studiata sui libri, che certo saprà spiegargliela meglio di quanto non sappia fare io, che le insegno i nomi del glicine e della gazza, della cornacchia e dell'alloro...

E così, stupita, lo vedo tornare a casa sempre un po' prima, sperando di trovarla ancora sveglia, e quando posso, cerco di farmi da parte.


(Anche Zorro vuole partecipare al rapporto padre-figlia!)


Questo post partecipa al blogstorming

martedì 24 aprile 2012

Gatti in primavera (romanticherie)

E va bene, lo confesso: che il titolo che avevo dato all'inizio era "Cats in spring". Non suona molto più fico? Ma poi ho voluto tenere la linea dura e ho latinizzato.
Niente anglofonismi gratuiti qui (solo ogni tanto, va!).

Cosa fanno i gatti in primavera, secondo voi?


Beh... dormono! Come sempre.
Ma sotto una romantica coltre di bianchi petali.
(Non sono morti eh!)

Roba da gatti ringrazia per la cortese partecipazione Il finto Panzumen e sua madre (anche detta La gatta grigia), gatti di zona.

Ringrazia anche:
E chi altro vorrà dire la sua.

Roba da gatti, la frivola rubrica del martedì.

lunedì 23 aprile 2012

Affrontare i cambiamenti

Una nota e odiosissima pubblicità televisiva di qualche tempo fa recitava: "Meglio cambiare, no?"
Sì, ma perché se non ce n'è necessità?
In effetti saremmo tutti portati più facilmente alla ricerca della stabilità, che già di per sé è così difficile da raggiungere.
Affrontare un cambiamento, anche uno di modesta portata, significa dover fare una volta di più i conti con la necessità di adattarsi alle circostanze, di sperimentare capacità differenti da quelle che eravamo abituati ad utilizzare, di affrontare situazioni nuove, confrontarci con persone diverse, gestire spazi e tempi che non ci appartengono, a cui non siamo abituati, e una volta di più sentirci inadeguati o fuori contensto, avere la sensazione di dover ricomnciare da capo.
Se penso alla mia infanzia ricordo come un evento sconvolgente il trasloco della mia famiglia dalla nostra vecchia casa, dov'ero cresciuta, ad un'altra più spaziosa e a poche centinaia di metri di distanza, che venivasi a trovare appena fuori dal mio abituale raggio d'azione infantile, ma pur sempre lo sentivo come un abbandono di una fase della vita, quasi come uno spartiacque tra la mia infanzia spensierata e la mia adolescenza arrovellata.

Crescendo il cambiamento a periodi ben scanditi è diventato quasi un'esigenza vitale, un'urgenza di svecchiamento, un'occasione per pormi traguardi nuovi e diversi e per dimostrare di "poterlo fare", di "essere in grado". Così leggo alcune mie scelte di vita un po' avventate alla luce di questa "esigenza di cambiare" nè rimpiango l'averlo fatto, se effettivamente sono convinta che esse mi abbiano portato a vagliare le mie capacità fino ad allora inespresse e ad acquisire una maggior sicurezza delle mie potenzialità, di me come individuo indipendente, di me nelle relazioni sociali, lavorative, di studio, di me che mi metto a fare cose mai fatte prima in vita mia, come vivere sola, cambiare città, cercare casa, abitare con altre persone, trovare un lavoro serale o estivo da poter conciliare con gli studi universitari, decidere di punto in bianco di avere un'esperienza di studio all'estero.

Dunque io credo che per me il cambiamento sia sempre stato associato ad un'idea di crescita personale, e che io lo abbia cercato soprattutto in quei momenti in cui maggiormente sentivo questa esigenza di "crescere", di emanciparmi dal mio ruolo, dalle mie irresponsabilità e dalle mie consuetudini acquisite, che facevano presto a divenirmi odiose.

Quando ho scoperto di aspettare un figlio/a il cambiamento in quel momento arrivava ad aprirmi altri orizzonti di realizzazione personale, in un momento in cui mi sentivo estremamente bloccata e impantanata in un'assenza di obiettivi spiazzante.
Ciò che forse non avevo messo in conto sin da subito era il fatto che questo cambiamento, tanto determinante per la mia vita, non fosse in realtà che il punto di partenza per una serie di nuovi percorsi, e non certo un punto di arrivo.

E ora vedo cambiare lei, mese dopo mese, e continuamente devo adeguarmi a nuove esigenze e nuovi modi comunicativi e mi accorgo che qualsiasi equilibrio di vita insieme non può che essere dinamico.
Se penso a come mi affannavo, durante i suoi primi mesi di vita, nel tentativo di dare ritmi stabili, abitudini ben scandite a sonni e veglie, pasti e passeggiate, a come entravo in crisi quando qualcosa saltava e si preannunciavano terribili esplosioni di isterie neonatali che ero sicura di non riuscire ad arginare, sotto le quali ero certa di soccombere, mi rendo conto che forse la mia stessa paura di sconvolgere quei ritmi e quelle abitudini contribuiva in parte (in parte) a creare un terreno buono al proliferare di quegli stessi scoppi di rabbia infantile che tanto temevo.

Ora che sono forte di un rapporto un po' più maturo con mia figlia, posso azzardarmi a dire che la sicurezza e la stabilità emotiva di un bambino può nutrirsi, prima ancora che di orari fissi e routine azzeccate, anche e soprattutto della serenità e della sicurezza che un genitore gli trasmette quando lo coinvolge nelle proprie iniziative, che sia un'uscita di casa imprevista o un periodo di permanenza in visita a casa della nonna, un viaggio in treno di quattro ore, o una trasvolata intercontinentale con arrivo incerto...
Certo, indolore non può essere mai del tutto. Soprattutto perché le esperienze che facciamo insieme toccano me per prima, la mia emotività, la mia capacità di adattamento a situazioni impreviste, che non sempre risponde all'istante.
Del resto mi sono accorta col tempo che ogni cambio di residenza, ogni nostro spostamento logistico e assetto casalingo diversamente strutturato, corrispondevano ben presto ad un nuovo assetto di abitudini e ritmi biologici di lei, che ben presto si adattavano alla nuova condizione, per poi tornare com'erano prima, al nostro rientro, al ripristino dello status quo.

Affrontare un grosso cambiamento in compagnia di una bambina di nemmeno due anni continua ad essere per me un qualcosa che mi richiede un grande sforzo mentale e una straordinaria concentrazione di forze psicofisiche, inutile negarlo. Ma tre le ordinarie difficoltà che il cambiamento porta con sé, mi rendo conto di dover riuscire a limitare e a eliminare la preoccupazione insidiosa che sia lei a non reagire bene al cambiamento, di volerla proteggere e salvaguardare da strapazzi e sconvolgimenti, perchè subdolamente finisce per generarsi una reazione a catena di ansie e cattive risposte.

Andare invece incontro al cambiamento, al diverso, come a qualcosa da scoprire insieme, proporlo a lei come una realtà alternativa e altrettanto valida a quella presente, qualcosa che ancora non conosciamo, ma che potremmo ben presto fare nostra e amare, portandocela poi dietro come un piacevole ricordo.

L'immagine di lei che vola attaccata con una manina alla mia e con l'altra a quella del padre, mentre ci muoviamo all'interno del grande aeroporto di Tunisi e poi per le strade della città, a metà del nostro viaggio, alle spalle lasciandoci l'Italia, e davanti a noi l'incognita di un Paese che ancora non conosciamo, la Libia: ecco l'immagine ideale di come vorrei vederla andare incontro ai cambiamenti della sua vita.

Oggi Mens Sana propone un'ultima competenza su cui riflettere, e questa è proprio, come avrete intuito, la capacità di affrontare i cambiamenti.
Potevo io, dopo aver creato un tag apposito che ha la presunzione di chiamarsi "educare (chi: io?)", mancare a questo appuntamento?
Certo che potevo, del resto ho mancato i restanti primi sette. Ma non sottilizziamo, e soprattutto: rimedierò, seppur con i miei tempi. Vi invito per intanto (chi fosse interessato) a scorrere questo interessante percorso suggerito da Palmy: cosa serve ai nostri figli, cittadini di domani, per affrontare il mondo adulto?  Quali sono le competenze che dobbiamo aiutare loro a sviluppare?
Ecco l'elenco dei temi affrontati:
  1. fare domande;
  2. risolvere problemi;
  3. affrontare progetti;
  4. coltivare passioni;
  5. indipendenza;
  6. esser contenti con se stessi;
  7. compassione;
  8. tolleranza.
 

venerdì 20 aprile 2012

Libri e gatti: connubio perfetto.

Un bel giorno il gatto Zorro e il gatto Panzumen, decisero da fare visita al gatto Caffelatte.
Toc-toc!

No, non ho sbagliato rubrica, e nemmeno giorno: il gatto Zorro e il gatto Panzumen sono così invadenti che vogliono entrare anche nella rubrica del venerdì: I venerdì del libro.

E fu così che decisero di entrare anche dentro a un libro.
Cioè, più che un libro è una casa: La casa dei gatti.



Il gatto Caffelatte ne fu molto felice e invitò i due visitatori a fare proprio come se fossero a casa loro.

Quei due impuniti non se lo fecero dire due volte, e si sollazzarono come mandrilli nelle comode stanze della casa dei gatti, che, malgrado la bidimensionalità dei suoi costituenti, non si fa mancare proprio niente in quanto a comfort.
Ora io non dovrei mostrarvi troppi particolari di questo loro soggiorno nella casa, perchè rischierei di rovinare la sorpresa a chi si facesse venire la voglia di andarvi a curiosare per proprio conto, e tra l'altro sono stata preventivamente minacciata dall'avviso sulla quarta di copertina a non riprodurre alcuna parte del libro in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, quindi mi chiedo se mostrandovene qualche scorcio io non stia violando deliberatamente qualche diritto di copyright (nel caso i diretti interessati mi contattino pure).
Ma come faccio a parlarvene senza mostrarvelo?
Nella casa di gatti, i gatti preparano torte in cucina, schiacciano pisolini in soggiorno, provvedono alla propria toeletta nella stanza da bagno e si scatenano in nascondini e salti sul materasso in camera da letto. Li vedi? Sono  proprio lì che saltellano: tu non devi far altro che tirare una linguetta e li vedrai muoversi.
E poi sbircia un po' nel frigorifero, per vedere cosa c'è per cena, fruga nell'armadietto per cercare lo shampoo, guarda nell'armadio e... ma chi ha lasciato in disordine l'album dei disegni?
Insomma, sì, c'è tutta una vita casalinga da scoprire: familiare perché fatta di oggetti noti, di azioni quotidiane e di ambienti domestici; divertente perché ricca di particolari buffi, e perché gli attori sono loro, i mici dell'inconfondibile matita di Nicoletta Costa, affascinante perché puoi entrare anche tu negli spazi del libro, aprire e chiudere ante e sportelli, chiederti all'infinito: "Che fine avrà fatto il gatto Gigi?"
La pupa è entrata in loop, ripercorrendo a oltranza le stanze della casa dei gatti.

Successo assicurato quindi.

Solo due osservazioni da fare, rivolgendomi agli adulti, però, da adulta, che deve vedere il pelo nell'uovo:
  • la trovata della casa pop-up con gli sportelli che si aprono è geniale. Allora, perché non sfruttarla di più? Secondo me l'idea poteva offrire tantissime soluzioni inesplorate, nascondere tantissime altre sorprese da scoprire, personaggi che sbucavano da sotto il tavolo, televisioni con ruote girevoli che ruotandole cambiavi canale, un forno in cucina con l'arrosto, una finestra che apri la persiana e vedi passare un aereo (che ne so, anche un passante, un amico-gatto che fa ciao), il tapppeto che si solleva un angolo e trovi... boh! Un panino mezzo mozzicato? Un topolino che si nasconde? Una superficie specchiante inserita nello specchio del bagno... Insomma: un poco delusa, sì. Mi aspettavo un po' più di fantasia. A lei però non l'ho detto, ché le è piaciuto anche così.
  • Il libro-casa è estremamente fragile (ahimè). L'ho detto anche alla pupa: le ho insegnato questa parola "fragile", che vuole che una cosa sia maneggiata con cura e delicatezza. Ma insomma: non è che si può pretendere che tirando e spingendo una linguetta su e giù a lungo andare la pagina non si strappi (infatti ci siamo quasi). Possibile che non si potesse usare un cartone un po' più resistente? Dopotutto il prezzo di copertina non è certo irrisorio...
Ma comunque:
Titolo: La casa dei gatti
Autore: Nicoletta Costa
Editore: Gallucci, 2011
Voto: 8-1/2
Suster consiglia: dai 18 mesi d'età (anche se c'è scritto "non adatto ai bambini di età inferiore ai 36 mesi per rischio di ingestione di piccole parti", ma se non avete un bambino idrofobo...)


 




Ah! E poi ho scoperto una cosa bellissima. Che la casa dei gatti può essere usata anche così:


Lei però preferisce la modalità "libro".

E ora in calce i miei soliti link:
Buone letture!