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mercoledì 11 febbraio 2015

Quel che ho imparato dai Sioux.

Ritratto di me in una vita precedente (quando nacqui guerriero Sioux)
Scrive Vittorio Zucconi che quando gli europei sbarcarono in America, si trovarono a confronto per la prima volta due culture che avevano due visioni del mondo e della vita troppo in contrasto l'una con l'altra per poter convivere a lungo in pace:
fra la "cultura dell'essere" che gli indiani incarnavano nella loro tranquilla contentezza per quello che essi erano, e la "cultura del divenire", incarnata dagli inquieti europei, perennemente alla ricerca del nuovo e del diverso
scrive, a pagina 116 del libro che sto attualmente leggendo ormai da tempi immemori (questo).
E del "di più", aggiungevo io mentalmente soffermandomi un poco sulle righe appena lette, quella mattina, sul sedile del treno diretto a Empoli.

martedì 13 gennaio 2015

Calendar girls. Riepilogo rapido dell'anno appena trascorso.

E con uno scarto di appena 12 giorni, mi accingo a inaugurare il nuovo anno con il primo post del 2015 qui sul blog.
Oramai ci ho rinunciato alla puntualità sulle scadenze periodiche. E siccome nell'economia del mio tempo già a mala pena sto dietro ai miei propositi quotidiani, mi rassegno all'evidenza di essere una blogger appena sufficiente.
Visto però che negli ultimi due anni avevo preso l'abitudine di riassumere in immagini emblematiche i dodici mesi dell'anno appena concluso, ho voluto farlo anche stavolta.
In realtà per me è un modo facile meno complicato per rompere il ghiaccio dopo un lungo silenzio, soprattutto quando, come in questo caso, il mondo là fuori urla indignazione per le vicende storiche a cui assistiamo e pare che tutti debbano dire la loro, e che nessuno si astenga, e tu le tue cose da dire ce le avresti anche, ci hai tante di quelle cose che aspettano solo il momento per essere tirate fuori, che ti ruggiscono dentro, ma aspetti e aspetti, e c'è sempre qualcosa di più immediato e urgente, e concreto da fare, e allora il momento passa e poi non ti ricordi più nemmeno come avevi pensato di cominciare, quell'incipit che ti piaceva tanto, e col quale non avresti mancato di scrivere senza dubbio un brillante pezzo di esordio di nuovo anno. Ma...
Il mondo non si perde poi tanto, e c'è già chi parla e straparla, e chi è già riuscito ad esprimere egregiamente molti dei tuoi pensieri, e tu sei libera di postare tranquillamente le foto familiari dell'anno appena trascorso.

giovedì 16 gennaio 2014

Il nostro 2013 in pics&links. Ovvero: l'ottima occasione per recuperare quello che speravate di esservi persi.

L'anno appena trascorso è stato strano.
Leggero e impalpabile, è scivolato via senza che nessuno ci facesse caso, lasciandomi anche poco tempo per fermarlo scrivendo troppo, ma significativo, importante, puntellato di nuove acquisizioni, prese di coscienza, crescita, momenti significativi, consolidamento di noi come famiglia.
Ho scoperto in me una forza che non credevo di possedere: la forza di sdrammatizzare, di affrontare, di andare avanti anche se ci sono stati passaggi faticosi, quando i rapporti a volte si complicano, la comunicazione diventa difficile, la rete delle relazioni si trasforma in un groviglio intricato di spini e rovi i cui è facile pungersi, graffiarsi...


martedì 7 gennaio 2014

M'Artedì? Quasi dimenticavo!


Ray Caesar, Tea with me and he, 2013.

Allora, dov'eravamo rimasti?
Ah, già.
Ho saltato un appuntamento. Perdonatemi, del resto dubito che molti di voi che ancora mi leggete se ne saranno accorti. Ho tradito la rubrica prima ancora di cominciare. Il fatto è che ho avuto problemi a rintracciare le opere dell'artista segnalatomi da The Polite Polar Bear.
Che non sono ferratissima sugli artisti contemporanei l'avrete intuito.
Ecco il motivo che mi spinge oggi a riprendere in mano questa rubrica con un artista attualissimo, conosciuto dietro segnalazione di una mia cugina erudita, che sarebbe questo Ray Caesar, autore dell'opera di cui sopra.

martedì 24 dicembre 2013

M' Artedì. Seconda puntata.

Marc Rothko, Subway (1930 ca.)

Benvenuti alla seconda puntata della fantastica rubrica del martedì, M' Artedì, appunto.
Questa settimana ringrazio che ci (ah ah ah!) ha proposto Marc Rothko, artista finora da me praticamente ignorato.

martedì 17 dicembre 2013

M' Artedì. (Nuova rubrica!)

Paul Signac, Man reading (1894).
L'idea è nata da un giochino che circola su FaceBook. Niente di troppo intellettuale insomma, tranquilli.
Il giochino recita così:
Questo è un gioco per mantenere viva l'arte. Clicca "mi piace" e io ti assegnerò un artista. Non importa se non conosci le sue opere, cerca su internet, scegli quella che ti piace di più e pubblicala su FB.
Il giochino mi ha preso la mano ed ho come al solito scassato le palle a molti miei contatti a oltranza. Perchè sono una che non conosce i limiti, né il famoso detto del gioco che è bello quando dura poco. Per me se è bello tanto vale portarlo allo sfinimento.

giovedì 30 maggio 2013

Vi racconto una sedia...

Fuori misura

Un post da finire da un'infinità di tempo.
E allora perché oggi? Mah!
Sarà che faccio pulizia nella cartella "bozze".
Sarà che mi è tornata tra le mani questa foto qui sopra (la persona ritratta mi ha espressamente autorizzato alla pubblicazione della propria "effige". Securitalia invece no, ma...).
E per l'esattezza posso dire che rimuginavo su questa foto da circa un anno, da quando cioé, rimuginavo di recarmi a quest'appuntamento, proposito poi non mai esaudito.



Peccato: la stupida auto della sicurezza stradale notturna ha rovinato tutto l'effetto "Signora Minù" (ve la ricordate Minù Pepperpot?).
Comunque la foto rende abbastanza: qualcuno di noi due è fuori misura, cara la mia sedia!
Cosa accidenti ci fa una sedia di quelle dimensioni abbandonata in strada nel centro di Milano nel cuore della notte?
Cosa ci facevamo noi (io e la Signora Minù della foto, nel suo rosso cappottino) in centro Milano nel cuore della notte?
Chi ha lasciato quella sedia lì?
Cosa sta facendo la Signora Minù della foto? Si arrampica sulla gigantesca sedia o ne sta scendendo a fatica, dopo aver assistito a uno spettacolo di strada per giganti?
Mah!
Non son qui per dissipare i vostri dubbi.
Del resto potrebbe darsi benissimo che questa foto sia una messa in scena, sì, cioè, che la mia Signora Minù si sia messa in posa proprio per fare la foto, che la sedia in questione non fosse altro che una trovata pubblicitaria di Stokke o chessoìo (o una qualche forma di arte contemporanea di strada chessoìo) che l'auto di Securitalia abbia rallentato per capire cosa accidenti stessero tentando di fare alla Stokke quelle due girovaghe notturne per Milano...

Ma, per l'appunto, che ci facevamo?
Niente: vagavamo. Nell'attesa di poter prendere il treno per tornarcene a casa, dopo aver assistito a un concerto che era un regalo di compleanno. Quanto mi piaceva fare regali di compleanno a effetto, quando potevo permettermelo! Peccato che poi sceglievo le combinazioni data-location più infattibili e alla povera malcapitata di turno toccava fare i salti mortali per poterne usufruire...
E così siamo finite a vagare nottetempo per quelle strade, come uscite da un trip allucinogeno. Eppure ricordo pure che Vinicio lo disse, durante la presentazione di una delle ultime canzoni, che si scusava, ma oltre alle ombre cinesi non disponeva di pipe da oppio per ricreare il clima della fumeria di C'era una volta in America...
Niente oppio, dunque, ma quella nottata per strada a vagare e a fare incontri bizzarri la ricordo avvolta comunque da un'aura di delirio oppiaceo.
Tipo l'artista delle lampade che si trascinava dietro quel monoblocco di granito che era la sua ultima creazione artistica, creazione che voleva rifilarci alla modica cifra di qualche centinar d'euro... non che il prezzo fosse l'impedimento maggiore, quanto l'idea pazzesca di doverci a nostra volta incollare la granitica lampada artistica per le strade della città by night. Come se non fossimo già abbastanza derelitte così.
Tipo il venditore di fiori sordomuto che regalava rose alla mia amica Signora Minù, con la quale intavolava lunghissime conversazioni in una lingua dei segni improvvisata che io puntualmente fraintendevo.
E questa epifania improvvisa, della maxi-Stokke, o chessoìo, piantata nel bel mezzo del selciato, a emblema del generale clima di non-sense dell'intera nottata.

Ecco, se mi vien chiesto di raccontare una sedia, questa è la prima che mi viene in mente, anche se di lei, a dire il vero conosco assai poco, poiché ha finto col rappresentare in un'unica istantanea quella memorabile notte.

E per chi si stia chiedendo di che accidenti parla questo post rimando a Measachair, una delle idee più folli che mi sia capitato di trovare in rete:
Un blog, una pagina facebook, una raccolta iconografica: tutto ruota intorno ad un oggetto di uso comune – la sedia – oggetto fisico, simulacro, pretesto di dialogo. L’idea di fondo è l’espressione del valore individuale: ogni persona è speciale e ha qualcosa di interessante da raccontare.
Ecco riassunto il loro progetto nel blog di Stima.
Oppure su quello di Camilla, alias Ladoratrice.

E per finire, un invito al gioco per chi volesse dare il suo contributo e raccontare a sua volta, una sedia.

Per quanto mi riguarda, datosi che inauguro così l'etichetta (o "la letichetta" come direbbe Mimi) "sedie", immagino che potrei pubblicarne altre ancora... chissà.

Buone sedute a tutti!

giovedì 23 maggio 2013

Tempo di qualità? Sempre.

La prima volta che ne sentii parlare, fu all'interno di un programma televisivo del pomeriggio, di quelli che si chiamano, mi pare "contenitori", nel senso che contengono un mucchio di stonzate, tipo, che ne so, Pomeriggio 5 o La vita in diretta... (Ora tutti crederanno che io sia un'esperta sull'argomento: sob!).

Comunque. Non ricordo quale fosse il tema del giorno, ma ricordo questa tipa, una rampante mamma in carriera o sedicente tale (erano i rombanti anni '90, wow! Oggi madri solo precarie e contratti freelance), e insomma questa tipa andava millantando di aver messo a punto un sistema eccellente per ottimizzare il tempo che trascorreva con i suoi figli, favorendone la qualità.
In pratica questo piccolo genio ordinava tutto il cibo che acquistava per casa a una ditta di fornitura di cibi surgelati a domicilio, in questo modo evitando l'incombenza di doversi recare al supermercato 2-3 volte a settimana, inficiando il prezioso tempo di qualità da riservare ai suoi adorati pargoli, già fin troppo penalizzati dalle assenze lavorative materne.
E insomma, anche allora, malgrado non fossi mamma neppure nell'anticamera del mio lobo frontale, ricordo che pensai: "Ma vaffanculo!" che in pratica riassume ottimamente le mie riflessione che da qui in avanti vi esporrò.


Perché va bene, rampante mamma in carriera o sedicente tale che ami trascorrere coi tuoi figli solo attimi splendidamente memorabili, ci posso pure stare che girare mezz'ora nel parcheggio del supermercato in cerca di un posto auto libero non sia il massimo dell'investimento del tuo tempo coi tuoi figli, ché le file alla cassa metterebbero a dura prova la più amorosa delle genitrici, con le migliori intenzioni del mondo e il più ferreo self-control, soprattutto se i pargoli in questione attaccano la solfa del "mamma-me-lo-compri-quello" e la vecchietta dietro di voi vi spintona facendo la vaga, e quell'altra passa avanti con la scusa del "Che-signora-mi-fa passare-c'ho-solo-queste-quattro-cose" e poi s'infila a tradimento il marito col carrello stracolmo... ve bene: tu preferisci intavolare con i tuoi bimbi giochi di società e spingerli amenamente sulle altalene al parco, costruisci plastici in scala del quartiere e raccogli pezzetti di corteccia con cui realizzare collage artistici con materiali naturali, e però... ti fai recapitare a casa la spesa surgelata.
Non so perché ma tutto ciò mi suona molto "finto".
Perché mai la casalinga sfigata, che si barcamena tra i 1300 euro mensili e le quote per la gita scolastica, fa i salti mortali per far quadrare i conti a fine mese con un solo stipendio e due figli, la prole da recuperare a scuola e la lavatrice da stendere, la caldaia da riparare e la lettiera del gatto da pulire, dovrebbe sentirsi una madre meno presente se passa due ore al supermercato coi suoi bambini a fare la spesa invece di allestire set di giochi montessoriani pagati un discreto fottìo e portare i bambini a La città della scienza?

Cos'è fondamentalmente che vogliamo insegnare, trasmettere, ai nostri figli? Cosa vogliamo che imparino da noi? Cosa vogliamo che diventino? Ma soprattutto: cosa vogliamo che rimanga loro del tempo della loro infanzia trascorso in nostra compagnia?
Forse dovremmo rispondere ad alcune di queste domande per capire cosa significa passare del tempo "di qualità" coi nostri figli.
Ché così pare che questo tempo di qualità sia appannaggio dei ricconi, di quelli che si possono permettere di preservarsene una buona fetta a esclusivo orientamento ludico-ricreativo, ma per carità, anche educativo svolgendo con loro attività altamente stimolanti e andando ad incrementare il loro album mentale dei ricordi lieti d'infanzia, tanto ti puoi permettere di pagarti qualcun altro che ti pulisce casa/ti stira i calzini/ti fa la spesa.
Giustissimo, io dico, voler vivere dei momenti speciali coi nostri figli, ma forse non è il caso di sputare sopra ai momenti "normali" della vita di tutti i giorni.

Io ho dei ricordi lieti e caotici, tragicomico-parossistici dei pomeriggi al supermercato con mia madre, e di quelli, più eccezionali e forse proprio per questo più succulenti, con mio padre, il sabato pomeriggio alla GS, che era come dire il luna park dei supermarket, perché se no noi si andava alla SIR a piedi, e si tornava con le buste a mano, che se per disgrazia l'ascensore era rotto, toccava caricarsele fino all'ottavo piano, rampa dopo rampa, e pure il passeggino di mio fratello piccolo, il quale passeggino, se malauguratamente il passeggero se ne levava all'improvviso per venire dietro a uno di noi grandi nelle nostre scorribande tra gli scaffali dei dolciumi, si rovesciava all'indietro per il peso delle buste attaccate al manubrio, e il più delle volte era un disastro, cui seguiva un'immancabile "Oddio-le-uova!" della genitrice...
Insomma, immagino che per la genitrice in questione quelle giornate fossero un incubo, e posso solo inorridire pensando a me stessa in analoga situazione.
Ma il fatto è che nella mia visione bambina, quelle missioni comperereccie erano epiche, e ora nella memoria mi rimangono ammantate di una qualche romantica aura di leggenda, come tutto ciò che riguarda la nostra infanzia.
Non sono pure quelli momenti di aggregazione familiare?
O vogliamo fingere che lo stare in famiglia sia solo e sempre impeccabile e metodica messa in atto dei più evoluti precetti pedagogici?
Tempo di qualità dal mio punto di vista è anche questo: imparare insieme la vita, semplicemente vivendola. Mostrare con la pratica della propria vita come affontare le difficoltà e gli inconvenienti di ogni giorno, insegnare a gestire le situazioni, anche le più faticose, aiutandoci reciprocamente, collaborando, ripartendo le responsabilità anche tra i più piccoli.
Non è farsi recapitare a casa il merluzzo congelato da passare dieci minuti in microonde e nel frattempo starsene in poltrona a leggere filastrocche.
Io credo che nell'accezione di "tempo di qualità" rientri uno spettro di situazioni più vasto e articolato.

I bambini non hanno il nostro stesso senso del tempo: non hanno il senso del tempo "perso" per far qualcosa per cui potreste impiegarne assai meno delegando ad altri. Hanno il senso del tempo "impiegato" a far quel qualcosa insieme a loro.
I bambini non hanno il senso del tardi o del presto (merda, sono già le sette e ancora non ho messo su nulla per cena!). Hanno il senso della pienezza di un tempo utilizzato per portare a termine un lavoro assieme alla mamma, un lavoro che li riguarda, un lavoro che rappresenta una delle milleuna faccende da sbrigare per portare avanti la vita domestica di una famiglia.

I bambini vivono l'ora e sono immuni da ansie e rimpianti. E' importante imparare a vivere questo "ora" insieme a loro, senza cadere nell'errore del dover loro fabbricare un "ora" fatto su misura, tanto ideale quanto fittizio.

Che poi, voglio dire, mia madre non era questa casalinga con ore e ore da sperperare: era una professionista con un lavoro full time e cinque figli sparpagliati su un arco temporale di quindici anni da gestire. Eppure nel mio ripensare al mio tempo con lei, o con mio padre, non ho mai la sensazione che entrambi non ne mettessero a frutto ogni secondo rendendoci partecipi della loro vita, e partecipando alle nostre, anche semplicemente da spettatori o ascoltatori, anche a loro modo arrivando tardi ai saggi di fine anno o disertando gli incontri con gli insegnanti...
Insomma: tempo di qualità è sempre.
Rendere partecipi i nostri bambini alle attività di tutti i giorni è il modo migliore per "ottimizzare" il nostro tempo insieme a loro, a patto di non sfinirli.

E forse questo conflitto che tutti noi, chi più chi meno, genitori o no, viviamo nei confronti del nostro tempo, questo affannarsi a voler sempre fare tutto e "ottimizzare" che ci fa arrivare a sera sfiniti e con la fastidiosa sensazione di aver corso tutto il tempo, di avere sempre l'acqua alla gola, è più una questione di "testa" che di ritmi di vita. Del resto siamo noi ad impostare i nostri ritmi, frenetici o ben scanditi che siano: non ci farebbe male tentare di prendere a modello il rapporto che col loro tempo hanno i nostri bambini, valutandolo non in relazione al numero di attività (o a quanto fighe esse siano) che riusciamo a infilare in una data unità dello stesso, ma in base alla capacità che abbiamo avuto di metterlo a frutto in positivo, accettando che sia quello e non di più di quanto ce ne venga concesso ogni giorno, godendecelo, anche a discapito delle tabelle di marcia che ci autoimponiamo.

Un poco, lo ammetto, queste mie riflessioni si ispirano alla sensazione che ho avuto, di "non corrispondenza" tra la nostra maniera "occidentale" di "sentire" il nostro tempo (e scusate lo sproloquio di virgolette) e quella che ho osservato, direi quasi "respirato" durante la nostra permanenza in Libia (ne parlavo qui).
Se mi è permesso autocitarmi:
Scandita dalle cinque preghiere prescritte dall'Islam, ogni giornata fila liscia come una ruota ben oliata e non si ha mai l'impressione che il tempo non basti.
Ma ti basterebbe scorrere l'occhio su questi paesaggi sonnolenti, rallentati, sempre uguali a se stessi, per capire davvero il reale valore di quell'affermazione. Il tempo è in quello spazio che non può certo dirsi a misura d'uomo: è l'uomo che vi si adegua, che vi si adagia pigramente, senza affannarsi a coprirne le distanze, o a riempirne gli spazi vuoti, a metterlo tutto a frutto, proprio come la campagna chiazzata di terra polverosa, da cui prendi quel che si può. E ciò che non si può far oggi, si farà domani.
E anche qui:
Il punto è che loro lì non si pongono mai in conflitto con l'idea del tempo. Il tempo che si impiega a fare una data cosa è quello, e quello rimane, tutto il resto può aspettare, per quanto futile possa apparire lo scopo ultimo di tanto impegno.
In effetti vivere anche per poco tempo coi ritmi di laggiù, mi ha dato la sensazione di essere catapultata in un'altra epoca. Vi assicuro che il ritorno a quella attuale (di epoca), coi suoi tempi e le sue scadenze, le sue incombenze improrogabili, malgrado la gioia di ritrovarmi finalmente nel mio mondo, non è stato facile.

Non è per fare sempre la secchiona, che questo mese partecipo addirittura con due post... è che queste riflessioni mi sono venute a catena ragionando sul tema del mese di Genitoricrescono: Il tempo.
Le volevo aggiungere in calce al primo post scritto, ma mi sono resa conto che non c'azzecavano nulla.
Poi mi hanno dato il consenso ufficiale che si può fare, quindi:



venerdì 17 maggio 2013

Tempo e bambini: quello che ho imparato.


Prima che il tempo mi voli via assieme a questo vento di maggio, e che, come già accaduto per marzo e aprile, perda l'occasione di farlo, tenterò di scrivere il post per il blogstorming di questo mese. Ché il tempo è così, ti scivola tra le mani come sabbia nella clessidra e tu nemmeno te ne accorgi e già del mese appena iniziato ne hai scollinato la metà, e il tuo post è lì, tra le bozze, incompleto e informe, e rischi di scordarti quel che avevi da dire...
Perciò, orsù, senza por tempo in mezzo, e chi ha tempo non aspetti tempo (va bene, la smetto).

Il tema proposto da Genitoricrescono a maggio è molto stuzzicante e, oserei dire, ha del filosofico.
Del resto, chi di noi non si è soffermato una volta nella sua vita a riflettere su questa entità così astratta eppure così imprescindibile nella sua effettività, tanto che non ci è possibile nemmeno immaginare un mondo che ne sia privo?
Dunque mi pareva di non avere gran che da scrivere in proposito (del resto pure troppo è già stato detto a riguardo, da tanti e tanti pensatori ben più forniti di argomenti), finché non mi ci sono fermata a riflettere un poco, sul binomio tempo-genitorialità, e allora gli spunti di riflessione mi sono piovuti a grappoli.
Tenterò qui di riassumere in maniera più o meno ordinata e per sommi capi ciò che ha significato per me il divenire genitore in relazione al mio tempo.

Il tempo dei neonati

Partiamo dal presupposto che il tempo di un neonato non è uguale al tempo di un adulto.
Che banalità, direte voi. Eppure credo che valga la pena metterlo nero su bianco a premessa di tutto, visto che, no, per chi si ritrova a dover gestire per la prima volta un neonato, questa verità non è affatto scontata.
Allora: come funziona il tempo di un neonato? Cioè: come mi devo regolare? Quando deve mangiare/dormire/svegliarsi/essere cambiato? Come funziona il suo tempo?
Per la verità all'inizio sembra facile: quando piange lo allatti, quando puzza lo cambi, per il resto dovrebbe dormire quasi tutto il tempo, no?
Questo è quello che credevo io, PRIMA.
In realtà non è detto che un bambino appena nato sappia di aver bisogno di dormire, e che comunque lo faccia anche senza arrivare ad essere cosciente di averne bisogno.
E neppure tu lo sai, mamma, quanto deve dormire un neonato a un mese, e poi a un mese e mezzo, a due, a tre...
E così vai a leggere. ti informi, cerchi, googli. Ed ecco cosa trovi:
"Un neonato almeno fino a tutto il quarto mese di vita dorme in media dalle 16 alle 20 ore al giorno".
E allora ti disperi. Perché diamine la tua non ne dorme che 8 scarse (e spesso interrotte), e per il resto del tempo ti dorme solo in braccio e come la metti giù si sveglia e frigna?

- Si vede che a lei quelle ore notturne bastano -ti dice tua sorella- e le bastano quelle che dorme quando è in braccio.
Ma la cosa, lungi dal rassicurarti, ti getta nel panico più totale. Ma come? Noo! Io voglio che lei dorma DA SOLA anche di giorno, e mi lasci libera di respirare almeno un due-tre ore di seguito, che possa darmi una lavata, farmi un piatto di spaghetti e mangiarmelo in santa pace, seduta, e non mentre ballonzolo in piedi con una neonata appollaiata sul braccio che non ne vuole sapere di arrendersi al sonno.

- E' normale: più crescono, e meno dormono. Cosa credevi?
Ti dice tua madre. E tu vorresti morire: porca miseria, ma ha solo 2 mesi e mezzo! E già dorme quanto me. Di questo passo a sei anni mi farà orario no-stop?

La verità è che hai bisogno di entrare nel suo tempo, dimenticarti come era PRIMA, capire come funziona il tempo per un neonato.
E ogni tanto ti capita pure di imbatterti in qualche dritta utile.
Imparare a gestire il tempo di un neonato è cosa fondamentale per la sopravvivenza genitoriale, e ora vi dico cos'è che, alla lunga e sulla mia pelle, ho imparato, sperimentato, messo in atto e interiorizzato sull'argomento:
  • Scandire i tempi.
Prima lezione appresa. Nel magma ininterrotto delle mie giornate (primo mese e mezzo) con mia figlia, annaspavo disperata alla ricerca di un appiglio, di una Stella Polare, di un qualcosa che mi facesse capire come potevo organizzare i miei tempi intorno ai tempi biologici di lei.
Ho capito che dovevo scandire tutto in unità più piccole, in piccoli cicli fatti almeno di quattro passaggi: sveglia-pannolino-poppata-nanna. In tutto ciò è FONDAMENTALE ricordarsi di guardare di continuo l'orologio, almeno per chi è alle prime armi con un neonato. E' vero: i neonati non tengono conto degli orari, ma questo rapportarvi di continuo ai tempi esterni e universalmente riconosciuti, può aiutare voi a darvi una tabella di marcia che sia sempre più o meno quella. E all'inizio tutto ciò non durerà che un due ore massimo, perché poi il neonato sclera, a star troppo sveglio, e tutta la giornata di conseguenza sarà un disastro. Quindi: si è svegliato alle 6? Alle 8 non è troppo pretendere che vi dorma di nuovo.
  • Adattarsi.
Altra cosa che ho ben presto capito a mie spese, è stata che, se volevo uscirne, dovevo puntare alla sopravvivenza, e se volevo sopravvivere, dovevo adattare la mia vita al suo tempo e non pretendere che fosse lei ad adattarsi ai miei. E questo significa rinunciare a fare le cose in un certo ordine, quello nel quale eravamo abituati a farlo prima (per esempio: svegliarsi e fare una doccia, e poi colazione, sono attività che verranno postposte al primo ciclo pannolino-poppata-nanna) oppure rinunciare del tutto a qualcosa (non lo rimpiangerete, perché riuscirete a guadagnarci in una relativa tranquillità).
  • Trovate i "vostri" ritmi.
Come noi adulti, anche i bambini piccoli non sono tutti uguali, hanno ritmi e abitudini, equilibri che in parte avete trovato insieme, in parte avete dovuto "accettare". Siccome che mi capita di continuo di imbattermi in una serie di luoghi comuni duri a morire, ci tengo a specificarlo.
Per esempio: "Non lasciarla dormire tutto il giorno, se no poi la notte ti rimane sveglia"; oppure: "Beh, magari ti è rimasta sveglia tutto il giorno, ma almeno poi stasera ti dorme bene"; o ancora: "Ma ancora la fai dormire? Si è svegliata appena due ore fa! Attenta che poi ti scambia la notte col giorno"
E altre genialate affini.
Mia figlia è sempre stata una bimba piuttosto nervosetta. Non mi è mai successo che mi "crollasse" di stanchezza a fine di una giornata di veglia intensa. Invece più riposava bene di giorno, meglio e più a lungo dormiva la notte. E' un'equazione semplice: più dorme, più è tranquilla e più dormirà; meno dorme, più è nervosa e meno dormirà. Vallo a spiegare al mondo.
Per cui se ancora oggi che ha quasi tre anni mi dicono: "Ma non è grande per farle fare ancora il sonnellino a metà giornata? Certo che poi la sera ti va a letto tardi!", me ne sbatto allegramente, e pazienza se mia figlia la sera si addormenta alle dieci e mezza-undici e non alle nove come la maggior parte dei suoi coetanei. Almeno non arriva isterica all'ora di cena e ciò significa più pace per me, più armonia familiare in genere, meno rischio infanticidio per le cronache.
  • Essere flessibili.
Pian piano i tempi dei neonati si modificano, di pari passo con la loro crescita, e tendono ad allungarsi, e allora sarete già diventati abbastanza bravi da accorgervi delle mutate loro esigenze, e pian piano allungherete anche la durata dei loro cicli vitali sonno-veglia. Verrà (quasi) naturale, ve lo garantisco. Inutile impuntarsi sul voler a tutti i costi mantenere i due sonnellini mattutini a un pupo di sei mesi vispo e attivo che ti costringe a un'ora e mezza di ninna-nanne a manetta. Vorrà dire che è giunto il momento di sottrarre un sonnellino, e di "allungare" i tempi di veglia tra gli altri. I bimbi per fortuna si adattano in fretta, e voi ci guadagnerete in qualità della vita, potendo disporre di intervalli più lunghi, più conformi ai nostri ritmi adulti.
  • Darsi tempo.
Ricordo bene la disperazione che a giorni mi attanagliava la gola nei primissimi mesi di vita di Mimi: non faccio più vita, aiuto! Rivoglio il mio tempo! Rivoglio il mio diritto a orinare in pace! La mattina mi sveglio e vorrei morì.
OK. Non pretendere di venirne subito a capo: ci vuole tempo, anche qui. Tempo e attenzione. Bisogna saper osservare un neonato, coglierne le sfumature, capirne le esigenze, interpretarne il pianto e agire di conseguenza. Ma per fortuna anche se si sbaglia non succede niente di grave: "Ah, ma allora piangevi perché eri pieno di cacca fino al collo! Bene: la prossima volta prima di farmi cadere le braccia a forza di ninnarti ti sottoporrò alla prova olfattiva.
  • Mantenere basse aspettative.
Sembra brutto, eh, detto così. L'ho pensato anche io la prima volta che l'ho letto, su un depliant lasciatomi dall'ospedale al momento delle dimissioni. Ma come? Tutta la vita ci insegnano che bisogna "puntare in alto", che se miri al lampione sei un perdente, che devi mirare alla luna, e poi pazienza se arrivi al lampione e via dicendo. Solo dopo ho capito forse il senso dei quel "mantenere basse aspettative", o comunque l'ho interpretato a modo mio. Se io mi aspetto che la mia vita con un neonato possa rimanere la stessa che avevo prima, compreso uscire la sera un tre volte a settimana, stare al bar un'oretta al giorno con gli amici, guardare un'oretta di tv dopo pranzo, leggere una media di due libri a settimana più quotidiani e articoli on line... probabilmente mi schianterò con la più amara delle disillusioni. No, non è possibile tutto ciò. Se invece parti da un obiettivo più semplice, tipo: una passeggiata col pupo, allora capace che ci riesci, e almeno ti eviti la frustrazione.
  • Avere sempre un piano B.
Visto che lui/lei non ne voleva sapere di dormire, avete deciso di uscire, e cogliere l'occasione per incontrare un'amica in centro. tempo di preparavi, infagottare il pupo nella carrozzina, e quando siete sulla porta, lo vedete che è collassato. Ora dorme, il bastardello! E anche voi avreste tanta voglia di buttarvi a pesce sul letto e collassare un'oretta... In questi casi che fare? Cambiare idea e cogliere l'attimo (non dimenticate che è fuggente) è il mio personale consiglio. Improvvisare. Cambiare programma. Concedersi deviazioni.
  • Il tempo ben speso.
Il mio rapporto col tempo è sempre stato pessimo, anche prima di avere Mimi. Non ero quella che sapeva gestirselo con parsimonia e saggezza. Ero quella che quando preparava gli esami non rispettava mai le tabelle di marcia che si faceva da sola, e se aveva un mese a disposizione se ne macinava tre quarti e si riduceva a dover studiare l'80 % del programma nel giro delle ultime 48 ore utili, compreso il tempo di attesa del proprio turno fuori dall'aula. Sono quella che arriva sempre in ritardo e  trafelata, perché nel frattempo vuole sempre ficcarci dentro più cose possibili da fare. Non mi piacciono i tempi morti: cerco sempre di mettere a frutto ogni istante e mi ritengo soddisfatta se alla fine della giornata ho depennato il maggior numero di faccende da espletare.
Ma con un figlio si rischia il collasso: semplicemente non si può. Non tutto il tempo va messo a frutto in maniera attiva; sono arrivata a considerare in maniera diversa il concetto di "tempo ben speso", ovvero quello che ti fa arrivare sano e salvo alla fine della giornata  e senza inutili spargimenti di sangue e crisi isteriche. Se si tratta di rinunciare a un impegno preso o a una puntata al supermercato ché la dispensa piange carestia, perché il pupo ha le coliche ed esige che lo teniate in braccio a oltranza massaggiandogli la panza, quello è tempo ben speso, se poi alla fine sarete riusciti a metterlo finalmente a letto.
  • Relativizzare.
Lo so: ve lo dicono tutti: i bimbi, per fortuna, prima o poi crescono. Tenete duro solo qualche mese.
Qualche mese??? La prospettiva ora come ora pare agghiacciante, vero? Come "qualche mese"? Ma se ha appena 20 giorni e già fantastico liberatori harakiri! Lo so che il tempo a volte sembra immobile, ha il potere di dilatarsi a dismisura, e a volte una vostra giornata pare infinita. Ma a un certo punto vi sveglierete e vostro figlio avrà 4 mesi, e forse non soffrirà più di coliche, e poi ne avrà 6, e poi 12, e stare con lui/lei sarà sempre più divertente e gratificante, e magari anche (un po') meno faticoso. Perciò guardate in prospettiva: tra un anno penserete a questi giorni come chi se li è lasciati alle spalle, e magari lo farete sorridendo...
  • Il tempo degli altri.
In tutto ciò il tempo degli altri continua a non tener conto del fatto che il vostro tempo ora è cambiato.

- Allora arriviamo alle 5, va bene?
- Sì, mi raccomando, se ritardate avvertitemi.
Vi è mai capitato che gli amici in questione si presentino alle 5 e quaranta, mentre voi tentate disperatamente di tenere occupato il pupo che a quell'ora in genere, già dorme da una buona mezz'ora?
Eh, dai: mezz'oretta che sarà mai!
Ma per un bambino piccolo è tanto. E' tantissimo. Per cui, cazzarola: se vi accorgete che fate tardi, avvertitemi, e io metterò a letto il pupo prima. Per quando sarete arrivati già avrà fatto in tempo a svegliarsi di nuovo, e voi potrete fare la conoscenza di un pupo riposato e sereno, e io non dovrò spalleggiarmi un marmocchio isterico mentre vi ringrazio per il pensiero ma ora vi sbatto fuori dai coglioni perché il lui/lei urla.

- Pronto, amicamia, puoi venire a tenermi il pupo un'oretta, che sono distrutta e vorrei uscire un attimo e sbrigare alcune cose, e non sono ancora riuscita a pranzare?
- Certo, cara, arrivo subito! Dammi dieci minuti.
E fu sera e fu mattina.
Non scherzo: è successo davvero.
A me. Dalle due del pomeriggio arrivò che erano quasi le cinque.
E io continuavo a dirmi: ora arriva, ora arriva, dai, si sarà solo fermata stradafacendo, tieni duro...
E intanto avevo mia figlia in braccio che quel giorno mi voleva prendere per sfinimento, e avevo fame, e le lacrime agli occhi, e la pentola sul fuoco con l'acqua della pasta che per la terza volta mi era evaporata finché ci avevo rinunciato, e il soffritto di cipolle carbonizzato in padella e la tisana nel microonde che continuavo a scaldare ma che poi era sempre fredda, nemmeno tiepida, quando mi ricordavo di andarla a prendere, e i nervi a pezzi.
Per cui, vedete: il tempo per lei era ridotto solo a un banale "scusa, ho fatto un po' tardi", ma per me corrispondeva a un: "Se non arriva subito muoio".
Perciò: non confidate nella comprensione altrui. Siate chiari, precisi, puntigliosi fino alla pedanteria. Se non vi capiscono, lo capiranno presto (a loro spese), a meno che non si rifiutino di procreare a loro volta...
  • Il tempo di lui
- Eh, dai, quanto la fai lunga perché ho ritardato un po'!
- Ma sono quasi le dieci!
- Ma ho finito tardi. Poi mi sono fermato al bar a parlare con i ragazzi, ho fumato una sigaretta qua sotto con Tizio e sono arrivato SUBITO.

Lui secondo me alle volte ci marcia.
Magari avete il marito/compagno migliore del mondo, per carità, che queste cose NON le fa.
Resta il fatto che per chi continua ad avere una vita "fuori" rimane difficile capire del tutto chi passa l'intera sua giornata a stretto contatto con un neonato, e anche capire perché una persona che è appena riuscita ad addormentare suo figlio dopo aver rischiato varie volte di farselo cadere dalle braccia perché assalita da ripetuti colpi di sonno, esca alle dieci dalla camera ove il pupo dorme ora beato, crolli su una sedia e scoppi in lacrime.
Successo, anche questo. E lui non ha capito, credo, cosa significasse veramente la parola "sfinimento".
Comunque il consiglio in questo caso è: cercate di lasciare che anche lui sperimenti l'ebbrezza di qualche ora in compagnia del suo frugoletto (loro due, da soli solissimi). Io lo sto facendo ora, con la secondogenita, con la scusa che la mattina accompagno l'altra al nido mi eclisso per un'oretta-due, tipo per andare a fare la spesa o alle poste, o cazzeggio in giro per negozi e poi mi invento scuse per il ritardo.
Lo ritrovo puntualmente in piena crisi, che mi molla la secondogenita urlante e piena di cacca (lui non pensa mai di provare a vedere se magari deve cambiarle il pannolino) e mi dice: "Era ora, finalmente!".
"Ma se sono uscita appena un'oretta fa!" (è fondamentale a questo punto dire "un'oretta" e non "un'ora"). Ecco, so' soddisfazioni.
  • Il tempo del pediatra.
Il pediatra infine ha una scansione temporale tutta sua.
Inutile cercare di venirne a capo e prima lo capite meglio è.
Per esempio la prima volta che ci sono andata mi chiese quante volte al giorno mangiasse la bimba.
Cosa? Solo cinque volte? Sbagliato! Sbagliatissimo! Bambini così piccoli devono mangiare almeno 7-8 volte al giorno. Dovevo assolutamente aumentare le poppate. Ok.
La volta successiva gli dissi, orgogliosa, che era stato un po' faticoso, ma finalmente ero riuscita a portare le poppate a 6-7 al giorno.
Cosa? A due mesi??? Sbagliato! Sbagliatissimo! La bimba è TROPPO GRANDE per mangiare ANCORA così spesso! Dovevo assolutamente diminuire le poppate e portarle a massimo 5 nell'arco delle 24 ore (ma vavangulo dottò!).

Ora con la secondogenita mi ha regalato un'altra chicca:

- Bene, ora quanto ha? Quasi un mese? E' grande...
(Grande? Beh, sì: un'adulta direi)

- ...basta farla poppare una volta sola durante la notte...
(Ne parli con l'interessata, dottore: magari a lei darà ascolto...)

- ..per esempio se ti mangia a mezzanotte e poi si sveglia alle 3, magari prendi un po' di tempo... tirala un'oretta-due... fino almeno alle 5!
(Eh! Che saranno mai due ore a "tirare in lungo" una neonata affamata nel cuore della notte? Caro dottore: mi chiedo seriamente se si diverte a pigliarmi per il culo a volte...)

Io nel frattempo ho imparato la strategia del "dici-di-sì-e-poi-fà-come-ti-pare", che è meglio (come direbbe il puffo quattrocchi). Sapevatelo, e poi fatelo.



Il Blogstorming è candidato al Fattore Mamma Award, per votarlo questa è la pagina.

lunedì 12 novembre 2012

Punto Doula a Pisa. Un incontro.


In mezzo alla confusione di ciò che vorrei, ciò che dovrei, ciò che potrei fare, in questo periodo sento molto forte l'esigenza di ritagliare del tempo per me.
Per me e me sola. Che non è quello che mi rimane quando porto Mimi al nido, e che in genere impiego tra spesa, commissioni varie, preparazione cena e paranoie.
Ed è stato così, mettendo a fuoco questa esigenza, che sono approdata al Punto Doula.


Non mi riesce troppo facile trarre delle conclusioni o dei giudizi a caldo, subito dopo aver vissuto una qualsiasi esperienza. In genere lascio sedimentare, ci penso un po' su, metabolizzo.
In genere sono anche abbastanza reticente circa  aspetti che riguardano il mio lato "strettamente femminile", e in questo caso "gravidico" e che mi costringono a prendermi un pochino più sul serio.
Ma è da un bel po' che mi riproponevo di affrontare da un certo punto di vista il delicato tema del diventar mamma, di come l'ho vissuto la prima volta, e delle paure e le ansie che, mio malgrado, accompagnano ancora questo mio nuovo percorso, per quanto io mi possa ora fare forte dell'esperienza maturata e di un diverso atteggiamento di partenza con la maternità, forse un pochino meno sprovveduto, forse un pochino più consapevole, ma nemmeno poi tanto.
Diciamo che l'incontro con il Punto Doula mi ha dato l'opportunità per prendere in mano questi argomenti, mi ha dato l'occasione di parlarne in primo luogo con altre persone, persone preparate disponibili all'ascolto e competenti in materia, e quindi forse anche un poco di chiarirmi con me stessa, di comprendermi e fare ordine tra le mie aspettative, le mie ansie, i miei dubbi.

Dunque: da circa un anno attraverso il blog Una doula per amica ho avuto modo di conoscere in maniera un po' più approfondita la figura professionale della doula.
Cos'è esattamente una doula? Di cosa si occupa?
Dal blog di Laurence  prendo paro paro questa definizione, assai più esauriente di qualsiasi altra io possa darne:
La doula è una figura "maternante" che si occupa del sostegno emotivo e pratico alla donna e alla famiglia, dalla gravidanza fino al primo anno del bambino. Non è una figura sanitaria. È una donna che, forte della sua esperienza personale e della sua preparazione, offre un sostegno su misura, intimo e confidenziale, nel pieno rispetto delle scelte delle persone che si rivolgono a lei.

Il Punto Doula

Confesso che prima di incontrare questo blog, avevo sentito utilizzare il termine doula solo nel mio manuale di gravidanza (questo), e avevo pensato sbrigativamente si trattasse di una specie di chimera, una cosa da manuali, appunto, una figura mitologica importata dall'America, un po' come Halloween, roba da yankee radical-chick. Ma mi ero riproposta di essere seria...
Insomma: mai avrei pensato che proprio nella piccola e insospettata realtà della città in cui vivo esistesse una scuola per doule (è perché non faccio mai lo sforzo di informarmi), e una roba chiamata Punto Doula al cui interno si svolgono moltissime attività interessanti, di conoscenza, di interscambio, di informazione pratica e di sostegno emotivo su tutti gli argomenti in qualche modo correlati con lo sfaccettato mondo della maternità, dai pannolini lavabili al massaggio neonatale, dal portare i bambini al mercatino del riuso, e potrei riempire questo post di link, ma rimando chi fosse interessata a consultare le voci presentate nelle varie pagine del blog di Laurence.

Però, ciò che maggiormente mi ha colpito della figura della doula, è l'attenzione posta, durante l'intero percorso che va dal concepimento alla nascita e anche oltre, ovvero, del diventar mamma, sulla figura della donna, spostandola se così si può dire dal futuro bebé alla futura madre, sulle sue esigenze, i suoi pensieri, le sua aspettative, le sue difficoltà, e non solo i suoi compiti, gli esami clinici da espletare, le incombenze logistiche, le liste di materiale da procurarsi in vista della nascita: argomenti tutto sommato importanti, per carità, ma che molto spesso, a mio dire, distolgono e impegnano un po' troppo l'attenzione della nostra futura mamma, quando invece sarebbe molto importante che si concentrasse un pochino di più su quel che sta accadendo in lei, su quel che sta per diventare e sul suo rapporto con questa nuova vita.

Questa è stata almeno la storia della mia esperienza di approccio alla maternità: un caos di cose da fare e da imparare, una corsa perché tutto fosse pronto, e poi alla fine l'unica a non essere davvero pronta ero io.
Magari c'entra un pochino anche il carattere.
Io sono una che in genere preferisce affrontare un problema alla volta, una che dice: Eh, va be', poi ci penseremo, perché altrimenti si sentirebbe sopraffatta dall'urgenza di troppe cose a cui prestare attenzione. E non voglio dire che sia una strategia sbagliata. Solo che a volte si rischia di arrivare davvero al punto clou, un pochino impreparate.
Io per esempio durante le sedute di corso pre-parto, trovavo un po' prematuro che si parlasse di allattamento. Intanto pensiamo al parto, dicevo io, l'allattamento verrà in un secondo momento. E mentre c'erano madri che confessavano quasi con le lacrime agli occhi di non dormire la notte, inchiodate dall'ansia di non riuscire ad essere buone madri, io allibivo e pensavo che dal mio punto di vista era prestino anche per angosciarsi pensando al parto, che al momento giusto ci avrei pensato, poi magari mi sarebbe venuto naturale e tutto il resto, chissà.
Sbagliavo? Forse. Del resto non posso forzarmi ad essere come non sono ed è dagli errori che si acquisisce esperienza per il futuro.

So solo che stavolta sento l'urgenza di prepararmi un po' meglio sotto alcuni aspetti cruciali. Arrivare preparata, che significa in definitiva sentirmi più sicura, e quindi meno preda di ansie improvvise, di crisi di panico, di ingerenze esterne più o  meno invadenti, di consigli contraddittori e non sempre ben accetti. Sapere non tanto quale siano le decisioni e le scelte migliori da prendere in assoluto, quanto quale sia la mia volontà e portarla avanti determinata.
Sapere che se ho voglia di prendere in braccio mio figlio/a per farlo addormentare non sto commettendo l'errore più grande che una madre possa commettere, che della bilancia pesa neonati si può tranquillamente fare a meno, e che non succede niente se la quantità di latte ingurgitato non sarà esattamente la stessa ad ogni poppata, sapere che anche se decido di affidarmi ad una struttura ospedaliera ciò non significa il dover accettare passivamente e di buon grado qualsiasi decisione il personale di quella struttura mi voglia imporre come unica possibile, anche perché molto spesso non è così, e sapere di poter scegliere diversamente.

Ecco un po' delle questioni che mi si sono chiarite e che sono riuscita a mettere a fuoco durante un paio di incontri con Laurence ed Emanuela, responsabili e consulenti del Punto Doula.

Questa frase, che prendo sempre dal blog di Lurence, mi ha particolarmente colpito:
"La nascita non è solo far nascere i bambini, ma è anche far nascere le madri. Madri forti, competenti e capaci, che hanno fiducia in se stesse e che conoscono la loro forza e la loro saggezza interiore.
La Doula vuole assicurare la nascita di madri forti e sicure di sé."
(Carta delle Doule di Eco Mondo Doula)

Ecco: forse voglio essere una madre più forte e sicura di me, come non sento di essere stata, non abbastanza, almeno. Prima che per il benessere di mia figlia, per il mio, fermo restando che nei primi mesi di vita di un neonato la relazione mamma-bambino è talmente stretta che non credo sia possibile separare il benessere dell'una da quella del secondo.


Intento divulgativo di questo post abbastanza inconcludente: abitate a Pisa o dintorni, siete mamme o future mamme, o entrambe le cose, e vi piacerebbe trovare un luogo di aggregazione-scambio di esperienze supporto e informazione? Passate al Punto Doula, una realtà che ho trovato assai più vicina, intima e accogliente di qualsiasi corso pre-parto, perché non è solo distribuzione di nozioni: è ascolto, interscambio, attenzione alle necessità di ognuna.


E già che ci sono, colgo l'occasione per segnalare anche il Giveaway promosso da Una doula per amica. Il premio in palio è molto appetibile, quindi, accorrete mamme!

lunedì 30 aprile 2012

Indipendenza.


Un anno e nove mesi.
Lei si arrampica sulla sedia della cucina e pretenderebbe di salire anche sul tavolo.
Sulle sedie, ormai ho rinunciato a impedirglielo, anche se lo so, prima o poi si rovescerà all'indietro, lei, la sedia, e tutto ciò che riuscirà ad afferrare nel tentativo di tenersi, quando cadrà. Sul tavolo tengo duro: non si sale.
Le chiedo di cosa ha bisogno e le allungo il suo bicchiere con succo di mela.
Noooooooooo! Un urlo echeggia per la casa.
Lei vuole arrivarci da sola. Ci sa arrivare, ha imparato come fare e non vuole essere aiutata. Giustamente, anche.
Mi allontano per quindici secondi, torno in cucina e la trovo trionfante, in piedi sulla solita sedia, una banana in mano, che mangia con gusto e soddisfazione.
- Ma... come hai fatto a...
Come vuoi che abbia fatto? Si è allungata sul tavolo e l'ha presa. Prima d'ora mi aveva sempre chiesto di togliere la buccia, ma evidentemente ha trovato la strada.
Sono contenta quando la vedo muoversi in autonomia.
Ultimamente il tempo che dedica a giocare da sola è sempre più lungo. La sento cantare, parlare, recitare a memoria le filastrocche dei suoi libretti. Prende un libro e inizia a leggerlo, da sola, al suo gatto Amleto. Oppure li fissa sull'orlo del comodino, a mo' di leggio, e prende a sfogliarli, seguendo le immagini parlando e cantilenando a voce alta. A volte si blocca o si perde, e allora intervengo io, sulla strofa dimenticata.
- Non leggia'e mamma! Non canta'e mamma!
Mi rimprovera, e io mi zittisco.
Mi porge un cd e mi chiede di mettere la musica.

Indipendenza è sapere ciò che si vuole, effettuare le proprie scelte in autonomia, e non è facile.
Fino a poco tempo fa non sapeva realmente quel che voleva. Ora inizia ad averne un'idea un po' più chiara: il fatto di saperlo comunicare verbalmente la aiuta a focalizzare l'obiettivo.
Scegliere un libro piuttosto che un altro, una canzone piuttosto che un'altra.
Fino a poco tempo fa non avrei potuto chiederle: "Vuoi questo o quello?" L'alternativa la spiazzava.
Ora sa scegliere: io la trovo una grande conquista.
La prima cosa quindi che mi viene in mente a proposito dell'indipendenza è questa: sapere cosa si vuole, e non è facile, neppure per un adulto. Molto più facile è sapere cosa non si vuole.
Prepararsi alle scelte importanti che si faranno crescendo è sapersi chiedere: cosa voglio fare?
Perché ogni scelta ne preclude altre: scegliere è eliminare alternative, riuscire a imporre la propria preferenza, stabilire quale sia per noi la soluzione più praticabile, più gratificante o più urgente.

Se penso a molte delle mie scelte passate, le vedo connotate soprattutto da due fattori: estrema indecisione fino all'ultimo, e una generale passività nei confronti delle circostanze, che ti porta in genere a percorrere la strada più scontata. Malgrado ciò non posso dire di aver lasciato che altri prendessero decisioni per me, o influenzassero, se non con consigli e pareri (che ho sempre richiesto) le mie.
Mi piacerebbe che lei nella sua vita riuscisse ad esercitare un'indipendenza di "scelta" non solo dalle persone, ma anche dai modelli precostituiti, dai percorsi forzati, dalle scelte in cui non credi con tutto te stesso, che riesca ad avere chiara l'idea di "cosa" vuole, "chi" vuole essere e "cosa" vuole fare, perché già il saperlo è la prima parte della realizzazione.
Per questo voglio che lei sperimenti e conosca, che impari a capire cosa le piace, che si identifichi con le proprie passioni, che le sue conoscenze entrino a far parte del suo modo di essere, del bagaglio di ciò che costituirà il nocciolo profondo del suo essere.
Per questo quando scelgo per lei cerco di fare grande attenzione a ciò che al momento la possa interessare e coinvolgere, e osservo le sue reazioni, le sue interazioni con le cose e con le attività.
Per questo, magari ingenuamente, ma provo spesso a proporgli delle alternative possibili, a renderla partecipe di alcune decisioni nell'ambito della gestione della nostra giornata, a farle capire che una cosa esclude l'altra, e a farglielo accettare in maniera consapevole, senza che debba apparire un ricatto. 

La seconda cosa che mi viene in mente è legata al fare.
Fare da sola è dunque al momento un esigenza ricorrente: vuole inserire lei il disco nello stereo e lo vuole far partire lei, vuole accendere e spegnere la luce, quando entriamo in una stanza, vuole sbucciare da sola i mandarini che mangia, aprire pacchetti di creckers, lavarsi e asciugarsi le mani da sola, e pure pettinarsi. Guai ad aiutarla!
- E' MMMIIIOOOOO!
echeggia da qualche tempo per casa e pure per strada, quando ci troviamo noi a passare per un qualche luogo.
All'inizio pensavo si trattasse della rivendicazione di un possesso, e mi stupivo, perché quello della proprietà è sempre stato un concetto che ho cercato di limitare e di circoscrivere all'utilità degli oggetti. Ho pensato che il contatto con i bimbi del nido deve averla messa per forza di cose nella necessità di "marcare il territorio" nei confronti altrui.
Poi ho capito: "E' mio" in questo momento non si riferisce tanto al possesso di cose. Quando Mimi dice "E' mio" in realtà vuole significare: "Questa cosa devo farla io, è di mia competenza!"
Io devo aprire le finestrelle del libro, e tu non puoi nemmeno aiutarmi socchiudendole, anche se non mi riesce, piuttosto che lasciar spodestare il mio primato esecutivo dal tuo intervento, passo avanti e salto la pagina, anche se non saprò mai quale animale si nasconde dietro al bambù.
E se mi cade un pezzetto di carne mentre mangio, guai a raccoglierla! Lo devo fare IO, mamma, anche se non riesco a infilzarla come si deve tra i rebbi della forchetta (va be', rebbi lo dici tu, mamma, io dico "focchetta" ed è già tanta roba), ma ci provo e ci riprovo, anche se potrei portarmela alla bocca con le mani, ma qui è in gioco la dimostrazione della mia autosufficienza e padronanza del bon ton.

Il problema è questo: se non ci riesce perde le staffe, inizia a urlare, si arrabbia, si arrabbia di più se cerco di aiutarla senza toglierle l'oggetto di mano, di mostrarle il modo giusto per riuscire.
Rinuncio: va be', allora se lo sai fare fallo da sola. Ma questa presa di distanza non può che causare un nuovo accesso di rabbia: l'ho appena messa di fronte alla sua incapacità di risolvere da sola un problema. Voglio farlo e non ci riesco. Però voglio farlo io, proprio io, da sola.

Non sono ancora brava ad affrontare queste situazioni di conflitto, la frustrazione delle cose e delle situazioni che non vogliono rispondere ai suoi comandi, alla sua volontà, ora che inizia ad avere chiara l'idea del suo potere su di esse, di poterle trasformare, di avere la possibilità di farle funzionare.
La conquista dell'indipendenza si accompagna allo sviluppo della propria autostima e contribuisce ad alimentarla. Forse il ruolo del genitore in questi casi può essere quello, non solo di incoraggiare la libera iniziativa, ma di insegnare a gestire il proprio orgoglio, ad accettare i propri limiti, ad avere consapevolezza delle proprie capacità e ad essere disponibili per affinarle, imparando dagli altri, a non essere schiavo dell' "Io lo so fare da solo", ma armarsi dell' "Io posso imparare a farlo da solo".

Chissà tra quante altre sfuriate di rabbia ancora...


La riflessione sul tema dell'indipendenza mi viene da un'iniziativa del blog Mens Sana.
Io però sono rimasta indietro, a qualche settimana fa. Recupero oggi a percorso concluso.


mercoledì 25 aprile 2012

Lui, lei... e io!

Lei e lui ora dormono, insieme, sullo stesso grande letto. Materasso ortopedico, rete con doghe in legno... mica robetta! (Ci abbiamo messo nove anni, eh, partendo dalla piazza singola condivisa, ma infine abbiamo assemblato un Signor Letto!).
Lui russa forte, si sente anche da dietro la porta chiusa. Lei russa pure, un poco, e ci va di tosse a momenti. Lui col suo peso fa almeno sei volte lei, ma lei non si fa intimidire, a suon di calci e pedate ben piazzate, si conquista la sua meritata porzione di materasso, relegandolo nell'estremo limbo marginale, laddove lenzuola e coperte finiscono per scoprire porzioni considerevoli di membra, perennemente desiderose di calore.
Lui mi ha detto: "La posso addormentare io, la bambola?"
Io ho lasciato fare, imponendomi un atteggiamento possibilista e genitorialmente equilibrato.
Il fatto è che lo sapevo, in realtà, che non sarebbe stata cosa.
Però li lascio, chiudo l'uscio, raccolgo da terra pupazzi sparsi, sollevo la coperta-tappeto e la piego via, metto a posto libri cartonati ed enormi rilegati illustrati con copertina rigida, mentre sento di là un chicchericcio intermittente, risate soffocate e brandelli di parole non si sa bene in che lingua: "Naso dibabbo!" "Buia!" "Babb..ahahahaha! Buia!" -interferenza- "Pinocchiooo".
Poi un cellulare che suona e una manina che bussa alla porta piano. Allora entro in scena.
Va be', mi trattengo (lo sapevo): "Hasuna la vuoi togliere la suoneria al cellulare se devi addormentarla?"
Comunque mi unisco a loro, sul lettone, e dieci minuti dopo, a furia di "Pinocchi", dormono entrambi.

Lo so che forse a volte dovrei lasciare che lui provi, senza intervenire alla prima difficoltà, ma è infinitamente più facile subentrare con la prassi collaudata, che lasciare terreno a nuove sperimentazioni.
Sì che li apprezzo i suoi slanci di paternità improvvisi e i suoi sforzi per essere più presente.
Ma mi rendo anche conto che in questi quasi due anni ho dovuto imparare a gestire quasi da sola quel mondo, la nanna, la pappa, i risvegli, i giochi, e che adesso inserire il terzo elemento attivo nel nostro tandem sarà un'operazione lunga e delicata.
Però non dispero: a poco a poco, si fa.
E non nego le mie responsabilità: è vero, troppo spesso sbrigarmela da sola è stato più pratico che riuscire a coinvolgerlo come avrei voluto nell'amministrazione delle faccende genitoriali, mediare senza cadere nella polemica, chiedere aiuto senza recriminare, comunicare nozioni senza dare l'impressione di dover impartire una lezione, senza far sentire comunque la mia ingombrante presenza.
Magari se dall'altra parte avessi avvertito una maggior disponibilità all'ascolto, una maggior attenzione a quelle che io ritenevo tappe importanti (ci vieni al corso pre-parto? All'incontro con le maestre? Ai giardini? Ma che. Lui sa già tutto: figuriamoci! Guarda che io ho cresciuto i miei fratelli piccoli, qui vi fate tante seghe mentali e che ci vuole a crescere un bambino?)...

La verità è che ci sono stati giorni, momenti in cui avrei avuto bisogno che fossimo in due, e non l'ho trovato. E ci sono stati momenti in cui mi sarebbe piaciuto che ci fosse anche lui, e lui non c'era, se non fisicamente, di certo con la testa non era lì. E poi ci sono stati momenti in cui ho capito che ce la potevo fare, anche accontentandomi del suo contributo minimo, e allora ho fatto da sola, e andava bene anche così: la cosa ha avuto i suoi lati positivi, niente discussioni sul come e sul perchè.
E poi c'era una cosa che mi faceva incazzare: che la colpa era sempre mia. Se lui non era abbastanza presente, era perché io non lo coinvolgevo abbastanza. Se sua figlia non lo cercava era perché la mia presenza era totalizzante. Se non partecipava alle faccende pratiche di gestione pupesca, era perché io ero troppo attaccata alla bambina e non gli lasciavo fare niente.
Gli amici senza nulla sapere della nostra vita domestica e vedendolo baloccare la pupa per dieci minuti in loro presenza, avanzavano sempre questi argomenti e non si spiegavano come io non volessi ammettere che fosse un "padre eccezionale".
Ecco, forse c'è anche questo subdolo argomento che generalmente viene utilizzato per giustificare un certo tipo di disinteresse paterno, con l'aggravante di generare (oltre al mazzo che una si fa) il senso di colpa materno.
No, no e poi no: mi ribello.
Che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Se tu non ci sei abbastanza la colpa non è certo mia. Io ho dovuto imparare a sopravvivere, mio caro, e non posso sobbarcarmi anche il peso della tua genitorialità inespressa.
Ecco. Così press'a poco è stato il nostro approccio ai ruoli genitoriali. Molto scoraggiante.
Tutt'altro che moderno (cosa ti aspettavi da uno che viene da un Pese deve le donne girano a capo coperto? Eh, te la sei cercata!)

Ma poi è vero che lui a un certo punto si è accorto che si stava perdendo qualcosa, e che, malgrado le proteste, non poteva certo dare la colpa a me, né tantomeno... a lei!
Qualcosa è cambiato.
Tornato a casa dopo una lunga assenza si è sentito "tagliato fuori".
Si è lamentato: l'ho mandato a cagare.

E poi l'ho sentito parlare con alcuni nostri amici, e fare sua una frase che era stata mia (quale gaudio!), rivolta a lui, quando si era lamentato dell'assenza di rapporto con sua figlia (non mi vede da più di un mese e invece di salutarmi mi manda via!), e ammettere con quella frase tante cose: "Stiamo iniziando a costruire un rapporto. Dobbiamo lavorarci".
Allora ho capito che ci teneva. Allora ho capito che mi ascoltava (Hasuna, ma non puoi pretendere che un rapporto nasca dal nulla: ci devi lavorare. Un rapporto va costruito!), e soprattutto ho capito che voleva provarci.

E l'ho visto provarci.
Mi tengo un po' in disparte, per quanto ancora la tentazione di intervenire spesso ci sia, e ancora ogni tanto ci casco ("Aspetta, vuole questo" "No, devi fare così").
Ma è bello vedere come inizino a ritagliarsi momenti per loro due: quando lei, la sera, lo cerca, va da lui, che mangia, gli siede sulle ginocchia, aspettando di ricevere qualche boccone dal suo piatto, di quella cena "da adulti" (lei ha mangiato già da qualche ora, perchè il padre continua a rincasare piuttosto tardino da lavoro), e poi guardano insieme la tv "della Libia", e cantano la canzone della Libia nella lingua "di babbo".
Quando sente l'esigenza di tradurre le parole: "Balena! ...Huta!" e di puntualizzare poi:"dice babbo".
Quando vuole mangiare il pollo impugnando il cosciotto con le mani, dall'osso, "come babbo" senza farselo sminuzzare nel piatto.
Quando quel mattino si è svegliata alle cinque dopo una notte tormentata (l'avevo messa a letto prima che il padre tornasse, perché era molto stanca) e quando lo ha visto, che dormiva lì accanto mi ha sorpreso con una serie di entusiastici: "C'è Babbo! Babbo! Bello bellittimo! Ha'vitto? C'è babbo! Bellittimo babbo! Bellittimo!" e ha iniziato a stuzzicarlo (naso di babbo...) finché non è riuscita a svegliare anche lui. Di dormire non se n'è parlato più, ma credo che per lui sia stato un bellissimo risveglio, anzi: "Bellittimo!"
Quando li ho seguiti dalla terrazza fare il giro della casa, giù nel giardino, piegati a guardare insetti e raccogliere rametti e sassolini che "sembravano tatta'ughe" o "lucettole", lui che fischia come un merlo e che conosce e comprende la natura perché sa osservarla e ha la pazienza di farlo, non certo perché l'abbia studiata sui libri, che certo saprà spiegargliela meglio di quanto non sappia fare io, che le insegno i nomi del glicine e della gazza, della cornacchia e dell'alloro...

E così, stupita, lo vedo tornare a casa sempre un po' prima, sperando di trovarla ancora sveglia, e quando posso, cerco di farmi da parte.


(Anche Zorro vuole partecipare al rapporto padre-figlia!)


Questo post partecipa al blogstorming

lunedì 23 aprile 2012

Affrontare i cambiamenti

Una nota e odiosissima pubblicità televisiva di qualche tempo fa recitava: "Meglio cambiare, no?"
Sì, ma perché se non ce n'è necessità?
In effetti saremmo tutti portati più facilmente alla ricerca della stabilità, che già di per sé è così difficile da raggiungere.
Affrontare un cambiamento, anche uno di modesta portata, significa dover fare una volta di più i conti con la necessità di adattarsi alle circostanze, di sperimentare capacità differenti da quelle che eravamo abituati ad utilizzare, di affrontare situazioni nuove, confrontarci con persone diverse, gestire spazi e tempi che non ci appartengono, a cui non siamo abituati, e una volta di più sentirci inadeguati o fuori contensto, avere la sensazione di dover ricomnciare da capo.
Se penso alla mia infanzia ricordo come un evento sconvolgente il trasloco della mia famiglia dalla nostra vecchia casa, dov'ero cresciuta, ad un'altra più spaziosa e a poche centinaia di metri di distanza, che venivasi a trovare appena fuori dal mio abituale raggio d'azione infantile, ma pur sempre lo sentivo come un abbandono di una fase della vita, quasi come uno spartiacque tra la mia infanzia spensierata e la mia adolescenza arrovellata.

Crescendo il cambiamento a periodi ben scanditi è diventato quasi un'esigenza vitale, un'urgenza di svecchiamento, un'occasione per pormi traguardi nuovi e diversi e per dimostrare di "poterlo fare", di "essere in grado". Così leggo alcune mie scelte di vita un po' avventate alla luce di questa "esigenza di cambiare" nè rimpiango l'averlo fatto, se effettivamente sono convinta che esse mi abbiano portato a vagliare le mie capacità fino ad allora inespresse e ad acquisire una maggior sicurezza delle mie potenzialità, di me come individuo indipendente, di me nelle relazioni sociali, lavorative, di studio, di me che mi metto a fare cose mai fatte prima in vita mia, come vivere sola, cambiare città, cercare casa, abitare con altre persone, trovare un lavoro serale o estivo da poter conciliare con gli studi universitari, decidere di punto in bianco di avere un'esperienza di studio all'estero.

Dunque io credo che per me il cambiamento sia sempre stato associato ad un'idea di crescita personale, e che io lo abbia cercato soprattutto in quei momenti in cui maggiormente sentivo questa esigenza di "crescere", di emanciparmi dal mio ruolo, dalle mie irresponsabilità e dalle mie consuetudini acquisite, che facevano presto a divenirmi odiose.

Quando ho scoperto di aspettare un figlio/a il cambiamento in quel momento arrivava ad aprirmi altri orizzonti di realizzazione personale, in un momento in cui mi sentivo estremamente bloccata e impantanata in un'assenza di obiettivi spiazzante.
Ciò che forse non avevo messo in conto sin da subito era il fatto che questo cambiamento, tanto determinante per la mia vita, non fosse in realtà che il punto di partenza per una serie di nuovi percorsi, e non certo un punto di arrivo.

E ora vedo cambiare lei, mese dopo mese, e continuamente devo adeguarmi a nuove esigenze e nuovi modi comunicativi e mi accorgo che qualsiasi equilibrio di vita insieme non può che essere dinamico.
Se penso a come mi affannavo, durante i suoi primi mesi di vita, nel tentativo di dare ritmi stabili, abitudini ben scandite a sonni e veglie, pasti e passeggiate, a come entravo in crisi quando qualcosa saltava e si preannunciavano terribili esplosioni di isterie neonatali che ero sicura di non riuscire ad arginare, sotto le quali ero certa di soccombere, mi rendo conto che forse la mia stessa paura di sconvolgere quei ritmi e quelle abitudini contribuiva in parte (in parte) a creare un terreno buono al proliferare di quegli stessi scoppi di rabbia infantile che tanto temevo.

Ora che sono forte di un rapporto un po' più maturo con mia figlia, posso azzardarmi a dire che la sicurezza e la stabilità emotiva di un bambino può nutrirsi, prima ancora che di orari fissi e routine azzeccate, anche e soprattutto della serenità e della sicurezza che un genitore gli trasmette quando lo coinvolge nelle proprie iniziative, che sia un'uscita di casa imprevista o un periodo di permanenza in visita a casa della nonna, un viaggio in treno di quattro ore, o una trasvolata intercontinentale con arrivo incerto...
Certo, indolore non può essere mai del tutto. Soprattutto perché le esperienze che facciamo insieme toccano me per prima, la mia emotività, la mia capacità di adattamento a situazioni impreviste, che non sempre risponde all'istante.
Del resto mi sono accorta col tempo che ogni cambio di residenza, ogni nostro spostamento logistico e assetto casalingo diversamente strutturato, corrispondevano ben presto ad un nuovo assetto di abitudini e ritmi biologici di lei, che ben presto si adattavano alla nuova condizione, per poi tornare com'erano prima, al nostro rientro, al ripristino dello status quo.

Affrontare un grosso cambiamento in compagnia di una bambina di nemmeno due anni continua ad essere per me un qualcosa che mi richiede un grande sforzo mentale e una straordinaria concentrazione di forze psicofisiche, inutile negarlo. Ma tre le ordinarie difficoltà che il cambiamento porta con sé, mi rendo conto di dover riuscire a limitare e a eliminare la preoccupazione insidiosa che sia lei a non reagire bene al cambiamento, di volerla proteggere e salvaguardare da strapazzi e sconvolgimenti, perchè subdolamente finisce per generarsi una reazione a catena di ansie e cattive risposte.

Andare invece incontro al cambiamento, al diverso, come a qualcosa da scoprire insieme, proporlo a lei come una realtà alternativa e altrettanto valida a quella presente, qualcosa che ancora non conosciamo, ma che potremmo ben presto fare nostra e amare, portandocela poi dietro come un piacevole ricordo.

L'immagine di lei che vola attaccata con una manina alla mia e con l'altra a quella del padre, mentre ci muoviamo all'interno del grande aeroporto di Tunisi e poi per le strade della città, a metà del nostro viaggio, alle spalle lasciandoci l'Italia, e davanti a noi l'incognita di un Paese che ancora non conosciamo, la Libia: ecco l'immagine ideale di come vorrei vederla andare incontro ai cambiamenti della sua vita.

Oggi Mens Sana propone un'ultima competenza su cui riflettere, e questa è proprio, come avrete intuito, la capacità di affrontare i cambiamenti.
Potevo io, dopo aver creato un tag apposito che ha la presunzione di chiamarsi "educare (chi: io?)", mancare a questo appuntamento?
Certo che potevo, del resto ho mancato i restanti primi sette. Ma non sottilizziamo, e soprattutto: rimedierò, seppur con i miei tempi. Vi invito per intanto (chi fosse interessato) a scorrere questo interessante percorso suggerito da Palmy: cosa serve ai nostri figli, cittadini di domani, per affrontare il mondo adulto?  Quali sono le competenze che dobbiamo aiutare loro a sviluppare?
Ecco l'elenco dei temi affrontati:
  1. fare domande;
  2. risolvere problemi;
  3. affrontare progetti;
  4. coltivare passioni;
  5. indipendenza;
  6. esser contenti con se stessi;
  7. compassione;
  8. tolleranza.
 

lunedì 16 aprile 2012

Tolleranza.

Lei non tollera quando la si contraddice.
Non tollera che la si tocchi, e non sopporta esser presa in braccio dalle persone che non conosce, anzi, quasi da nessuno.
Non tollera che le cose siano diverse da come se le aspettava. Se per esempio quando di pomeriggio si sveglia dal suo sonnellino, io la sento svegliarsi ed entro in camera a salutarla, si infuria, perché vuole invece scendere dal letto, accostarsi alla porta e bussare finché io non le apro: allora è convinta di avermi fatto proprio una bella sorpresa. Le ho scombussolato i piani, ho rovinato tutto.
Non tollera neanche di trovare in casa al suo risveglio qualcuno che non si aspettava: a lei non piace che le cose sfuggano al suo controllo. Come quando, qualche volta, uscendo dal nido, trova il padre ad aspettarla fuori, ché è venuto a farle una sorpresa.

E non le piace che le cambino i programmi.
Se ha puntato al parco l'altalena rossa libera da dieci metri di distanza e qualcuno glie la soffia da sotto il naso proprio quando sta per raggiungerla, non si accontenterà di quella blu, in tutto e per tutto uguale alla prima salvo che nell'essere un poco più bassa. Certo, magari se trovava libera solo quella sin dall'inizio...

Non è facile uscire dal proprio mondo, e accettare che altri, dall'esterno possano entrarvi, modificarlo, interferire con le nostre convinzioni.
La tolleranza si impara partendo da queste piccole cose.
Accettare che il mondo intorno possa essere diverso dall'immagine mentale che ce ne siamo fatti: accettare che l'altro è autonomo da noi e che può, eventualmente, esserci d'impiccio, ostacolarci, limitarci, impedirci di raggiungere un obiettivo o che ci costringa a trovare nuovi modi per esprimerci.

Lei ha, per dirlo come lo direbbe una madre ad un'altra, 20 mesi, o come dico io, farà due anni a luglio e ai suoi occhi differenze ed omogeneità non sono ancora chiare del tutto.
Ancora presto per parlare di altri tipi di "intolleranza".
Lei distingue le persone in: bimbi, bimbi grandi, 'agatti (ragazzi, anche se questo termine ancora non le è proprio del tutto chiaro), tigno'i e tigno'e (signori e signore) e al massimo nonni.
Ma "tigno'e" per lei è anche l'ambulante senegalese che ai giardini si avvicina per regalarle braccialetti di filo colorati, e per valutare dal mio livello di raffreddore la mia disponibilità ad acquistare fazzoletti di carta a 2€ il pacco. Quello non è un "tigno'e nero", solo un "tigno'e", come annota ad alta voce puntando il dito.

Mia figlia all'età di un anno e mezzo ha già vissuto un esperienza di interculturalità, durante il nostro mese di permanenza dalla famiglia del padre, e lì si è dovuta far andare molte cose, dal diverso modo di mangiare al diverso modo di approcciarsi a lei, ha dovuto scontrarsi col fatto che quando parlava non veniva capita o fraintesa, e malgrado io molto spesso soffrissi per lei e mi chiedessi se non fosse troppo piccola per tutti questi stravolgimenti, ho dovuto constatare che la sua adattabilità al contesto è stata assai maggiore della mia.
Chissà se il fatto di appartenere a queste due realtà, a questi due mondi, l'aiuterà nella vita anche ad accettare con più facilità la diversità da sé, ad adattarsi più facilmente a mondi e modi differenti di vivere e sentire, a non arroccarsi nella propria identità, ma ad utilizzarla come uno strumento di confronto e sicura di essa, predisporsi al nuovo, allo sconosciuto, alla ricchezza dell'infinitamente variabile.
A volte mi è capitato che le persone mi chiedessero: ma vostra figlia si sentirà più araba o più italiana? Ho sempre risposto che probabilmente mia figlia avrebbe avuto un diverso e più vasto concetto di identità: l'identità è la storia che ciascuno si porta dietro, che arricchisce il suo essere e consente di "dare" agli altri qualcosa di più di sé.
Riunire in sé due o più diversità per vedere le differenze come possibili convivenze di due realtà, e non come pericolose intrusioni nel nostro immutabile mondo.
Ai suoi occhi ancora non esiste una graduatoria di differenze: non ve ne sono di più lampanti, non ve n'è di squalificanti.

Educare alla tolleranza dunque potrebbe significare insegnare a vedere anche in sè la coesistenza di realtà molteplici e di molteplici apporti, e da questo partire per vedere nell'altrui diversità una possibile fonte di arricchimento di sé, di un sé in continuo mutamento e disponibile a nuovi stimoli e scambi, e non una passiva accettazione del diverso come qualcosa che "ci tocca sopportare", ci è vicino ma in fondo non ci riguarda, e va bene finché ognuno va per la sua strada.
Costruire una tolleranza che includa anche conoscenza dell'altro e comprensione del di lui mondo.

La riflessione sulla tolleranza mi è stata suggerita dall'iniziativa del blog Mens Sana.
L'ho sviluppata in riferimento al mondo di mia figlia, estrapolando da ciò che vedo quando la guardo farsi strada nel mondo, in un mondo che è fuori di lei, ma che la include, nella molteplicità delle sue forme.


venerdì 13 aprile 2012

...ma solo se siete disposti ad abbandonarvi al delirio!

Tanto per.
Se non tenessi il passo alle rubriche settimanali probabilmente non riuscirei a scrivere nulla di nulla sul blog, ultimamente.
Quindi, eccomi all'appello del venerdì del libro (un po' tardiva, come sempre).

Non avendo preparato nessun libro di pupa, e visto che ho da poco fatto fuori questo, ecco che lo ripropino a voi!
Sperando che non seguiate il mio consiglio, e non vi ritroviate a maledirmi dicendovi: "Ma che caspita vuol dire 'sta roba? Mai più ascoltare un consiglio di Suster!"


Titolo: Il cardillo addolorato

Autore: Anna Maria Ortese

Editore: Adelphi, 1997





In effetti ho letto in giro tali e tanti commenti negativi, stroncature, recensioni incazzose e acidelle, che mi sono quasi chiesta se per caso non fossi io un pochino strana, o malata, fate voi,  a farmi piacere questa roba.


Succede che uno vaga a casaccio per la propria città e che per caso, una mattina come un'altra, che si è liberato del fardello della dolce frugoletta, mollandola al nido, entri in libreria, e che poi, sbirciando tra l'usato senza niente cercare e anzi con l'imperativo morale di NON comprare NIENTE, si ritrovi per le mani un libro di cui si fa una certa idea, scorrendone sommariamente le prime pagine, e che invece poi si riveli essere tutt'altra cosa, ma che lo stesso si ritrovi poi, una volta concluso, nell'impossibilità di iniziare qualsiasi altro libro in suo possesso, perché ancora immerso in questo inquietante universo, un po' onirico e un po' fiabesco, in cui la narrazione ondeggia tra la critica distaccata e sardonica al genere umano e la più profonda disperazione, in cui inizi leggendo di principi artisti e mercanti in viaggio di piacere in un'allettante cornice di una Napoli di fine Settecento e ti ritrovi a leggere di folletti e spiriti, duchi negromanti e uccelli del malaugurio, in cui la prosa oscilla tra la divertita parodia di arzigogolate atmosfere neoclassiche e la maestosità drammatica della tragedia greca.

E in fondo ti accorgi che a volerlo riassumere non saresti proprio in grado, e per la verità continui a non capirci molto, nella storia.
Però ti è piaciuto, e inizi a cercare spasmodicamente altri libri della stessa autrice, anche se sai che stai per entrare in un tunnel senza ritorno.
E poi ti ritrovi in biblioteca per la prima volta in vita tua, illuminata dalla scoperta che a pensarci bene non è mica detto che tu debba acquistare e possedere tutti i libri che hai voglia di leggere, e ciò è bene.
E allora perché non condividerlo con qualcun altro, che magari apro a qualcuno una possibile strada per l'illuminazione?

Lo so che non dico molto di questo libro, e le indicazioni che dò ad eventuali aspiranti lettori non son molte, ma ho già elargito sproloqui altrove e non vorrei ricominciare qui.
La Ortese è grande narratrice dell'inespresso e dell'inesprimibile, di quello che cova sotto le sembianze della normalità, delle ambivalenze dell'animo umano e dei drammi individuali.

Diciamo per sommi capi: un libro enigmatico, che non dà troppe risposte e che comunque non quelle che uno si aspetta all'inizio; un libro che ti porta altrove da dove ti aveva fatto credere in partenza; che si preannuncia lieto e si rivela tragico, dove la Storia si mescola all'illusione e alla leggenda, e la luce diurna si fa visione sotterranea e dove ti sembra di perdere continuamente il filo.

E ora che lo metto nero su bianco, magari mi riesce di archiviarlo, finalmente!

mercoledì 14 marzo 2012

Rovinarsi crescendo.

Allora siccome che ultimamente ci ho la meninge pigra e scrivere un post decente si fa impresa ardua, approfitto di un'iniziativa che ho conosciuto tramite i miei "soliti" contatti blogger (sempre i soliti! Non è che io ne abbia poi tanti!).
Dunque, l'iniziativa si chiama "Rovinarsi crescendo" ed è stata lanciata da Mamma in Verde.


Ora, dato che io sono abbastanza egocentrica da aver già pubblicato più volte in passato mie foto d'infanzia, sceglierne una ancora sconosciuta al mio fedele pubblico mi viene più facile (niente foto con gatti o fratelli vari, insomma).

Ecco a voi Suster:


Foto scattata da mio padre sulla terrazza della nostra prima casa all'ottavo piano (non che fosse la prima all'ottavo piano: era la prima casa in cui ho vissuto, ed era all'ottavo piano).
Poi uno si chiede come mai ci si rovina crescendo...
Una bambina infilata in un bidone della munnezza con sfondo lettiera del gatto (con cacca in vista!).
Direi che ho detto tutto!

(Qui la lista di tutti i partecipanti. Vi interessa?)