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mercoledì 11 marzo 2015

Femminile plurale.

- Misericordia, Mimi! Scendi da quel povero Zorro!
Siamo tre donne, e su questo mi fermo spesso a riflettere.
Io che son cresciuta in mezzo a due maschi, con una sorella di molto più grande di me.
Io che indossavo pantaloni di tuta con le toppe sulle ginocchia.
Io ora mi trovo a dover crescere due donnine che non sono proiezioni di me, né tanto meno miniature a mia immagine e somiglianza.
Sono per ora due propaggini fisiche, ma libere di evolversi nello spazio ognuna secondo le proprie peculiarità e propensioni.

mercoledì 13 marzo 2013

Tu che.


Tu che credi di sapere così bene quel che vuoi, e che non perdi occasione per rimarcarlo di fronte alle ingerenze altrui all'interno del tuo campo d'azione.
Tu che rendi la vita impossibile alle maestre, che ogni giorno a turno mi raccontano di qualche tua esplosione di collera nei loro confronti, per aver osato violare il tuo spazio sacro, i tuoi cerimoniali di vestizione, le tue dimostrazioni di autonomia; tu che non ti lasci corrompere dalla promessa di caramelle, raggirare da manovre diversive, distrarre da tentativi di dribblaggio... ma vai fino in fondo, anche se poi non sai tu stessa come uscirne fuori, intrappolata tra l'orgoglio di non cedere e l'evidente assenza di una valida causa per la quale batterti.
Tu che sei già in grado di analizzare e riflettere da sola sui tuoi comportamenti, che sei sorprendentemente consapevole dei tuoi meccanismi emotivi, e a freddo sai discuterne e individuare da sola i tuoi errori.
A te vorrei poter spiegare che la cosa più difficile nella vita non è accettare gli altri e i loro difetti, quanto accettare i propri e imparare ad ammetterli per superarli, mettendo di lato l'orgoglio; che perdonare gli errori altrui non è impresa tanto dura quanto perdonare i propri; che la sofferenza maggiore te la procureranno non tanto i torti subiti, le ingiustizie patite e i tradimenti ricevuti, quanto il ricordo di quei torti, di quelle ingiustizie e  di quei tradimenti che tu avrai attuato a danno altrui.

Tu che mi stupisci con la tua eccezionale sensibilità emotiva, che sai intuire gli stati d'animo ed esserne condizionata, che riesci ad intercettare i miei momenti di crisi e a metterli a nudo, lasciandomi senza difese e guarnizioni.
Tu che trabocchi di emozioni, e che smani dalla necessità di comunicarle, esprimerle, tu che riesci a tradurre verbalmente certe tue irrefrenabili eruzioni emotive, senza inibizioni né reticenze, e lo fai come e meglio di me, adulta, che rimango intrappolata nella difficoltà di dare una forma alle mie pulsioni più inconfessabili, dal pudore di manifestare i miei affetti più primordiali.
Tu che non hai problemi a dirmi che sei innamorata di me e che mi fai sorridere con inaspettate proposte di matrimonio ("Mamma, mi vuoi sposale?"); tu che applicando alla lettera la logica ferrea imparata al nido, affermi senza alcuna riserva che io te e Buia siamo fidanzati, perché è questo che sono due o più persone che si vogliono bene; tu che quando ti trovi in mezzo ad una compagnia che apprezzi non sai contenere la gioia che provi e allarghi le braccia come a contenere tutti i presenti ed esclami "Che bello che siamo tutti insieme!"
Tu che quando una situazione ti piace e ti fa sentire a tuo agio, balli di felicità, tu che sai ancora chiedere: "Mamma, pel favole, mi dai una carezza?" o "Ti posso dale un bacino?" e mi sento morire quando mi prendi la mano e dici di non preoccuparmi, ché ci pensi tu.
Tu che ti senti già forte abbastanza da poter proteggere qualcuno che ami, che hai sempre il "celotto" per guarire ogni tristezza, espressa o inespressa, o malamente celata da parte mia, tu che ripeti di essere "glande", e credi che l'esserlo sia sinonimo di una conquista di status.
A te vorrei far capire quanto eccezionale sia il tuo status di piccola, quanto la tua forza risieda nella tua apparente assenza di difese, che di fatto lascia senza difese chi con te si confronta.
A te vorrei dire di non perdere mai del tutto questa tua forza-bambina, di non lasciare che questa tua immediatezza nel sentire e nel trasmettere venga soverchiata e sopraffatta da etichette, e vuoti clichés comportamentali, che il darsi del tutto non è sinonimo di debolezza, ma di grande coraggio e onestà. Che la cosa più frustrante non è tanto il non sentirsi capiti, quanto il non sentirsi più in grado di comunicare, il non sapersi più in grado di "sentire".

Tu che non ti concedi sempre e subito a tutti, ma sei selettiva, e scontrosa, e hai i tuoi tempi di reazione non sempre in sintonia con quelli del mondo circostante. Tu che sai far male quando rifiuti, ed estrometti dal tuo mondo affettivo, e non ti rendi conto che ogni tua parola ha un impatto ben più forte della tua reale volontà di ferire.
Tu che mi fai ridere quando atteggi la faccia in cipiglio e fai la voce da posseduta e dici: "Vai via, sei blutta , io non ti voglio!"; tu che non accetti che qualcuno che ami possa fare o dire cose che non ti piacciono, o impedirti di fare ciò che vorresti, o disapprovare qualcosa che hai fatto, e ti opponi, e da giudicata passi a giudicante, e dai per scontato che il mondo debba girare intorno alla tua volontà, e che tutte le motivazioni contrarie siano secondarie.
A te vorrei insegnare che nella vita non vince sempre chi urla più forte, anche quando ci dicono che è così; che le vittorie silenziose a volte sono le più significative; a te vorrei mostrare quanto il saper lasciar correre senza rivendicare sia dote di pochi spiriti eletti, e come l'abitudine di voler avere sempre l'ultima parola rischi di diventare una gabbia che ti preclude lo scambio con l'altro.
A te vorrei  spiegare che la capacità di tacere e ascoltare le ragioni altrui può renderti ricca e aprirti prospettive prima mai considerate, e dare soddisfazioni neppure paragonabili alla prepotente smania di ricevere il riconoscimento delle proprie ragioni. Che il negare o il rifiutare ciò che non ci piace non servirà a risolvere un problema, né a migliorare una situazione. Che il riconoscere di aver sbagliato ti darà diritto a maggior considerazione da parte altrui di quanta te ne potrebbe dare una vittoria dialettica ottenuta per sfinimento.

Tu che vuoi sempre dare un nome a tutto, che chiedi in continuazione chiarimenti sugli aspetti che ti rimangono più oscuri, che sei capace a reindirizzare le risposte qualora non ti convincano, che mi obblighi a sfiorare pericolosamente il confine inviolabile del mondo degli adulti ("mamma, spiegamelo meglio!") per non aprirti prematuramente lo scrigno di verità difficili, quelle che non vorrei mai confessarti, che vorrei non ci fosse bisogno di spiegarti, e ti ritrovo ferma lì a rifletterci sopra, per provare a capirne da sola il come e il perché.
A te vorrei dire che anche quando, a un certo punto della tua vita, ti sembrerà che questo mondo sia un bello schifo, che la vita sia tutto un inganno, che la ricerca della felicità sia solo una favola tossica, per ubriacare la mente della speranza che davvero serva a qualcosa essere vivi (e prima o poi ti accadrà di pensarlo), ci sarà sempre qualcosa per cui varrà la pena aver vissuto, e ci sarà sempre qualcosa per cui varrà ancora la pena vivere, e che quel qualcosa da solo basterebbe a riscattare tutto il resto, che la bellezza da sola può salvare il mondo.

Tu che ti riconosci un'inequivocabile femminilità, tu che ti rivedi nella maggior parte delle tue eroine fiabesche, identificandoti nell'immediato con ognuno dei personaggi che già popolano la tua fantasia; tu che mi fai impazzire quando al mattino ti metti in testa di voler scegliere i tuoi vestiti, alla ricerca disperata di "quello da plincipezza", che vuoi i capelli sempre sciolti perché dici che "le plincipezze non hanno le codine", che hai acquisito chissà da dove la nozione delle fondamentali doti femminili, e le individui nella bellezza, nell'eleganza e nel ballo...
A te in questo mese di marzo dedicato alla donna, vorrei trasmettere il senso profondo di cosa ciò significhi, proprio io che il mio essere donna ho fatto una certa fatica ad apprezzarlo, accecata com'ero da fuorvianti luoghi comuni di una femminilità civettuola e frivola, dedita all'esteriorità e alla cura della propria immagine estetica, persa in discorsi vacui di nessunissimo interesse, e invece l'ho poi riscoperta in me in una particolare forza introspettiva, nella complessità e articolazione del discorso emotivo, nella predisposizione per la cura profusa nel'oggetto delle proprie passioni, nella sottigliezza e nella sfaccettatura degli stati d'animo.
A te ancora vorrei rivelare come la tua maggiore forza risieda proprio nel tuo essere donna ("No, mamma, tono una bambina, io"), nel tuo essere una bambina che un giorno sarà una donna, detentrice della facoltà di ospitare e dare vita, la forza più grande e inestinguibile che essere umano possa mai vantare.
Tu che sei già la mia piccola donnina.



giovedì 8 marzo 2012

Memorie libiche: donne memorabili.


L'avevo anticipato, me l'ero preparato, poi, per ragioni di organizzazione, di coerenza tematica, di eccessiva lunghezza dello scritto, ho sempre rimandato.

Ma ci tengo a non cestinare questi appunti, a parlare per esteso di almeno due figure che per me hanno significato un immediato terreno di confronto, con le quali ho instaurato forse rapporti e ho avuto modo di interagire in maniera più significativa, perché affini in età e ruolo. Trattasi delle mie bellissime, giovanissime cognate, belle donne libiche, ma soprattutto, belle persone, porte verso una cultura che in molti momenti mi è parsa inaccessibile.

Allora aspettavo di arrivare alla lettera P, sotto la voce "persone", ma 'fanculo ai programmi (attenzione a non usare questa espressione in un contesto cui sono presenti dei libici, perché si capisce: "fanculo" lo usano anche loro, degna eredità dei nostri coloni, e non si addice in bocca a una donna).
Invece lo pubblico oggi, 8 marzo, indovinate un po' perché? Parliamo di donne, ovviamente. Una finestra su un modo diverso di esserlo, concedetemi questo sbrodo. In Libia non si celebra la festa della donna, del resto: se non le omaggio io di questo ramoscello di mimosa virtuale, e a loro insaputa, chi lo farà?


Zenab.
Zenab sarebbe la mia cognatina, di appena 20 anni. Avrà pure vent'anni ma di fronte a lei mi trovo spesso nell'imbarazzo di non saper giustificare la mia incapacità nella maggior parte delle faccende che qui riguardano l'esser donna, dalla cucina all'henné, e di dover essere istruita a livello elementare, vista la mia più totale estraneità e indifferenza per tutto ciò che concerne la sfera delle consuetudini sociali (vedi chiacchiere tra donne in visita, scambi di vestiti, e l'arte di figurare come perfetta padrona di casa esternata nella impeccabile sequenza di vassoi di leccornie da somministrare agli ospiti di turno. In parole povere: due palle!)

Probabilmente questo mio senso di inadeguatezza di fronte a lei, pure tanto più giovane, ma più consapevole del proprio ruolo familiare e sociale, era solo una mia sensazione, che non credo fosse percepita come tale da lei, che anzi, nei miei confronti, ha sempre tenuto un contegno molto rispettoso e gentile, cosa che credo esser legata non solo alla mia maggiore età e al ruolo occupato in relazione ai rapporti familiari (in quanto moglie del fratello primogenito) e sociali (in quanto moglie e madre, mentre lei ancora studentessa e figlia) ma anche a un sincero affetto, per quanto immagino che sia rimasta più volte perplessa di fronte ad atteggiamenti e abitudini mie che forse potrà aver considerato come "stranezze" (come la mia mania di fare foto, o la scarsa attenzione per il mio abbigliamento, se non vogliamo dire trasandatezza).
Nel complesso quindi il nostro modo di rapportarci l'un l'altra si presentava quanto mai bizzarro, se di rapporto si può parlare dall'andamento dei nostri pazzeschi dialoghi.

Io nella fattispecie, lungi dal far mio quell'atteggiamento adulto che mi sarebbe consono, mi sentivo piuttosto sopraffatta dalla sua sensibile maturità, dalla sua limpidezza di sentimenti, dalla sua sollecitudine e dalla disponibilità silenziosa e amorevole, infine dalla sua imperturbabile pazienza.

Ma cesserò di parlare di me sforzandomi di accettare il fatto di non essere sempre riuscita a dare il meglio, messa alle lunghe nella continua necessità di adattarmi ad un mondo che non era il mio e a cui non ero avvezza.
Volevo invece finire di parlare di Zenab, che a vent'anni, a parte studiare, e aspirare a diventare presto insegnante, sposarsi e lasciare finalmente la casa d'origine, riesce a infilare nella sua giornata la preparazione di due pasti elaborati per un numero variabile dalle 5-6 alle 15-20 persone, la pulizia e l'ordine della casa e del bucato, la gestione di uno stuolo di fratellini vocianti e petulanti, l'assistenza ad una sorella ritardata, ancora più vociante e petulante e capace dei più tenaci capricci di un bimbo di due anni, la soddisfazione delle continue richieste di servizi da parte di: fratelli redivivi che pretendono l'apparecchiamento di pranzo e cena ad personam a qualsiasi ora si presentino, mamma esausta, moglie del padre scassamaroni e zie eventuali in visita.
No, cioè... io avrei mandato tutti in culo da un pezzo.
Ma mai una parola spazientita senti uscire dalla sua bocca, mai uno sbuffo, mai una rispostaccia.
Elargisce sorrisi, balocca i bimbi, trasporta vassoi apparecchiati con garbo e cura amorosi (qualcuno noterà la disposizione dei centrini e l'attenta ripartizione coreografica delle pietanze nel piatto?), deponendoli con attenzione e inchini davanti a chi di dovere, con movimenti lenti e flessuosi, molto, molto femminili, e non usa mai fretta nel far niente.

Del resto la fretta non ha ragione di risiedere qui, non è la bene accetta, non si pensa mai che non ci sia tempo per fare questo o quello. Il tempo basta a fare ciò che c'è da fare, e se avanza poco male: nemmeno la noia sembra attecchire. Al limite ci si improvvisa una pennica diurna.
Zenab comunque, raramente se ne concede, di questi riposi estemporanei.
Se ha tempo, si infila in cucina a preparare laboriosi ed elaborati manicaretti, dolci o salati, ma soprattutto dolci, dolci assai, che possono prenderla anche un intero pomeriggio di lavorazione, tanto non c'è fretta, ripeto, ogni cosa prende il suo tempo, il tempo che ci vuole a farla bene, e lei si muove sempre ondeggiando nei suoi abiti lunghi, senza impataccarsi le ampie maniche, quasi danzando.
Ho provato a starle dietro in una di queste preparazioni, ma, ahimè, non mi dura la pazienza di arrivare in fondo. Il più delle volte mi fermo alla fase uno: passare al setaccio la semola o la farina. Niente preparati Cameo per microonde!

Zenab era fidanzata con un ragazzo, che però è morto durante il recente conflitto. Non che questa cosa ce l'abbia detta apertamente nessuno. E' andata così: abbiamo ricevuto la visita di una signora, che diceva di esser passata per conoscere me, la sposa straniera  venuta da lontano.
Esasperata dal continuo avvicendarsi di queste infinite visite di donne curiose e desiderose di conoscermi, alle quali pur tuttavia non avevo gran ché da dire, mi rivolgo, con una certa stizza ad Hasuna: "Ancora? Ma chi è mo' questa?"
"Boh, che ne so io? Halodjubdjlnancdid? (Rivolgendosi a Zenab parla in arabo: ma chi è questa, scusa, cara sorella?)"
Lei risponde: la mamma di un amico di tuo fratello. E non aggiunge altro, ma si copre il viso, le trema la voce, e se ne va.
Per me questo episodio è stato come uno schiaffo in pieno viso. E non so perché lo scrivo qui, cosa voglio raccontare... la dignità del dolore? Il pudore silenzioso? La difficoltà estrema di comunicare certi sentimenti, la conflittualità di certe situazioni, lo strano senso di estraneità tra i membri di una stessa famiglia? Fate un po' voi.

Zenab finisce di rassettare la cucina e raccoglie i panni di tutti dal balcone, si porta un grosso libro in sala e lo apre sulle ginocchia, seduta sempre in terra, sui grandi cuscini addossati alla parete.
Ma ecco, arriva Ahmed con la cartella della scuola, la rovescia accanto a lei e si siede chiedendole di aiutarlo nei compiti. Lei non fa storie, mette da parte il suo libro e prende in mano quelli del fratellino.


Iman.

L’altra “cuniata” sarebbe la moglie del fratello di Hasuna, il terzo (Hassan, sempre una gran fantasia nello scegliere i nomi, questi arabi).
Iman è una ragazza spigliata e moderna. Dico moderna nel senso comunemente conferito al termine dal nostro comune sentire; a vederla, e malgrado il velo, appare sicura di sé, spiritosa e energica, e di maniere pratiche e spicce. Non sembra farsi troppi problemi sul come e sul quanto, sui però e sui “farò bene”, i vari “sarà meglio?” e i frequenti “e se poi” che assillano noi madri di qui, nel crescere la sua bambina di 7 mesi (oramai 9).
Lei del resto, la bambina, è il ritratto della tranquillità, sorridente e paciosa non sembra farsi cruccio dell’apparente noncuranza materna, e malgrado il putiferio che le si scatena intorno a ogni nuovo arrivo dell’orda di microzii under 10. Non sembra neppure risentire delle ore di musichine elettroniche sincopate sparate dalla TV perennemente accesa, dei ripetuti abbandoni su divani e materassi, involtolata come un bozzolo nella sua coperta di lana rossa; tutt’al più finisce per ribaltarsi faccia in giù emettendo flebili lamenti da sotto quella spessa rivestitura; con mia grande ma impotente apprensione, a parte ripetuti inviti a controllare, è stata mollata a dormire sul sedile posteriore dell’auto chiusa sotto il sole, sempre abbozzolata in quella sua consistente coltre, mentre i genitori se ne scorrazzavano dimentichi e beati sulla spiaggia e qui, vi assicuro, quando il sole batte batte, anche a gennaio.
Sempre con mio grande e silenzioso disappunto viene rimpinzata a ogni ora e senza logica alcuna dei più svariati alimenti, dal cus-cus in salsa di trippa ai dolcetti di mandorle e pistacchi, ma ciò che maggiormente la mia coscienza clinicizzata di brava madre occidentale si è sorpresa a disapprovare scuotendo mentalmente la testa è una pappina di latte in polvere per neonati scarsamente diluita in pochissima acqua, e quindi altamente concentrata, alla faccia dei misurini rasi che ricordo il pediatra mi ha sempre raccomandato di allungare in una quantità di acqua superiore di 30 cl alla dose indicata sulla confezione (a pensarci ora a volte si sfiora il ridicolo…)

Ma perché ora vi dico tutto ciò? No, non è per presentare il palese contrasto tra i diversi approcci alla primissima infanzia che si hanno qui e laggiù. Del resto sono talmente macroscopici che rimarrebbe poco da aggiungere, e infondo è normale che quando cresci circondata da fratellini e cuginetti più piccoli a cui in qualche modo devi star dietro, diventi madre a 23 anni e non a 37, e sai che sarà la prima di una lunga serie, sei un tantino più portata a ridimensionare le immani ansie che pungolano noi madri di piccoli extraterrestri, di cui improvvisamente accorgiamo di non sapere un bel ciufolo.

Ciò che però mi preme evidenziare è come da parte di nessuno, donna o uomo che sia, ho avvertito il minimo intento o azzardo di metter bocca nelle decisioni o nelle attitudini di Iman come madre, eccezion fatta per la sottoscritta, che, seppur tacitamente, si è scoperta in flagrante a scuotere ripetutamente la testa, atteggiamento a cui noi madri o non madri di qui siamo piuttosto avvezze e predisposte, che lo ammettiamo oppure no, quando notiamo altrui atteggiamenti materni che non condividiamo.
Ma in una società in cui i bambini, anche piccolissimi, non vengono cresciuti, accuditi e spupazzati dalla sola mamma, ma da una comunità familiare folta e allargata, ecco che la mamma viene alleggerita del grosso carico della responsabilità assoluta. Lei potrà tranquillamente mollare la pupa in braccio alla cognata ritardata, o alla sorveglianza di una bimba di sei anni, per andare a sbrigare sue faccende, o per distrarsi un poco a chiacchiera con altre donne in visita senza che a nessuno la cosa debba sembrare sconveniente. Il rapporto tra mamma e bambino non è forse così esclusivo e sigillato come siamo da sempre abituati a credere…

E non è che io condivida in tutto e per tutto questo modo di crescere i bambini "alla leggera", non sempre lo ritengo "il modo giusto", quello più sano e naturale, e spesso ho notato atteggiamenti dei grandi che una nostra Tata Lucia bollerebbe come assolutamente non-pedagogici.
E però... tutto ciò è forse solo spettro di un generale modus vivendi carico di ansie, aspettative, pressioni, stress. Quanta maggior spensieratezza nel vivere la maternità, quanta nel non giudicare chi lo fa in maniera differente da lei (mai una parola, sono sicura, sulle mie fissazioni, che certo dovevano apparir tali, su orari e alimentazione per la pupa), quanta nel non preoccuparsi del poter essere giudicati. Ma quand'è che abbiamo perso questa spontaneità?
Forse è vero: la loro disinvoltura nell'esser madri è agevolata dal fatto di dover essere madri e basta, ma forse anche da una generale disposizione a semplificarsi la vita.

Che fai, Iman, vieni con noi a fare un giro al mare?
Lei ci pensa un po', poi: ok, e molla la pupa alla suocera senz'altro aggiungere (laddove io avrei forse specificato che tra un'ora deve fare la pappa, e tra due ore prova a farle fare un riposino, e se non dorme prova a vedere se non avesse fatto la cacca...).

Sono rimasta molto ammirata da questa ragazza.
Ed ecco che usciamo, ci dirigiamo alla macchina, lei continua a scherzare e a scambiare parole incomprensibili con Hasuna, indicandogli i luoghi più piacevoli dove poter andare a guardare il mare, quando mi volto e... per poco non faccio un salto, ma i miei occhi devono aver tradito un qualche moto di sgomento, se non di spavento, forse si sono dilatati come quelli di chi ha improvvisamente una visione ultraterrena: lei si era tirata giù il velo e ora aveva la faccia completamente coperta da una stoffa nera.

Mai mi sarei aspettata di vederla in quella versione, nella versione (dal mio punto di vista) retrogada e sottomessa di una tradizione culturale bigotta e misogina. Lei per me era il prototipo della gioventù libica al femminile, colei che, giunta da Tripoli, avrebbe portato nell'austera famiglia del marito, una ventata di freschezza e novità dalla chiassosa e variegata capitale.
Ho dovuto aggiustare ancora una volta le coordinate delle mie convinzioni.
Iman quando esce di casa si copre il viso. Non è il marito a chiederglielo, non è la famiglia di origine, che comunque è lontana e non potrebbe sorprenderla a volto scoperto; non è la famiglia di lui, dove nessun'altra donna osserva quest'usanza.
Mi spiega che in pubblico non le piace mostrare il volto, che coprendolo così le sembra di tutelarsi e preservarsi da sguardi che non desidera, che non c'è motivo per cui dovrebbe desiderare che uomini esterni alla famiglia possano apprezzarne il viso, e magari esprimere degli apprezzamenti verbali a sua insaputa (e chissà che pensieri impuri! Aggiungo io).
Non capisco ma annuisco lo stesso.

Non le capisco del tutto, queste donne, ma posso accettare che portino avanti un loro sentire tanto lontano dal mio, e pur non incontrandoci, osservarle ammirata e stupita a breve distanza.



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venerdì 17 febbraio 2012

Memorie libiche, parte terza. Mondo femminile.

Non so se avrete notato che sto procedendo in ordine alfabetico, per aree tematiche.
Sembrerà folle, pedante, enciclopedico al limite, e magari un po' fine a sé stesso, ma questo glossario della mia esperienza libica è venuto formandosi all'inizio quasi spontaneamente dai miei appunti e ho giocato a finirlo per vezzo. Infine l'ho trovato molto comodo per riassumere e organizzare impressioni mischiate e sparpagliate su un'area di quattro settimane di vissuto.
Quindi proseguo, fino a sfinimento. Voi potete anche desistere. Nessun rancore, eh!

Donne.
Data la mia incontestabile appartenenza a questa porzione di umanità, mi sembra doveroso fornire una testimonianza su quanto osservato vivendoci in mezzo.
E' certo un argomento piuttosto spinoso, e tenterò di non cadere nei facili estremi della demonizzazione di una società bigotta e maschilista che abbrutisce ed emargina la donna, e l'idillio di un'età dell'oro in una società carica ancora di quei valori sani e primordiali soffocati dalle sovrastrutture della nostra contemporaneità.
Posso solo raccontare ciò che ho visto e che mi ha più colpito, e siccome scelgo di attingere ad appunti presi di volta in volta,  sotto la spinta di emozioni del momento e stati d'animo il più delle volte negativi dettati dalla mia difficoltà di adattarmi ad un contesto tanto diverso dal mio, in maniera più che mai soggettiva.
In effetti mi sembra difficile poter parlare della mia esperienza di vita in Libia tralasciando di trattare un capitolo sulle donne, per il semplice fatto che la vita laggiù sembra correre su due binari paralleli e raramente intersecantesi, due universi a sé stanti e apparentemente non comunicanti, ma evidentemente una qualche comunicazione tra i due dovrà pur esistere, se la vita deve in qualche modo riprodursi.
Naturalmente sto parlando del mondo maschile e di quello femminile, che qui si presentano nettamente divisi e confinati, direi quasi barricati l'uno per l'altro, per la maggior parte delle attività della vita degli individui.
Colgo l'occasione per tentare di dare una risposta a uno dei più comuni interrogativi che mi vengono posti da amici e conoscenti che cercano di farsi un'idea della Libia: "Com'è la condizione della donna laggiù?"
Ora partiamo dal presupposto che io sia ben lungi dal riuscire a dare una risposta chiara.
E' ovvio che posso giudicare solo attraverso i miei criteri di giudizio, forse viziati in parte dal pregiudizio insito in noi femmine occidentali, consapevoli e fiere dei nostri diritti e della sofferta "parità", della necessita di "emancipazione" della donna, anche in contesti culturali in cui da parte loro (delle donne) questa esigenza non è affatto avvertita, e la loro condizione non è affatto vissuta come inferiore o subordinata.

Non escono la sera per locali, le donne libiche, non amano girare per strada da sole, e non amano farsi vedere in faccia dagli esponenti dell'altro sesso.
Non amano neanche farsi fotografare il volto, per quanto questa cosa sia già attutita tra le esponenti delle ultime generazioni, tra le quali ho ravvisato quasi con sollievo un certo grado di vanità civettuola...
Le donne libiche indossano sempre un fazzoletto in testa, e non è che siano obbligate, non richiedono di una Santanché che si batta per il loro diritto di andare a capo scoperto, nient'affatto. Quell'indumento fa parte integrante del loro modo di vestire e non sentono il peso della costrizione di doverlo indossare (come la sottoscritta), come dimostra il fatto che se lo tengono addosso, incuranti, anche in casa, quando non vi sarebbero tenute per ragioni di decenza sociale (non essendo esposte alla possibilità di sguardi maschili esterni alla famiglia).

Le donne libiche non si macerano nella sofferenza per il fatto di non poter frequentare, al fianco dei consorti o fidanzati, le fumose caffetterie della città, affollate notte e giorno esclusivamente da uomini intenti a sbevazzare ottimi thé rossi e neri, orribili brodaglie nere che chiamano caffé, e a sfumacchiare tabacco aromatizzato alla menta dai loro pittoreschi narghilé egiziani. Non saprebbero che farsene, le donne libiche, di questa inopinata fortuna. Loro stanno bene in casa, la casa è il loro regno, la loro massima aspirazione, il luogo dove si realizzano e si incontrano, parlano degli argomenti che più le animano (il prossimo o l'ultimo matrimonio; la visita di questa o quest'altra parente, i possibili partiti da presentare alla figlia o alla nipote in età da marito) finanche a quelli più futili (ricette, vestiti, "maquillage").
Il fatto che io non mi truccassi e non indossassi gioielli d'oro è stato a lungo oggetto delle più animate discussioni per i primi giorni della mia permanenza, finché, sfinita, non ho ceduto alle lusinghe del kohol e della matita per occhi, rendendo mia suocera la donna più felice della Terra.

Le donne libiche sono tutte belle: non esistono donne brutte, grasse, basse o sgraziate, o almeno troppo brutte o troppo grasse e così via, per il semplice fatto che loro sanno di essere belle, sanno di essere desiderabili e importanti, sanno di essere oggetto di desiderio e interesse maschile, ed è per questo che si preservano con cura estrema, si nascondono e si sottraggono da qualsiasi sguardo o contatto sconveniente.
Ed è anche per questo che non sono complessate, non hanno mai contemplato l'eventualità di rifarsi il seno o di liftarsi la faccia, non nascondono i chili di troppo più di quanto nascondano fisici da velina, e amano farsi agghindare e imbellettare a dovere dalle altre donne, quando si sentono protagoniste di un evento importante che le riguarda (leggi: quando si sposano, o si sposa una parente o un'amica molto vicina), senza alcun imbarazzo e inibizione. Amano essere e sentirsi belle.
Invidio sempre il modo in cui sanno trasportare con fierezza femminile enormi deretani fasciati in panneggi di stoffe nere o colorate, senza il minimo imbarazzo per l'ingombro.

Le donne libiche si sposano. Tutte. E fanno più figli che riescono.
Chissà se pensano che potrebbe non essere così, che potrebbero anche solo pensare di farne solo quattro o cinque, e non necessariamente un numero maggiore di otto...
E comunque mi dicono che ci sono molte donne libiche che scelgono anche di lavorare e non vedo perchè mettere in dubbio questa verità, solo che io non ne ho conosciute, dato che in linea di massima la famiglia media in Libia se la cava benissimo tirando avanti con il solo lavoro maschile.
Ma non è vero, dai, le ho viste anche io, le donne, agli sportelli degli uffici pubblici, e nelle agenzie di viaggio e negli studi fotografici: è vero! E va bene: le donne libiche lavorano pure, solo che non te ne accorgi.
In effetti in alcuni negozi la clientela femminile gode di un ingresso dedicato, separato da quello degli uomini, in una sezione del negozio in cui può tranquillamente farsi servire da personale femminile, se vuole evitare di portarsi dietro il figlio maggiore di 13 anni a cui delegare il compito di fare da portavoce delle proprie esigenze presso il commesso di sesso maschile, che lei preferisce non interpellare direttamente (non sia mai che la cosa venga equivocata!)

Le donne libiche amano divertirsi, e non è vero che vestano sempre in maniera castigata. Ho visto nei negozi, esposte su manichini veramente svergognati, abiti che non mi sarei aspettata di vedere nemmeno indosso a una delle nostre più smaliziate diciottenni.
Loro osano, sanno vestire sexy, ma solo quando sono tra donne. Ostentano femminilità e sensualità solo in contesti sessualmente neutri. Ma dov'è, dov'è, che indosseranno mai questi abiti osé?
Dov'è che si abbandonano alle più sfrenate danze e a quel loro tipico acuto gorgheggio di lingua, che io non riesco a riprodurre se non al rallenty e con due ottave in meno?
Ai matrimoni, ovvio.
I matrimoni libici tradizionali prevedono festeggiamenti lunghi una settimana, snodati in una sequenza di precise tappe che ora non saprei illustrarvi, anche perché, malgrado mi si sia subito subito presentata l'occasione di parteciparvi, non l'ho colta al volo. Che occasione sciupata, direte voi. Chissà che esperienza interessante e istruttiva poteva essere.
Ma, perdonatemi, non sono ancora pronta per affrontare un matrimonio libico.
Comunque, se vi aspettate una delle nostre tavolate di parenti chiassosi in ghingheri nel ristorante più "in" di Castel Gangolfo, scordatevelo. Maschi e femmine saranno ermeticamente separati per l'intera durata dei festeggiamenti nuziali. Anche i due sposi non si incontreranno che all'atto finale della stipula e, infine si spera, della loro coniugale unione carnale.

Comunque i matrimoni non sono l'unico diversivo che si concedono le donne, in Libia.
Altra importante occasione di svago sono le interminabili visite casalinghe che si concedono a vicenda quasi giornalmente, di una durata che spazia dalle 4 alle in poi ore, senza riguardo per pasti, ore notturne o diurne, diversi programmi della persona ospitante, non sempre interpellata con preavviso sulla sua eventuale disponibilità a ricevere visite, quel giorno. A quanto pare però nessuno si scompone per quella che da noi verrebbe affrettatamente liquidata come "invadenza" o addirittura "rottura di balle" (Suster sarcastica, non si fa così, direbbe la pupa).

Insomma, le donne libiche, ragazzi, se la spassano almeno quanto e più di noi.
Come al solito è solo questione di punti di vista.
Il punto è che non si fanno intimorire dalla loro non indifferente mole di figli al seguito, pur non contemplando l'uso di passeggini, marsupi, ovetti o simili orpelli. Una coperta può bastare, ci imbacucchi il pupo e via, verso l'infinito e oltre.

Va be', perdonate l'idiozia in cui sono caduta: era ovvio che questo argomento fosse degno di essere affrontato in tutt'altra maniera, ma ciò che avevo iniziato a scrivere mi aveva profondamente depresso, e comunque credo che avrò modo più in là di presentarvi alcune delle figure femminili che più da vicino ho avuto modo di osservare, e con cui ho avuto modo di confrontarmi, perché i fatti e le persone sono più eloquenti di qualsiasi tentativo di descrivere una realtà che continuo a vedere sempre e solo come osservatrice esterna, e ciò che a me può sembrare retrogrado e puerile, può essere invece sintomo di una capacità di stare bene ed essere contenti di poco, di divertirsi con cose semplici, di non aver smesso di mettere al primo posto i rapporti umani, assai meno puerili e vani comunque della nostra ingiustificabile necessità di "divertirci" e, nel concreto, di non esser mai realmente capaci di farlo.










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sabato 23 luglio 2011

Pensieri di donna, un po' così

Io non so come una blogger "normale" gestisca la sua pubblicistica: so che la mia cartella "bozze" necessita un'operazione drastica di pulizia: cestinare o dare un senso ad abbozzi di pensieri non conclusi.
Dovrei dare una forma un po' più determinata agli argomenti che affronto, che se no poi rimangono lì per settimane e perdono di senso e attualità, e però non è facile stare dietro alla vita e al blog.
Il blog che nasce come memoriale, almeno nel mio caso, e che poi finisce per essere sempre più autoreferenziale, anche se non vorresti, perché, non c'è niente da fare, qui dentro è un mondo a parte, dove incontri, ti confronti, e prendi spunto, conosci anche persone, perché no, credete non sia possibile?
Sì, magari non potresti dire con esattezze che viso abbiano, e neppure, in molti casi, come si chiamino, con che voce parlino, con quale poi cantino, di che colore i loro capelli e via dicendo, per strada non le riconosceresti, sicuro, io no, che non sono fisionomista di natura, non riconoscerei per strada nemmeno il fruttivendolo, se lo vedo fuori posto, senza il suo banco della frutta e verdura davanti... eppure, dicevo, queste persone senza volto, con nomi strani e inventati, che parlano di sé e delle loro vite sconosciute chissà dove collocate, ti sembra a volte ti riescano ad ascoltare e a capire meglio di chi ti conosce da anni, meglio di chi vedi ogni giorno per strada, al bar, o di chi non vedi da anni.
Questo è un posto a sé, altrettanto reale e vivo, fatto di persone, che offre stimoli e aiuta a schiarire i pensieri. Qui la vita di fuori ci entra, sì, ma filtrata dalla scrittura e dal pensiero, decantata, analizzata, ed elaborata. Scrivere qui aiuta a ripensare con maggior distacco al vissuto di ogni giorno, o a quello del passato, a dargli un senso a volte, e anche a sentire che in qualche modo lo domini e lo amministri, lo hai in tuo potere.
Leggere gli altri ti evoca alla mente episodi sepolti sotto la polvere mnemonica degli anni, episodi magari anche di scarsa rilevanza, frivoli o dolorosi, divertenti o penosi, e ti fa venire voglia di ritirarli fuori e dire: "Ma guarda un po': anch'io!".
E poi a volte ti fa guardare le cose fuori di qua con altri occhi, ti fa riflettere mentre le vivi, ripensando a osservazioni e opinioni scambiate qui, che se no tu non ti ci fermeresti mai a pensare, ché siamo tutti un poco schiavi del nostro modo di pensare, abituati al fatto che sia così, dopo tutti quegli anni passati a costruirci con fatica un'identità, fatta di opinioni e posizioni, che alla fine non le metteresti neanche più in discussione, le dai come acquisite.
E invece no.
Si sente il bisogno di una propria evoluzione
sganciata dalle regole comuni
da questa falsa personalità.
E chiedo perdono, se cito sempre gli stessi autori, ma che volete, ognuno ha i suoi guru.
Detto questo, tenterò di arrivare al punto.

Vado al mercato con mia figlia, il sabato mattina: possibile che io non riesca mai a combinare niente di mattina? Tra sveglia, pappa, caffè, lavare e vestire me e lei, rassettare un poco casa con lei che mi si avvinghia al polpaccio urlando "Memme memme! (ora è in fase "e"), alternando un Valzer del "moscerrrino" a "I due liocorni", tentando di distrarla con la piscina gonfiabile mentre finisco di espletare alle mie abluzioni quotidiane, dovendola andare a ripescare zuppa e vestita, dalla piscinetta gonfiabile in cui ha appena compiuto una letterale "full immersion". In appena due ore riusciamo ad essere pronte e lei già è stanca per uscire, ma non demordo: passeggino e via, tanto per fare due passi eh? Niente shopping mercatistico che non ci serve niente, e non abbiamo i soldi, e la roba non sappiamo neppure dove metterla in casa.
E allora, mentre ci avviciniamo al piazzale del mercato e il via vai di gente si fa  via via più fitto, mi capita di incrociare "quella tizia" e di sorprendermi a pensare: "Io non ci andrei mai in giro vestita così".
Ah ah! Beccata! In flagranza di reato. Non eri tu che ti consideravi al di sopra di queste cose "da donna"? Eh, no , mia cara, non sei immune neppure tu, allora.
Che ne dici, magari "quella tizia" incrociandoti potrebbe pure aver pensato: "Mamma mia, guarda questa come si è vestita. Io non ci andrei MAI in giro vestita così".
E allora, chi se ne frega? A chi può fregare come ti vesti? Che ognuno esprima la sua personalità come meglio vuole e crede.
O non è pure questo considerarsi superiore a queste guerre tra donne, indice esso stesso del fatto che ne sei parte, che ne sei schiava?
Forse finché continuerò a volermi considerare "diversa", al di fuori da quei meccanismi, questa non sarà altro che la conferma al fatto che mi ci sento dentro, e allora cosa ci sarebbe di male? Non sono forse io una donna? Perché questo accanimento a voler sottolineare che "non sono come la maggior parte delle donne"? Che da piccola non guardavo quelle sfigate Candy Candy e Georgie ma al massimo Pollon e Carletto il principe dei mostri e non giocavo con le Barbie ma sbavavo dietro al castello dei Masters del mio amichetto Pierluigi? Che volevo un figlio maschio perché le femminucce, che palle, son tutte smorfiose e un po' stronzette? Che io quando uscivo con gli amici uscivo per divertirmi e fare un po' di casino e non mi mettevo mica in tiro, io, ché non dovevo rimorchiare nessuno, ché non avevo bisogno di sentirmi apprezzata dai maschi per alimentare la mia autostima. Che quando vado al mare non ci vado certo per la tintarella e chi se frega se ci ho un po' di panza e maniglie dell'amore (un po' o un po' tante). Perché io sono superiore. O almeno mi convinco di ciò.
Dunque sono schiava del pregiudizio.
Perché accettare passivamente quella coloritura negativa che si accompagna spesso all'essenza femminile? Sono io stessa vittima del mio pregiudizio, e quel che è peggio è che nella mia presunzione di esserne immune non lo vedo nemmeno.

Ok, incrocio altra gente: "Guarda che facce arcigne queste. Oh, ma distendetevi un po'! Rilassatevi mannaggia! Sorridete che c'è il sole in cielo e si sta da Dio stamani".
E poi penso: "Ma tu, vista da fuori come sei? Sei sempre gioviale e sorridente? Eh, no cara. Da fuori sei spinosa e scostante, e non so se e quante volte al giorno sorridi per strada ai passanti, che non si sa mai, potrebbero prenderti per un'adescatrice di uomini o, peggio, di bambini, o per una scema che ride senza motivo: -Cacchio avrà da ridere quella lì, con quella faccia da ebete."

Ecco un'altro drappello di gente: parata di passeggini con dentro bimbi intenti a masticare giochini di gomma o a indicare le stoffe colorate che pendono dai tendoni dei banchi, e suoni di lingue diverse dalle mie e volti sereni che ridono e parlano ad alta voce. Come siamo uguali nella diversità. Ovunque si ride e si scherza allo stesso modo, anche se si usano parole e gesti differenti. E i bambini nei passeggini fanno esattamente le stesse cose che fa mia figlia, anche se sembra che siano sempre un po' più tranquilli e non rompano le rotule come lei, ma magari invece no: saranno proprio come lei.
"Ma quanto chiaccherano queste, senti come strillano" fa una signora passando, riferita al drappello di donne con passeggini vocianti.
E allora mi chiedo, ancora: cos'è che ci mette così accanitamente le une contro le altre? Cos'è che ci fa continuamente osservare, giudicare, disapprovare "quella lì"?
Perché, donne, facciamo così?
No, perché credo che gli uomini in questo siano in generale più clementi con i propri simili, e se proprio devono proferire un giudizio lo fanno più volentieri, anche loro, su un'esponente del sesso opposto, lusinghiero o offensivo che sia.
E allora, se la smettessimo di confrontarci, screditarci, giudicarci, e per contro, sentirci giudicate? Perché magari nessuno ci giudica, ma se pure lo fa, chi se ne frega? Non stiamo bene noi con noi stesse? Non vi è mai capitato di strappare un sorriso di simpatia alle altre persone facendo qualcosa di insolito, magari qualcosa che lì per lì potrebbe risultare sconveniente o strano? Tipo parlare ad alta voce con vostra figlia nel passeggino e rispondervi pure da sole come una matta?
E' bello poter fare la differenza, senza stare a pensare come la cosa può essere recepita dagli altri.
Forse stiamo troppo sulla difensiva, noi donne. Forse noi mamme siamo ancora più sulla difensiva delle altre donne che non sono mamme. Forse ci sentiamo ancora più sotto il torchio del giudizio, eppure ci viene spontaneo e facile giudicare a nostra volta madri che non fanno come noi, anche senza malizia, si intende.
Io ho allattato, però fino a due anni mi sembra esagerato!
Io non ho allattato e non mi sento meno madre per questo!
Io allatto ancora mia figlia di tre anni, e rivendico il diritto di farlo per tutto il tempo che mi pare e piace!
Io non capisco quelle madri che lasciano i figli tutto il giorno all'asilo.
Io non concepisco quelle madri che si annullano per i figli.
Io non rinuncio alla mia identità di donna per essere madre.
Io non accetto chi mette il lavoro prima della famiglia.

Chi non è pronto a fare sacrifici sarebbe meglio che non faccia figli.

Io non capisco chi sceglie di fare un figlio e poi si lamenta perchè è stanca.
Io sono madre e rivendico il diritto di essere stanca.
"Le altre" non possono capire cosa vuol dire avere un figlio.
Guarda queste, fanno un figlio l'anno e non possono nemmeno mantenerlo.
Mettere al mondo un figlio senza sicurezza economica è da irresponsabili.
Mettere il benessere economico prima dei figli è da egoisti.
La gente ormai prima dei quaranta non fa figli.
Un figlio a vent'anni? Io non lo farei mai!

Io dico: che ognuno viva la sua vita e i suoi passaggi più significativi come meglio si adatta alla sua indole e al suo modo di essere.
Io dico che forse dovremmo sforzarci di giudicare meno e provare a immedesimarci di più in una vita diversa dalla nostra.
Farci accettare dagli altri per come la viviamo, mostrandoci senza timore di essere additati e biasimati è aiutare anche gli altri ad ampliare il proprio sguardo e uscire dai propri schemi mentali.
Che poi non è detto che la strada che abbiamo scelto noi sia la migliore in assoluto. E se invece non lo fosse? E se invece ci sbagliassimo?
E se quella signora arcigna oggi si è svegliata male perché ha un fratello all'ospedale e le è morto il cane ieri? E magari è una pasta di donna.
Che questo sia un promemoria prima di tutto per me.
Come al solito pensieri un po' alla rinfusa, non so se si è capito bene.
E comunque, nel web mondo, ho preso spunto da qui.
Io rimango sempre un poco fuori dal circuito, poco informata e sempre in ritardo: non partecipo, ma traggo ispirazione. Anche perché non riesco a tenere il filo. Ve ne sarete accorte.
Loro invece sì. Di quelle persone di cui vi parlavo prima, quelle mai viste e conosciute ma che mi piace ascoltar pensare, quelle blogger che sono anche loro donne e che mi suggeriscono sempre interessanti occasioni di riflessione, rimando agli articoli che mi hanno evocato questa.
Prendetevela con loro dunque.

Mamma è in pausa caffé: un grazie per le donne.
Cuor di carciofo: donne per donne. Provo a dire la mia.