Visualizzazione post con etichetta mio padre. Mostra tutti i post
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mercoledì 4 marzo 2015
Oggetti della memoria.
Abbiamo messo una foto sulla lapide.
Abbiamo scelto una foto per la lapide.
Sono passati più di dieci anni, ormai, e alla fine, sì, alla fine, complice la morte, di recente, di un mio anziano zio, il più grande dei suoi fratelli, ci siamo risoluti a mettere questa foto sulla lapide.
Un tempo, forse, questa cosa, di scegliere la foto per una lapide, mi avrebbe rattristato.
Chissà. Ora non ricordo. E' passato tanto di quel tempo che proprio non riesco a farmi un'idea di quale potessero essere i miei sentimenti a riguardo, ma provo a ricordare, o ad immaginare; quel che ricordo è che la morte mi sembrava, fino a qualche tempo fa, una cosa ben distinta e divisa dalla vita.
E ora? Ora forse non la vedo più così.
sabato 2 novembre 2013
Memoria familiare.
In rete a volte nascono dialoghi. Frammentari, va bene, il più delle volte insulsi.
Però capita anche la volta che per caso ti imbatti in un momento di riflessione profonda di qualcuno e ti infili sulla sua lunghezza d'onda. E ti accorgi che quello che vorresti poter dire è assai più di quanto sia possibile e lecito postare su una bacheca altrui di Facebook.
E allora apri il blog e clicchi: nuovo post.
Poi fai un respirone e ti auguri che tutti continuino a dormire per almeno un'altra mezz'oretta, il tempo sufficiente per dire quanto ti preme, in questo giorno che nasce grigio e piovoso, e si tira dietro umori di melanconia e un fondo di inquietudine esistenziale.
Di fronte alla morte ho sempre assunto atteggiamenti di forte pudore.
Come molti della mia generazione non l'ho mai avuta in gran familiarità, e detestavo le rituali andate al cimitero, a "far visita" a gente morta che per lo più non avevo mai conosciuto.
Ancora oggi non vado volentieri a "trovare" mio padre al cimitero. Vuoi per la difficoltà logistica della cosa, vuoi perché il luogo dove il suo corpo giace, così spersonalizzato e lontano da ogni fermento di vita presente mi trasmette un senso di desolazione e smarrimento. Saperlo lì mi rattrista, e allo stesso tempo non sento la necessità di far visita a quel che resta di ciò che fu, un tempo, il suo corpo.
Però capita anche la volta che per caso ti imbatti in un momento di riflessione profonda di qualcuno e ti infili sulla sua lunghezza d'onda. E ti accorgi che quello che vorresti poter dire è assai più di quanto sia possibile e lecito postare su una bacheca altrui di Facebook.
E allora apri il blog e clicchi: nuovo post.
Poi fai un respirone e ti auguri che tutti continuino a dormire per almeno un'altra mezz'oretta, il tempo sufficiente per dire quanto ti preme, in questo giorno che nasce grigio e piovoso, e si tira dietro umori di melanconia e un fondo di inquietudine esistenziale.
Di fronte alla morte ho sempre assunto atteggiamenti di forte pudore.
Come molti della mia generazione non l'ho mai avuta in gran familiarità, e detestavo le rituali andate al cimitero, a "far visita" a gente morta che per lo più non avevo mai conosciuto.
Ancora oggi non vado volentieri a "trovare" mio padre al cimitero. Vuoi per la difficoltà logistica della cosa, vuoi perché il luogo dove il suo corpo giace, così spersonalizzato e lontano da ogni fermento di vita presente mi trasmette un senso di desolazione e smarrimento. Saperlo lì mi rattrista, e allo stesso tempo non sento la necessità di far visita a quel che resta di ciò che fu, un tempo, il suo corpo.
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mercoledì 29 agosto 2012
Eredità.
In questi giorni sono stata piuttosto occupata ad autocommiserarmi, poi a un certo punto sono riuscita a concludere, ed eccomi ritornata più o meno in me. Diciamo che poi quando i guai arrivano arrivano a grappoli, come le bombe che fanno più danno, e se non li vogliamo proprio chiamare guai, chiamiamoli problemi, e se problemi non vogliam proprio chiamarli, allora chiamateli pure pensieri, chè di pensieri ce n'è sempre, e se non ci fossero, guai, che ci s'imprigrirebbe il cervello.
E poi a nessuno piace sentire altri lamentarsi, ché ognuno ne ha abbastanza già dei suoi
Quindi mi son detta: orsù, o qualcosa del genere, chè non son mica nata nell'800, io , anche se poco ci manca a giudicare da come mi esprimo a volte, cosa ho da rimuginare tanto?
Si sa che ciascuno è artefice del suo destino, e così io; piangersi addosso, a che pro?
Ora apro il blog e scrivo, riprendo uno di quei post iniziati secoli or sono e mai finiti (ecco, forse nell'800 devo aver cominciato questo: "Eredità", che ci volevo scrivere poi, chissà. No: Carlo Conti non c'entra. Mah!).
Ecco come cominciava: Apro il post con una foto non a caso, chè è proprio di questa foto che volevo parlare, o meglio, è questa foto che mi ha dato lo spunto a scrivere oggi.
Lasciamo stare la mia terribile felpa, che non è del modo in cui venivo, ahimè, vestita da piccola che ho intenzione di parlare qui, anche se, uh, se ce ne sarebbe da dire!
Come al solito grandi divagazioni per dire infine che la pupa aveva iniziato a sillabare con la vocale "o", e faceva un mucchio scompisciare, ché la pronunciava tutta chiusa, serratissima, e diceva tipo "o" con la dieresi (come si fa a fare con la tastiera italiana) e ne usciva fuori un bizzarro "nonno", che poi era l'uomo che vedete in foto, insieme a me piccola imbronciata, ché da piccola uscivo spesso imbronciata in foto, forse perché ero spesso imbronciata, chissà.
E a me questa cosa mi aveva profondamente toccato qualche tasto profondo dell'anima, se posso dire commosso lo dico: mi aveva un poco commosso, che la pupa, dico, dicesse "nonno" indicando la foto, pur non avendolo mai conosciuto in vita sua e pur sapendo io che mai l'avrebbe potuto conoscere, non di persona almeno, ma solo per voce riportata.
E allora tante cose mi tornavano in mente. Mi tornavano in mente i giorni tristi, terribili di pianti e pensieri spauriti sul futuro, quando pensavo che lui a breve non ci sarebbe più stato, perchè la malattia se lo mangiava, e c'erano alcuni pensieri che più degli altri mi facevano male, ed uno di questi era che i miei figli non avrebbero mai conosciuto il loro nonno, che i miei figli non lo avrebbero mai conosciuto, che a loro sarebbe mancata in fondo questa eredità spirituale, questa continuità generazionale, e questa cosa mi faceva molto male.
Oh, io ce lo vedevo mio padre come nonno!
Mio padre che non ha fatto mai giochi scalmanati con noi, o di gran fisicità, come per idea comune ci si aspetta dai padri.
Mio padre che annotava i particolari della vita e ci sottoponeva indovinelli sulle piccole cose del quotidiano. Secondo te cos'è quella striscia più scura che corre lungo il muro a mezzo metro da terra? Era il cane peloso del vicino, che tutti i giorni usciva proprio da quell'apertura del garage e seguiva proprio quel percorso lungo il muro, poi tornava indietro, e nel tempo aveva lasciato la sua bella scia di grasso sebaceo.
Mio padre che inventava soluzioni personali ai problemi di ordine pratico, che a volte rasentavano la bizzarria, come quell'oblò che volle montare sull'uscio di casa...
Mio padre che trasferiva nella sua vita reale i principi in cui credeva, ma mio padre che prima di credere a un principio, guardava alle situazioni reali, che ai principi di massima mai corrispondono.
Mio padre che non amava le smancerie, che non amava sprecare parole, che liquidava i discorsi che riteneva inutili con un'infastidita alzata di spalle, e che in generale tendeva a rifuggire le occasioni di vita mondana, a conti fatti finendo per essere piuttosto orso.
Mio padre che se era invitato ai matrimoni metteva la giacca a scacchi beige, la cosa più elegante che mai gli avessi visto indosso, ma che in linea di massima riduceva il suo abbigliamento a una camicia e al solito giubbotto smanicato con le tascone sul davanti.
Mio padre che sapeva azzerare i miei patemi d'animo dando sempre la risposta più semplice, che in genere era quella che avevo bisogno di sentire, e che non avevo voglia di mettere in pratica, ma lo facevo.
Mio padre che aveva mantenuto integra la fantasia e la creatività di un bambino, era in effetti un po' genialoide, ma come tutte le persone un po' geniali, difettava nella comunicazione e nella partecipazione altrui ai propri progetti.
Mio padre che non andava mai a parlare con i docenti e lo riteneva un supplizio, e che una volta mi firmò una risposta a una convocazione della mia professoressa di greco che diceva: "Come se fossi venuto. Dite pure alla ragazza.", cosa che mandò lei su tutte le furie.
Questo e poi tanto altro, come c'è da aspettarsi, ché una persona è sempre fatta di tante cose, e descrivere in pochi tratti essenziali non è mai stato il mio forte, io che divago e per parlare di una cosa faccio prima mille giri e arzigogoli mentali e verbali, e la memoria poi non aiuta, che si riduce una persona a una serie di immagini accavallate, di ricordi episodici, aneddoti che tu ritieni esemplari a spiegare chi fosse quella persona, la cui memoria vorresti tenere viva ma non ci riesci poi mai del tutto, perchè ti sfuggono le espressioni a mezza bocca, gli sguardi, i silenzi al momento giusto.
Come quando, d'improvviso, mi sono sentita come chi porta avanti una conversazione e si ritrova a un tratto con il ricevitore in mano, muto, e non ha più modo di rintracciare l'interlocutore, perché non ha più il numero, e non lo ha l'altra persona, e la conversazione allora è destinata a rimanere così, tronca, per l'eternità. Era questa la sensazione: una comunicazione interrotta, per sempre, tante parole dette, tante esperienze, tanti ricordi comuni, luoghi visti insieme, discorsi fatti e lasciati a metà, ripresi, continuati su carta, a voce, rimandi ad altre cose dette, riferimenti a persone note, vecchie battute, sempre riesumate, lettere scritte, ricordi di quando, ricordi quando ti dissi, secondo te cosa è meglio, sai cosa mi è successo, sai cosa ho letto, lo sai che in quel posto, ricordi quando andammo.
Quella complicità che affiorava a tratti, e mi rendeva piena e sicura di un nostro rapporto esclusivo, i pochi messaggi di lui sul cellulare, criptici, come massime di vita, ancora li ricordo: "Anche buttarsi in acqua per salvare qualcuno è rischioso". Tutto finito, tutto inutile, materiale ingombrante della memoria, ormai senza destinatario, a senso unico, ed era molto destabilizzante.
E spesso mi dico che non potrò mai trasmettere a lei il ricordo che ho di lui tutto quanto, che nella trasmissione si perde il contatto diretto, e come al solito non so nemmeno da che parte cominciare.
Anche quando mi dico che lei, in fondo, lo conoscerà anche attraverso quel che io sono, più che da quel che io racconto, poi mi chiedo cos'è che è rimasto in me di lui, quale reale eredità.
Forse la mia insofferenza per le discussioni infinite? La mia intolleranza idiosincratica per la banalità, i cliché, le situazioni tipo? I pantaloni di velluto a costine? I capelli crespi, gli occhi azzurri? La tendenza a vagare per luoghi sperduti alla ricerca di quello che pochi conoscono? La predilizione per le strade secondarie, per i percorsi non convenzionali, nella viabilità come nella vita? La sensazione di essere sempre "fuori", fuori dai ranghi? Quella sua consapevolezza un po' presuntuosa di estraneità al modo di essere standard?
Ma lui lo sapeva fare meglio, somigliando a se stesso senza inutili confronti con altri. O almeno così credevo io.
E così, sarà che ultimamente avrei avuto tanta voglia di parlare con lui, che mi desse ancora una volta la risposta più semplice di tutte, quella che in fondo già conoscevo, ma che mi aspettavo mi dicesse lui, sarà che è stata un'altra estate di attesa, come quell'altra, tanti anni fa, e c'erano le olimpiadi anche allora, e un Italiano vinceva la Maratona, e faceva caldissimo, come questo maledetto, maledettissimo agosto infinito.
Divento malinconica. Mi chiedo come sarebbe stato.
Sicuramente sarei cresciuta meno.
Questo vantaggio portano almeno le sciagure della vita, o le difficoltà, se vogliamo, che ti fan crescere.
E cerco di darmi da sola la risposta più semplice, e porto avanti il ricordo di lui, o quel che ne resta in me, che non somiglia mai a quello che hanno altri.
- Mi 'acconti la ttoia di nonno Mauo?
- Va bene. Nonno Mauro aveva un furgoncino rosso, e quando partivamo entravamo tutti nel furgoncino rosso, e zio Ciccio lo chiamava Il tutù, perché gli sembrava un trenino. E andavamo tutti carichi carichi in giro per l'Italia, con tutte le valigie sul tetto del tutù. Anzi, prima ancora aveva una macchina azzurra vecchia vecchia, e noi bambini stavamo nel bagagliaio, che era grande, e ci stendevamo una coperta per giocare, mentre viaggiavamo, poi quando eravamo stanchi dormivamo.
- E cosa cantava nonno Mauo?
- Cantava Sol soletto vola il pipistrello e Il più bel fiorellin del mondo.
- Poi la cantone della bicicletta-cletta-cletta?
- Sì, anche quella. Quella l'ha inventata lui, eh. E' bellissima quella canzone.
- Tì: è popio bellittima quella cantone! E poi?
- Poi...
lunedì 15 agosto 2011
mercoledì 15 giugno 2011
Rimettendo tutto a posto.
Ok, questo sarà un momento serio.
Uno dei rari momenti seri, a cui né io né tanto meno voi siete abituati, quindi, in caso non ne abbiate voglia, lasciate stare.
Da un po' di tempo c'è un pensiero che mi insegue a intermittenza.
Sto lì lì per, poi lascio stare.
Perché esporsi? Perché sbandierare come a Carramba le proprie emozioni più intime?
Però mi sembrava mi inseguisse, davvero.
Prima ho conosciuto Giuppy ed Ele, e ho trovato questo post. E poi, se mi è concesso, anche questo.
Poi mi sono imbattuta in questo di Gnappetta.
Ho conosciuto Owl, e anche da lei ho trovato questo scritto.
E ancora, questo, di Tri mamma.
Di recente la notizia della morte del padre di un'amica di infanzia mi ha portato a ripensare a quei momenti. Di attesa incerta. E ora, cosa accadrà? Non era molto chiaro, all'epoca.
Basta: rimettiamo un po' di cose a posto, che questa casa è un casino.
Ecco: guarda qui, questi quaderni mezzi scritti e mezzi no. Appunti dei miei corsi universitari. Che me ne faccio? Conoscendomi, li tengo per poter utilizzare le pagine ancora vuote.
Potrei strapparle e farne un bloc notes.
E poi, mentre sfoglio, mi capita tra le mani un quaderno di sette anni fa.
Non erano appunti universitari. Erano riflessioni.
E allora ho pensato di trascriverla qui, trovata in un quaderno di sette anni fa, rimettendo tutto a posto.
Non è mettere in piazza il dolore. E' condividere un ricordo.
Anche se poi forse mi pento. Ma ciò che proprio non vorrei è lasciar morire i ricordi.
E poiché ora non mi sento capace di scrivere e ricordare, li raccolgo da allora.
Non ci azzecca nemmeno con il tempo e la stagione, ma così: si è lasciato trovare.
7 ottobre 2004
Caro babbo,
sono tornata a casa.
Casa: mai come questa volta sento davvero di essere a casa. L'aria che si respira qui, il cielo, le vedute del sole che tramonta coi suoi raggi obliqui sulla mimosa e sugli altri alberi che mi fanno pensare a te, i colori di questo autunno appena agli inizi, così dolce e ancora più triste del solito, perché spazza via a ondate progressive anche gli ultimi ricordi di questa estate sofferta, ma pur con te, l'ultimo tempo della nostra vita in cui tu eri ancora presente.
Quanta calma sento dentro quando guardo quei prati al tramonto, dove un tempo, neanche tanto tempo fa, ero abituata a vedere te, tra le tue piante.
E io che per tanti anni mi son sentita tanto inquieta, ora ritrovo questa calma proprio quando tu non ci sei.
Perché qui mi pare di averti più vicino, in questo ambiente familiare in cui tutto mi parla di te.
Non ho mai amato tanto questa stagione. E ho sempre preferito vedere un'alba a un bel tramonto. Le prime foglie secche erano per me una stretta al cuore, e mi son sempre chiesta perché dovessi esser nata proprio in questo mese di ottobre, a festeggiare la mia venuta al mondo proprio quando la natura si prepara ad indossare il suo abito di morte apparente.
Ora non è più così. Penso che il fatto di esser nata in questa stagione abbia influito su quell'aspetto di malinconia e ombrosità che c'è nel mio animo da sempre, la paura che il tempo passi prima di poterne godere, che le cose finiscano prima di essermene saziata, la tristezza di veder morire una cosa bella senza poterci fare niente.
Questo sentimento mi ha accompagnato fin da quando ero piccola. Questo senso di inadeguatezza alla vita, di cui ti parlavo.
Perché la vita è morte, anche, e questa realtà che tutti conosciamo, spesso non amiamo prenderla troppo in considerazione, forse pensiamo che non ci riguardi, e, in fondo, perché preoccuparsene anzitempo?
Eppure il tempo che passa ci spaventa, e il susseguirsi delle stagioni ci stringe il cuore e ci serra la gola, ci fa sentire la finitezza del tutto come una lunga agonia. È stato quest'anno che mi sono accorta di amare questa stagione lenta e fatale.
E' stato solo dopo averti perso, tu, che sei stato una presenza così grande nella mia vita che ora mi sembra di vivere mutilata di un pezzo di anima; è stato solo dopo aver perso te che ho intuito la bellezza incomparabile di quei pochi minuti di attesa prima che il sole lasci il nostro emisfero tirandosi appresso lo strascico delle ultime luci crepuscolari. Solo ora godo la dolcezza di queste serate autunnali ancora memori del caldo e della luce estivi, ma coi loro raggi sempre più inclinati e quel senso di precarietà che ti mantiene consapevole del fatto che sono le ultime da passare in terrazza a guardare il cielo arrossarsi, che ti fanno sentire il desiderio di godertele ora, che ti sfuggono tra le dita scorrendo via sempre più brevi, perdendo di giorno in giorno minuti preziosi di sole, che prima si stiracchiava pigro invadendo le ore della notte, quelle tiepide notti estive quando la gente non aveva voglia di tornare a casa a dormire.
Quanto sono più preziosi questi momenti che sai essere gli ultimi?
Come un memento che si rinnova di continuo sotto i nostri occhi, dicendoci di vivere, vivere e soffrire, vivere e sapere di vivere, e di star vivendo gli ultimi momenti del nostro tempo nell'eternità.
Ancora non riesco a credere che tu sia finito qui, a questo punto incerto della mia vita, nonostante io abbia assistito alla tua lunga malattia, alla tua morte, poi.
Ma nei miei pensieri ti affacci sempre come eri prima, col sorriso di quando avevi appena detto una spiritosaggine o un'osservazione pungente su qualcuno, pieno di forza e di vita e di voglia di fare, di vedere, di conoscere.
Tu, per me, il mio riparo da quel mondo ostile che volevo conquistare ma che poi a volte mi prostrava. Allora bastava prendere il telefono, e chiamarti; rispondevi: "Eh!".
Ora è mattina, e c'è aria di casa in autunno, quando si era all'inizio dell'anno scolastico e ci si svegliava sempre più sonnolenti di giorno in giorno, perché il sole era sempre un po' più in ritardo. E i diari erano nuovi e ancora troppo bianchi, e correvamo per comprare e vendere libri usati, e quando pioveva mi facevo accompagnare da te in macchina ed eravamo sempre in ritardo.
Gli stessi odori della casa, dell'aria un po' più pulita e pungente che in estate, della mattina a colazione, la stessa atmosfera di un mondo che ci appartiene.
Come posso farmi una ragione che in questo tutto manchi qualcuno di così centrale, così importante, così caro?
Quando, dopo l'estate, sono ripartita, tu non mi hai accompagnata alla stazione.
Anche quei momenti avevano la stessa silenziosa malinconia di una giornata d'autunno. Andavamo alla stazione, tu mi accompagnavi, in macchina, ed era sempre tardi.
Parlavamo, lungo il percorso; io facevo come se niente fosse, ma dentro il cuore batteva più forte, come per tentare di superare in velocità le lancette dell'orologio e spingere il motore dell'auto a seguire quel ritmo. Da una parte il treno che partiva, dall'altra tu, che restavi, e gli ultimi minuti per parlare. Presto che perdiamo il treno. Ma in realtà avrei voluto e stare ancora un po', attardarmi...
Anche stavolta il treno è passato lungo la costa, e ho visto il sole tramontare sul mare.
Sentivo il cuore strapparmisi e venivo trasportata sempre più lontana dal tuo ricordo, da quelli che ti amavano, verso un mondo che ti ignorava, e ignorava il mio dolore. Gli amici lo avrebbero rispettato, ma in silenzio, evitando di parlare di te, nessuno però avrebbe capito.
Davanti a quel tramonto ho pensato che mi sarebbe piaciuto ritornare in quei posti per vederli insieme a te, in uno dei tanti nostri viaggi, come sempre capita di fronte a qualcosa di molto bello, che ti vien voglia di condividerne con qualcuno le emozioni.
E poi subito dopo la consapevolezza che tu ed io d'ora in poi siamo separati in due dimensioni diverse, e il baratro nerissimo di non vederti mai più, di non poter più condividere quei tramonti sulla costa, mi ha ingoiato, e sono morta anch'io un pezzettino.
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