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venerdì 20 marzo 2015

Insegnare a imparare e imparare a insegnare.


Parto da qui, dalla proposta di Genitoricrescono per questo mese: Imparare ad apprendere.
Mi incuriosisce e vado a leggermi l'articolo.
Come sempre riescono a stupirmi per l'acume e la lucidità con cui affrontano temi spesso triti e abusati, ma questa volta rimango un poco perplessa: l'argomento a prima vista mi appare trasversale e un po' troppo ricercato; non mi pare di avere molto da dire su questa faccenda, però... però, come spesso accade, gettato il seme si attende il germoglio, il seme è stato gettato, e da quello iniziano a tornarmi alla mente una serie di considerazioni, episodi, momenti che in qualche modo si dipartono tutti da quella stessa radice: la radice della parola "educare".
Educare all'ascolto.
Educare al bello.
Educare al vivere sociale.
La usiamo continuamente, e accorpa una varietà di aspetti vastissimi, tali da ricoprire l'universalità dello scibile e dello sperimentabile.
Ex-dùcere, condurre fuori, è un affare ben diverso dall'insegnare, questo lo sappiamo ormai: non è "imprimere un segno", è un "tirar fuori", è un eviscerare, non è un mettere, è un'estrapolare.
Compito dell'educatore dovrebbe dunque essere quello di aiutare lo sviluppo delle potenzialità dell'educando, che è operazione assai più complessa che quella di riempire di nozioni (che siano didattiche, etiche o comportamentali) una scatola cranica più o meno vacante.

mercoledì 5 giugno 2013

Incontri ravvicinati del V tipo*.

* Incontri bilaterali posti in essere tramite iniziative umane coscienti, volontarie ed attive, o tramite la comunicazione cooperativa con intelligenze extraterrestri.




La prima volta che ebbi modo di entrare in contatto con loro fu quando Mimi si approssimava a iniziare il suo primo anno di nido.
Allora ne isolai alcuni esemplari la cui osservazione ritenni di enorme interesse scientifico e antropologico, ma data la difficoltà di interazione che provavo nei loro riguardi, non riuscii a tirarne fuori un campionario strutturato, né a cogliere i nessi relazionali che correvano tra i diversi esemplari, il come e il perché si riunissero e si disunissero in gruppi più o meno omogenei di individui, il come il dove e il quando riuscissero a intessere relazioni più intense del semplice buon giorno e arrivederci dal quale io non mi schiodavo, e per finire non riuscivo nemmeno a giungere a una conclusione sull'opportunità o meno di approfondire in questo senso la mia conoscenza-dimestichezza col loro mondo.

E' andata avanti così per un annetto.
Io li guardavo a distanza, ritenendoli degli strani esseri che, pur vivendo la loro esistenza in parallelo alla mia, in qualche modo lo facessero per altre vie, degli esseri con i quali ogni forma di comunicazione "superiore" o intesa emotiva era destinata a rimanere interdetta.
Intrattenevo qualche sporadica conversazione che piano piano mi lasciò intravedere spiragli insperati di intesa, e, forse, di normalità.
E' che forse ero partita troppo prevenuta.
Forse non ero ancora entrata abbastanza nel ruolo e tra di loro mi sentivo più un'intrusa, un'infiltrata, una clandestina, che un membro effettivo del gruppo.
Io NON ero per davvero un genitore.
Ero un quasi-genitore che ancora non si dava ragione di esserlo, e mi chiedevo ancora se fosse il caso di autodefinirmi così.
Ero una che aveva una figlia piccola, ecco.
E per forza di cose era costretta a frequentare, pur se di striscio e alla chetichella, luoghi in cui si trovavano dei GENITORI.

Conoscevo però per nome tutti i loro figli, tutti i 23 compagnucci di Mimi della classe "medi" più qualcuno dei piccoli e quasi tutti i grandi. Li salutavo chiamandoli per nome e proseguivamo spesso discorsi lasciati a metà nella confusione del "arriva-svesti-cambia-metti e togli le scarpe-saluta-vai via" come per esempio: "Oh, Pietro, ma oggi dove l'hai lasciato il dinosauro?" "Matilde come sei elegante oggi!" e ne ricevevo a volte occhiate storte da "I genitori", altre volte espressioni sorprese o sorrisi inaspettati. Se per caso li incontravo per strada, loro, i bambini, mi riconoscevano e mi salutavano anche: "Ciao, mamma di Yasmin!", ma in quanto agli altri, "I genitori", non avrei saputo dire il nome di uno solo. Né mi era mai venuto in mente di chiederlo. Mi sembrava quasi un tabù. I genitori non devono avere un nome: basta che siano la mamma o il babbo di Federica/Emma/Lorenzo. Che importa? Cioè: che mi frega?

Poi la svolta, inattesa.
L'estate, e con l'arrivo di lei, l'arrivo anche di una nuova consapevolezza: l'arrivo di una nuova vita. Dentro di me.
La città deserta e un agosto che ce l'ha messa tutta per stenderci a tappeto, tutti quanti, agonizzanti, implorando pietà pietà!
Lei era una de "I genitori", aveva una bimba in classe con la mia e un'altra di pochi mesi.
Frequentavamo il giardino pubblico, per sopravvivere alla calura, nel tardo pomeriggio.
Ci incrociavamo, ci salutavamo, ci sorridevamo. La guardavo con la coda nell'occhio, lei alzava lo sguardo, risorridevo e distoglievo il mio. Avrei voluto, non osavo però.
Lei mi sembrava sulle sue. Forse anche io lo sono sempre sembrata.
Mi era simpatica però, a pelle, e ne cercavo la vicinanza. Mi sembrava di pedinarla, ma per un certo periodo, dovunque andassi, capitava di incontrarla.
Alla fine, conversando del più e dell'immancabile meno, le confido il mio "segreto". Lo sai che... anche io starei aspettando la seconda...
E dovevo avere una pessima cera, ero stanca e avevo le nausee. Avevo caldo, stavo male.
Mimi intanto raccoglieva fiori nelle aiuole. Lei la vedo piacevolmente sorpresa e lusingata della mia confidenza. E' scattato qualcosa, sì.
Poi l'inverno. Io col pancione crescente, lei in maternità. Il primo caffè insieme, ed ero titubante come un'adolescente a un primo appuntamento. Sarò inopportuna? Sarò una piattola? Avrà accettato per cortesia?
Un periodo per me un po' difficile, di scelte, cambiamenti: le mie confidenze, le mie paure, le mie disperate ricerche di casa (la starò ammorbando? Le sembrerò idiota?).
Invece suoi consigli, la sua partecipazione, la sua comprensione.

Una domenica di dicembre accogliamo l'invito ad andare a uno spettacolo di burattini a teatro, in centro,con le bimbe, e poi: perché non venite a cena da noi? Abitiamo qua dietro.
Ecco, era fatta. Due coppie con figli coetanei, a chiaccherare piacevolmente.
Ed eccoci a scambiarci ricette per il pane, salse piccanti, vestitini da neonato e sdraiette per il bagno, marsupi e sformati abiti pre-maman, a mandarci messaggini per incontrarci ai giardini con le bimbe, messaggini sulla riuscita del pane, ed ecco i nostri uomini contattarsi e mettersi d'accordo per andare a pesca insieme, ed eccomi inclusa nella lista di quelli che andranno alla festa di compleanno.
Era tutto vero?
Avevamo davvero fatto amicizia con dei "genitori"?
Eravamo dunque pure noi assurti al rango di "genitori"?

Scoprii pian piano che quegli alieni che a lungo avevo guardato col telescopio da distanze siderali, non erano poi così inaccessibili.
Scoprii che a guardar meglio e avvicinandosi un tantino, ve n'erano di esemplari la cui compagnia trovavo addirittura piacevole, talvolta preferibile a quella dei miei "vecchi" amici senza prole, perché loro  finalmente "capivano".
Scoprii anche che avevano dei nomi propri, oltre al titolo di Mamma-di o Papà-di.
Scoprii che potevo parlare con loro per lunghe mezz'ore fuori dal nido, dopo aver scaricato la pupa, senza che ciò comportasse un dovere sociale, ma per puro piacere.
Scoprii che molti erano simpatici (sì, persino lei: l'avresti mai detto?).
Scoprii che non era vero, come mi ero figurata, che le loro vite fossero troppo dissimili dalle mie per poterci intendere.
Per esempio scoprii che anche buona parte di loro viveva in affitto, che avevano lavori precari, o non ne avevano, che molti possedevano una casa sì, ma che era un bilocale di 40 mq e che pur portando a casa due stipendi non si trovavano in questa condizione di benessere da me supposta tale da render loro incomprensibile una mia difficoltà economica per esempio nel dare i soldi per la gita di fine anno.
Scoprii che potevo parlare tranquillamente di questo senza dovermi sentire una mosca bianca, o, peggio, essere compianta come una pezzente.
Scoprii anche che loro pure avevano i loro dubbi, i loro complessi genitoriali, che anche molti di loro, forse, avevano difficoltà a riconoscersi in un gruppo che dal loro punto di vista vedevano come compatto ed estraneo.
Scoprii che proprio nessuno stava lì a giudicarmi quando la mattina arrivavo trafelata sgommando in bici sotto la pioggia o il vento battenti con lei intirizzita sul suo seggiolino, e faticavo a convincere una pupa recalcitrante e urlante dei suoi terrible two a lasciarsi infilare le scarpine del nido.
Scoprii che lì in mezzo, a mia insaputa, godevo di grande simpatia, e finanche di un certo credito.
Pure se mi pulivo gli occhiali con lo stesso fazzoletto con cui avevo appena pulito il naso a mia figlia, e distribuivo biscotti di straforo senza chiedere il permesso, e a volte mi è capitato pure di soffiare il naso a qualche figlio altrui.
E che era divertente gareggiare ogni mattina con i soliti noti per evitarsi il podio dell'ultimo arrivato del giorno.
Scoprii che qualcuno, come poi mi confessò, mi aveva guardato con ammirazione in più di un'occasione ("Ma come fai ad essere sempre così tranquilla?" Chi, io?).
E mi scoprii a dare informazioni e dritte su questo o quel prodotto, sul portare i bimbi al Museo di Storia Naturale o all'acquario, su complicate trafile burocratiche di cui avevo imparato i trucchi, sulle complesse procedure di iscrizione alla scuola dell'infanzia.
Insomma scoprii che in fondo, non ero mica male come "genitore"!

E mi sono sorpresa a dire: "Dai, speriamo che ce li mettono nella stessa sezione alla materna!"

Quando non l'avresti mai detto.

Oddio... ci ho messo ben due anni, ma alla fine ce l'ho fatta.
Proprio ora che tutto sta per finire...
E mo' mi tocca ricominciare da capo!




E a proposito di genitori... questo mio post cadeva a fagiolo per il tema del mese proposto da GenitoriCrescono per il Blogstorming.
E così, visto che oramai ci ho preso gusto:



giovedì 23 maggio 2013

Tempo di qualità? Sempre.

La prima volta che ne sentii parlare, fu all'interno di un programma televisivo del pomeriggio, di quelli che si chiamano, mi pare "contenitori", nel senso che contengono un mucchio di stonzate, tipo, che ne so, Pomeriggio 5 o La vita in diretta... (Ora tutti crederanno che io sia un'esperta sull'argomento: sob!).

Comunque. Non ricordo quale fosse il tema del giorno, ma ricordo questa tipa, una rampante mamma in carriera o sedicente tale (erano i rombanti anni '90, wow! Oggi madri solo precarie e contratti freelance), e insomma questa tipa andava millantando di aver messo a punto un sistema eccellente per ottimizzare il tempo che trascorreva con i suoi figli, favorendone la qualità.
In pratica questo piccolo genio ordinava tutto il cibo che acquistava per casa a una ditta di fornitura di cibi surgelati a domicilio, in questo modo evitando l'incombenza di doversi recare al supermercato 2-3 volte a settimana, inficiando il prezioso tempo di qualità da riservare ai suoi adorati pargoli, già fin troppo penalizzati dalle assenze lavorative materne.
E insomma, anche allora, malgrado non fossi mamma neppure nell'anticamera del mio lobo frontale, ricordo che pensai: "Ma vaffanculo!" che in pratica riassume ottimamente le mie riflessione che da qui in avanti vi esporrò.


Perché va bene, rampante mamma in carriera o sedicente tale che ami trascorrere coi tuoi figli solo attimi splendidamente memorabili, ci posso pure stare che girare mezz'ora nel parcheggio del supermercato in cerca di un posto auto libero non sia il massimo dell'investimento del tuo tempo coi tuoi figli, ché le file alla cassa metterebbero a dura prova la più amorosa delle genitrici, con le migliori intenzioni del mondo e il più ferreo self-control, soprattutto se i pargoli in questione attaccano la solfa del "mamma-me-lo-compri-quello" e la vecchietta dietro di voi vi spintona facendo la vaga, e quell'altra passa avanti con la scusa del "Che-signora-mi-fa passare-c'ho-solo-queste-quattro-cose" e poi s'infila a tradimento il marito col carrello stracolmo... ve bene: tu preferisci intavolare con i tuoi bimbi giochi di società e spingerli amenamente sulle altalene al parco, costruisci plastici in scala del quartiere e raccogli pezzetti di corteccia con cui realizzare collage artistici con materiali naturali, e però... ti fai recapitare a casa la spesa surgelata.
Non so perché ma tutto ciò mi suona molto "finto".
Perché mai la casalinga sfigata, che si barcamena tra i 1300 euro mensili e le quote per la gita scolastica, fa i salti mortali per far quadrare i conti a fine mese con un solo stipendio e due figli, la prole da recuperare a scuola e la lavatrice da stendere, la caldaia da riparare e la lettiera del gatto da pulire, dovrebbe sentirsi una madre meno presente se passa due ore al supermercato coi suoi bambini a fare la spesa invece di allestire set di giochi montessoriani pagati un discreto fottìo e portare i bambini a La città della scienza?

Cos'è fondamentalmente che vogliamo insegnare, trasmettere, ai nostri figli? Cosa vogliamo che imparino da noi? Cosa vogliamo che diventino? Ma soprattutto: cosa vogliamo che rimanga loro del tempo della loro infanzia trascorso in nostra compagnia?
Forse dovremmo rispondere ad alcune di queste domande per capire cosa significa passare del tempo "di qualità" coi nostri figli.
Ché così pare che questo tempo di qualità sia appannaggio dei ricconi, di quelli che si possono permettere di preservarsene una buona fetta a esclusivo orientamento ludico-ricreativo, ma per carità, anche educativo svolgendo con loro attività altamente stimolanti e andando ad incrementare il loro album mentale dei ricordi lieti d'infanzia, tanto ti puoi permettere di pagarti qualcun altro che ti pulisce casa/ti stira i calzini/ti fa la spesa.
Giustissimo, io dico, voler vivere dei momenti speciali coi nostri figli, ma forse non è il caso di sputare sopra ai momenti "normali" della vita di tutti i giorni.

Io ho dei ricordi lieti e caotici, tragicomico-parossistici dei pomeriggi al supermercato con mia madre, e di quelli, più eccezionali e forse proprio per questo più succulenti, con mio padre, il sabato pomeriggio alla GS, che era come dire il luna park dei supermarket, perché se no noi si andava alla SIR a piedi, e si tornava con le buste a mano, che se per disgrazia l'ascensore era rotto, toccava caricarsele fino all'ottavo piano, rampa dopo rampa, e pure il passeggino di mio fratello piccolo, il quale passeggino, se malauguratamente il passeggero se ne levava all'improvviso per venire dietro a uno di noi grandi nelle nostre scorribande tra gli scaffali dei dolciumi, si rovesciava all'indietro per il peso delle buste attaccate al manubrio, e il più delle volte era un disastro, cui seguiva un'immancabile "Oddio-le-uova!" della genitrice...
Insomma, immagino che per la genitrice in questione quelle giornate fossero un incubo, e posso solo inorridire pensando a me stessa in analoga situazione.
Ma il fatto è che nella mia visione bambina, quelle missioni comperereccie erano epiche, e ora nella memoria mi rimangono ammantate di una qualche romantica aura di leggenda, come tutto ciò che riguarda la nostra infanzia.
Non sono pure quelli momenti di aggregazione familiare?
O vogliamo fingere che lo stare in famiglia sia solo e sempre impeccabile e metodica messa in atto dei più evoluti precetti pedagogici?
Tempo di qualità dal mio punto di vista è anche questo: imparare insieme la vita, semplicemente vivendola. Mostrare con la pratica della propria vita come affontare le difficoltà e gli inconvenienti di ogni giorno, insegnare a gestire le situazioni, anche le più faticose, aiutandoci reciprocamente, collaborando, ripartendo le responsabilità anche tra i più piccoli.
Non è farsi recapitare a casa il merluzzo congelato da passare dieci minuti in microonde e nel frattempo starsene in poltrona a leggere filastrocche.
Io credo che nell'accezione di "tempo di qualità" rientri uno spettro di situazioni più vasto e articolato.

I bambini non hanno il nostro stesso senso del tempo: non hanno il senso del tempo "perso" per far qualcosa per cui potreste impiegarne assai meno delegando ad altri. Hanno il senso del tempo "impiegato" a far quel qualcosa insieme a loro.
I bambini non hanno il senso del tardi o del presto (merda, sono già le sette e ancora non ho messo su nulla per cena!). Hanno il senso della pienezza di un tempo utilizzato per portare a termine un lavoro assieme alla mamma, un lavoro che li riguarda, un lavoro che rappresenta una delle milleuna faccende da sbrigare per portare avanti la vita domestica di una famiglia.

I bambini vivono l'ora e sono immuni da ansie e rimpianti. E' importante imparare a vivere questo "ora" insieme a loro, senza cadere nell'errore del dover loro fabbricare un "ora" fatto su misura, tanto ideale quanto fittizio.

Che poi, voglio dire, mia madre non era questa casalinga con ore e ore da sperperare: era una professionista con un lavoro full time e cinque figli sparpagliati su un arco temporale di quindici anni da gestire. Eppure nel mio ripensare al mio tempo con lei, o con mio padre, non ho mai la sensazione che entrambi non ne mettessero a frutto ogni secondo rendendoci partecipi della loro vita, e partecipando alle nostre, anche semplicemente da spettatori o ascoltatori, anche a loro modo arrivando tardi ai saggi di fine anno o disertando gli incontri con gli insegnanti...
Insomma: tempo di qualità è sempre.
Rendere partecipi i nostri bambini alle attività di tutti i giorni è il modo migliore per "ottimizzare" il nostro tempo insieme a loro, a patto di non sfinirli.

E forse questo conflitto che tutti noi, chi più chi meno, genitori o no, viviamo nei confronti del nostro tempo, questo affannarsi a voler sempre fare tutto e "ottimizzare" che ci fa arrivare a sera sfiniti e con la fastidiosa sensazione di aver corso tutto il tempo, di avere sempre l'acqua alla gola, è più una questione di "testa" che di ritmi di vita. Del resto siamo noi ad impostare i nostri ritmi, frenetici o ben scanditi che siano: non ci farebbe male tentare di prendere a modello il rapporto che col loro tempo hanno i nostri bambini, valutandolo non in relazione al numero di attività (o a quanto fighe esse siano) che riusciamo a infilare in una data unità dello stesso, ma in base alla capacità che abbiamo avuto di metterlo a frutto in positivo, accettando che sia quello e non di più di quanto ce ne venga concesso ogni giorno, godendecelo, anche a discapito delle tabelle di marcia che ci autoimponiamo.

Un poco, lo ammetto, queste mie riflessioni si ispirano alla sensazione che ho avuto, di "non corrispondenza" tra la nostra maniera "occidentale" di "sentire" il nostro tempo (e scusate lo sproloquio di virgolette) e quella che ho osservato, direi quasi "respirato" durante la nostra permanenza in Libia (ne parlavo qui).
Se mi è permesso autocitarmi:
Scandita dalle cinque preghiere prescritte dall'Islam, ogni giornata fila liscia come una ruota ben oliata e non si ha mai l'impressione che il tempo non basti.
Ma ti basterebbe scorrere l'occhio su questi paesaggi sonnolenti, rallentati, sempre uguali a se stessi, per capire davvero il reale valore di quell'affermazione. Il tempo è in quello spazio che non può certo dirsi a misura d'uomo: è l'uomo che vi si adegua, che vi si adagia pigramente, senza affannarsi a coprirne le distanze, o a riempirne gli spazi vuoti, a metterlo tutto a frutto, proprio come la campagna chiazzata di terra polverosa, da cui prendi quel che si può. E ciò che non si può far oggi, si farà domani.
E anche qui:
Il punto è che loro lì non si pongono mai in conflitto con l'idea del tempo. Il tempo che si impiega a fare una data cosa è quello, e quello rimane, tutto il resto può aspettare, per quanto futile possa apparire lo scopo ultimo di tanto impegno.
In effetti vivere anche per poco tempo coi ritmi di laggiù, mi ha dato la sensazione di essere catapultata in un'altra epoca. Vi assicuro che il ritorno a quella attuale (di epoca), coi suoi tempi e le sue scadenze, le sue incombenze improrogabili, malgrado la gioia di ritrovarmi finalmente nel mio mondo, non è stato facile.

Non è per fare sempre la secchiona, che questo mese partecipo addirittura con due post... è che queste riflessioni mi sono venute a catena ragionando sul tema del mese di Genitoricrescono: Il tempo.
Le volevo aggiungere in calce al primo post scritto, ma mi sono resa conto che non c'azzecavano nulla.
Poi mi hanno dato il consenso ufficiale che si può fare, quindi:



venerdì 17 maggio 2013

Tempo e bambini: quello che ho imparato.


Prima che il tempo mi voli via assieme a questo vento di maggio, e che, come già accaduto per marzo e aprile, perda l'occasione di farlo, tenterò di scrivere il post per il blogstorming di questo mese. Ché il tempo è così, ti scivola tra le mani come sabbia nella clessidra e tu nemmeno te ne accorgi e già del mese appena iniziato ne hai scollinato la metà, e il tuo post è lì, tra le bozze, incompleto e informe, e rischi di scordarti quel che avevi da dire...
Perciò, orsù, senza por tempo in mezzo, e chi ha tempo non aspetti tempo (va bene, la smetto).

Il tema proposto da Genitoricrescono a maggio è molto stuzzicante e, oserei dire, ha del filosofico.
Del resto, chi di noi non si è soffermato una volta nella sua vita a riflettere su questa entità così astratta eppure così imprescindibile nella sua effettività, tanto che non ci è possibile nemmeno immaginare un mondo che ne sia privo?
Dunque mi pareva di non avere gran che da scrivere in proposito (del resto pure troppo è già stato detto a riguardo, da tanti e tanti pensatori ben più forniti di argomenti), finché non mi ci sono fermata a riflettere un poco, sul binomio tempo-genitorialità, e allora gli spunti di riflessione mi sono piovuti a grappoli.
Tenterò qui di riassumere in maniera più o meno ordinata e per sommi capi ciò che ha significato per me il divenire genitore in relazione al mio tempo.

Il tempo dei neonati

Partiamo dal presupposto che il tempo di un neonato non è uguale al tempo di un adulto.
Che banalità, direte voi. Eppure credo che valga la pena metterlo nero su bianco a premessa di tutto, visto che, no, per chi si ritrova a dover gestire per la prima volta un neonato, questa verità non è affatto scontata.
Allora: come funziona il tempo di un neonato? Cioè: come mi devo regolare? Quando deve mangiare/dormire/svegliarsi/essere cambiato? Come funziona il suo tempo?
Per la verità all'inizio sembra facile: quando piange lo allatti, quando puzza lo cambi, per il resto dovrebbe dormire quasi tutto il tempo, no?
Questo è quello che credevo io, PRIMA.
In realtà non è detto che un bambino appena nato sappia di aver bisogno di dormire, e che comunque lo faccia anche senza arrivare ad essere cosciente di averne bisogno.
E neppure tu lo sai, mamma, quanto deve dormire un neonato a un mese, e poi a un mese e mezzo, a due, a tre...
E così vai a leggere. ti informi, cerchi, googli. Ed ecco cosa trovi:
"Un neonato almeno fino a tutto il quarto mese di vita dorme in media dalle 16 alle 20 ore al giorno".
E allora ti disperi. Perché diamine la tua non ne dorme che 8 scarse (e spesso interrotte), e per il resto del tempo ti dorme solo in braccio e come la metti giù si sveglia e frigna?

- Si vede che a lei quelle ore notturne bastano -ti dice tua sorella- e le bastano quelle che dorme quando è in braccio.
Ma la cosa, lungi dal rassicurarti, ti getta nel panico più totale. Ma come? Noo! Io voglio che lei dorma DA SOLA anche di giorno, e mi lasci libera di respirare almeno un due-tre ore di seguito, che possa darmi una lavata, farmi un piatto di spaghetti e mangiarmelo in santa pace, seduta, e non mentre ballonzolo in piedi con una neonata appollaiata sul braccio che non ne vuole sapere di arrendersi al sonno.

- E' normale: più crescono, e meno dormono. Cosa credevi?
Ti dice tua madre. E tu vorresti morire: porca miseria, ma ha solo 2 mesi e mezzo! E già dorme quanto me. Di questo passo a sei anni mi farà orario no-stop?

La verità è che hai bisogno di entrare nel suo tempo, dimenticarti come era PRIMA, capire come funziona il tempo per un neonato.
E ogni tanto ti capita pure di imbatterti in qualche dritta utile.
Imparare a gestire il tempo di un neonato è cosa fondamentale per la sopravvivenza genitoriale, e ora vi dico cos'è che, alla lunga e sulla mia pelle, ho imparato, sperimentato, messo in atto e interiorizzato sull'argomento:
  • Scandire i tempi.
Prima lezione appresa. Nel magma ininterrotto delle mie giornate (primo mese e mezzo) con mia figlia, annaspavo disperata alla ricerca di un appiglio, di una Stella Polare, di un qualcosa che mi facesse capire come potevo organizzare i miei tempi intorno ai tempi biologici di lei.
Ho capito che dovevo scandire tutto in unità più piccole, in piccoli cicli fatti almeno di quattro passaggi: sveglia-pannolino-poppata-nanna. In tutto ciò è FONDAMENTALE ricordarsi di guardare di continuo l'orologio, almeno per chi è alle prime armi con un neonato. E' vero: i neonati non tengono conto degli orari, ma questo rapportarvi di continuo ai tempi esterni e universalmente riconosciuti, può aiutare voi a darvi una tabella di marcia che sia sempre più o meno quella. E all'inizio tutto ciò non durerà che un due ore massimo, perché poi il neonato sclera, a star troppo sveglio, e tutta la giornata di conseguenza sarà un disastro. Quindi: si è svegliato alle 6? Alle 8 non è troppo pretendere che vi dorma di nuovo.
  • Adattarsi.
Altra cosa che ho ben presto capito a mie spese, è stata che, se volevo uscirne, dovevo puntare alla sopravvivenza, e se volevo sopravvivere, dovevo adattare la mia vita al suo tempo e non pretendere che fosse lei ad adattarsi ai miei. E questo significa rinunciare a fare le cose in un certo ordine, quello nel quale eravamo abituati a farlo prima (per esempio: svegliarsi e fare una doccia, e poi colazione, sono attività che verranno postposte al primo ciclo pannolino-poppata-nanna) oppure rinunciare del tutto a qualcosa (non lo rimpiangerete, perché riuscirete a guadagnarci in una relativa tranquillità).
  • Trovate i "vostri" ritmi.
Come noi adulti, anche i bambini piccoli non sono tutti uguali, hanno ritmi e abitudini, equilibri che in parte avete trovato insieme, in parte avete dovuto "accettare". Siccome che mi capita di continuo di imbattermi in una serie di luoghi comuni duri a morire, ci tengo a specificarlo.
Per esempio: "Non lasciarla dormire tutto il giorno, se no poi la notte ti rimane sveglia"; oppure: "Beh, magari ti è rimasta sveglia tutto il giorno, ma almeno poi stasera ti dorme bene"; o ancora: "Ma ancora la fai dormire? Si è svegliata appena due ore fa! Attenta che poi ti scambia la notte col giorno"
E altre genialate affini.
Mia figlia è sempre stata una bimba piuttosto nervosetta. Non mi è mai successo che mi "crollasse" di stanchezza a fine di una giornata di veglia intensa. Invece più riposava bene di giorno, meglio e più a lungo dormiva la notte. E' un'equazione semplice: più dorme, più è tranquilla e più dormirà; meno dorme, più è nervosa e meno dormirà. Vallo a spiegare al mondo.
Per cui se ancora oggi che ha quasi tre anni mi dicono: "Ma non è grande per farle fare ancora il sonnellino a metà giornata? Certo che poi la sera ti va a letto tardi!", me ne sbatto allegramente, e pazienza se mia figlia la sera si addormenta alle dieci e mezza-undici e non alle nove come la maggior parte dei suoi coetanei. Almeno non arriva isterica all'ora di cena e ciò significa più pace per me, più armonia familiare in genere, meno rischio infanticidio per le cronache.
  • Essere flessibili.
Pian piano i tempi dei neonati si modificano, di pari passo con la loro crescita, e tendono ad allungarsi, e allora sarete già diventati abbastanza bravi da accorgervi delle mutate loro esigenze, e pian piano allungherete anche la durata dei loro cicli vitali sonno-veglia. Verrà (quasi) naturale, ve lo garantisco. Inutile impuntarsi sul voler a tutti i costi mantenere i due sonnellini mattutini a un pupo di sei mesi vispo e attivo che ti costringe a un'ora e mezza di ninna-nanne a manetta. Vorrà dire che è giunto il momento di sottrarre un sonnellino, e di "allungare" i tempi di veglia tra gli altri. I bimbi per fortuna si adattano in fretta, e voi ci guadagnerete in qualità della vita, potendo disporre di intervalli più lunghi, più conformi ai nostri ritmi adulti.
  • Darsi tempo.
Ricordo bene la disperazione che a giorni mi attanagliava la gola nei primissimi mesi di vita di Mimi: non faccio più vita, aiuto! Rivoglio il mio tempo! Rivoglio il mio diritto a orinare in pace! La mattina mi sveglio e vorrei morì.
OK. Non pretendere di venirne subito a capo: ci vuole tempo, anche qui. Tempo e attenzione. Bisogna saper osservare un neonato, coglierne le sfumature, capirne le esigenze, interpretarne il pianto e agire di conseguenza. Ma per fortuna anche se si sbaglia non succede niente di grave: "Ah, ma allora piangevi perché eri pieno di cacca fino al collo! Bene: la prossima volta prima di farmi cadere le braccia a forza di ninnarti ti sottoporrò alla prova olfattiva.
  • Mantenere basse aspettative.
Sembra brutto, eh, detto così. L'ho pensato anche io la prima volta che l'ho letto, su un depliant lasciatomi dall'ospedale al momento delle dimissioni. Ma come? Tutta la vita ci insegnano che bisogna "puntare in alto", che se miri al lampione sei un perdente, che devi mirare alla luna, e poi pazienza se arrivi al lampione e via dicendo. Solo dopo ho capito forse il senso dei quel "mantenere basse aspettative", o comunque l'ho interpretato a modo mio. Se io mi aspetto che la mia vita con un neonato possa rimanere la stessa che avevo prima, compreso uscire la sera un tre volte a settimana, stare al bar un'oretta al giorno con gli amici, guardare un'oretta di tv dopo pranzo, leggere una media di due libri a settimana più quotidiani e articoli on line... probabilmente mi schianterò con la più amara delle disillusioni. No, non è possibile tutto ciò. Se invece parti da un obiettivo più semplice, tipo: una passeggiata col pupo, allora capace che ci riesci, e almeno ti eviti la frustrazione.
  • Avere sempre un piano B.
Visto che lui/lei non ne voleva sapere di dormire, avete deciso di uscire, e cogliere l'occasione per incontrare un'amica in centro. tempo di preparavi, infagottare il pupo nella carrozzina, e quando siete sulla porta, lo vedete che è collassato. Ora dorme, il bastardello! E anche voi avreste tanta voglia di buttarvi a pesce sul letto e collassare un'oretta... In questi casi che fare? Cambiare idea e cogliere l'attimo (non dimenticate che è fuggente) è il mio personale consiglio. Improvvisare. Cambiare programma. Concedersi deviazioni.
  • Il tempo ben speso.
Il mio rapporto col tempo è sempre stato pessimo, anche prima di avere Mimi. Non ero quella che sapeva gestirselo con parsimonia e saggezza. Ero quella che quando preparava gli esami non rispettava mai le tabelle di marcia che si faceva da sola, e se aveva un mese a disposizione se ne macinava tre quarti e si riduceva a dover studiare l'80 % del programma nel giro delle ultime 48 ore utili, compreso il tempo di attesa del proprio turno fuori dall'aula. Sono quella che arriva sempre in ritardo e  trafelata, perché nel frattempo vuole sempre ficcarci dentro più cose possibili da fare. Non mi piacciono i tempi morti: cerco sempre di mettere a frutto ogni istante e mi ritengo soddisfatta se alla fine della giornata ho depennato il maggior numero di faccende da espletare.
Ma con un figlio si rischia il collasso: semplicemente non si può. Non tutto il tempo va messo a frutto in maniera attiva; sono arrivata a considerare in maniera diversa il concetto di "tempo ben speso", ovvero quello che ti fa arrivare sano e salvo alla fine della giornata  e senza inutili spargimenti di sangue e crisi isteriche. Se si tratta di rinunciare a un impegno preso o a una puntata al supermercato ché la dispensa piange carestia, perché il pupo ha le coliche ed esige che lo teniate in braccio a oltranza massaggiandogli la panza, quello è tempo ben speso, se poi alla fine sarete riusciti a metterlo finalmente a letto.
  • Relativizzare.
Lo so: ve lo dicono tutti: i bimbi, per fortuna, prima o poi crescono. Tenete duro solo qualche mese.
Qualche mese??? La prospettiva ora come ora pare agghiacciante, vero? Come "qualche mese"? Ma se ha appena 20 giorni e già fantastico liberatori harakiri! Lo so che il tempo a volte sembra immobile, ha il potere di dilatarsi a dismisura, e a volte una vostra giornata pare infinita. Ma a un certo punto vi sveglierete e vostro figlio avrà 4 mesi, e forse non soffrirà più di coliche, e poi ne avrà 6, e poi 12, e stare con lui/lei sarà sempre più divertente e gratificante, e magari anche (un po') meno faticoso. Perciò guardate in prospettiva: tra un anno penserete a questi giorni come chi se li è lasciati alle spalle, e magari lo farete sorridendo...
  • Il tempo degli altri.
In tutto ciò il tempo degli altri continua a non tener conto del fatto che il vostro tempo ora è cambiato.

- Allora arriviamo alle 5, va bene?
- Sì, mi raccomando, se ritardate avvertitemi.
Vi è mai capitato che gli amici in questione si presentino alle 5 e quaranta, mentre voi tentate disperatamente di tenere occupato il pupo che a quell'ora in genere, già dorme da una buona mezz'ora?
Eh, dai: mezz'oretta che sarà mai!
Ma per un bambino piccolo è tanto. E' tantissimo. Per cui, cazzarola: se vi accorgete che fate tardi, avvertitemi, e io metterò a letto il pupo prima. Per quando sarete arrivati già avrà fatto in tempo a svegliarsi di nuovo, e voi potrete fare la conoscenza di un pupo riposato e sereno, e io non dovrò spalleggiarmi un marmocchio isterico mentre vi ringrazio per il pensiero ma ora vi sbatto fuori dai coglioni perché il lui/lei urla.

- Pronto, amicamia, puoi venire a tenermi il pupo un'oretta, che sono distrutta e vorrei uscire un attimo e sbrigare alcune cose, e non sono ancora riuscita a pranzare?
- Certo, cara, arrivo subito! Dammi dieci minuti.
E fu sera e fu mattina.
Non scherzo: è successo davvero.
A me. Dalle due del pomeriggio arrivò che erano quasi le cinque.
E io continuavo a dirmi: ora arriva, ora arriva, dai, si sarà solo fermata stradafacendo, tieni duro...
E intanto avevo mia figlia in braccio che quel giorno mi voleva prendere per sfinimento, e avevo fame, e le lacrime agli occhi, e la pentola sul fuoco con l'acqua della pasta che per la terza volta mi era evaporata finché ci avevo rinunciato, e il soffritto di cipolle carbonizzato in padella e la tisana nel microonde che continuavo a scaldare ma che poi era sempre fredda, nemmeno tiepida, quando mi ricordavo di andarla a prendere, e i nervi a pezzi.
Per cui, vedete: il tempo per lei era ridotto solo a un banale "scusa, ho fatto un po' tardi", ma per me corrispondeva a un: "Se non arriva subito muoio".
Perciò: non confidate nella comprensione altrui. Siate chiari, precisi, puntigliosi fino alla pedanteria. Se non vi capiscono, lo capiranno presto (a loro spese), a meno che non si rifiutino di procreare a loro volta...
  • Il tempo di lui
- Eh, dai, quanto la fai lunga perché ho ritardato un po'!
- Ma sono quasi le dieci!
- Ma ho finito tardi. Poi mi sono fermato al bar a parlare con i ragazzi, ho fumato una sigaretta qua sotto con Tizio e sono arrivato SUBITO.

Lui secondo me alle volte ci marcia.
Magari avete il marito/compagno migliore del mondo, per carità, che queste cose NON le fa.
Resta il fatto che per chi continua ad avere una vita "fuori" rimane difficile capire del tutto chi passa l'intera sua giornata a stretto contatto con un neonato, e anche capire perché una persona che è appena riuscita ad addormentare suo figlio dopo aver rischiato varie volte di farselo cadere dalle braccia perché assalita da ripetuti colpi di sonno, esca alle dieci dalla camera ove il pupo dorme ora beato, crolli su una sedia e scoppi in lacrime.
Successo, anche questo. E lui non ha capito, credo, cosa significasse veramente la parola "sfinimento".
Comunque il consiglio in questo caso è: cercate di lasciare che anche lui sperimenti l'ebbrezza di qualche ora in compagnia del suo frugoletto (loro due, da soli solissimi). Io lo sto facendo ora, con la secondogenita, con la scusa che la mattina accompagno l'altra al nido mi eclisso per un'oretta-due, tipo per andare a fare la spesa o alle poste, o cazzeggio in giro per negozi e poi mi invento scuse per il ritardo.
Lo ritrovo puntualmente in piena crisi, che mi molla la secondogenita urlante e piena di cacca (lui non pensa mai di provare a vedere se magari deve cambiarle il pannolino) e mi dice: "Era ora, finalmente!".
"Ma se sono uscita appena un'oretta fa!" (è fondamentale a questo punto dire "un'oretta" e non "un'ora"). Ecco, so' soddisfazioni.
  • Il tempo del pediatra.
Il pediatra infine ha una scansione temporale tutta sua.
Inutile cercare di venirne a capo e prima lo capite meglio è.
Per esempio la prima volta che ci sono andata mi chiese quante volte al giorno mangiasse la bimba.
Cosa? Solo cinque volte? Sbagliato! Sbagliatissimo! Bambini così piccoli devono mangiare almeno 7-8 volte al giorno. Dovevo assolutamente aumentare le poppate. Ok.
La volta successiva gli dissi, orgogliosa, che era stato un po' faticoso, ma finalmente ero riuscita a portare le poppate a 6-7 al giorno.
Cosa? A due mesi??? Sbagliato! Sbagliatissimo! La bimba è TROPPO GRANDE per mangiare ANCORA così spesso! Dovevo assolutamente diminuire le poppate e portarle a massimo 5 nell'arco delle 24 ore (ma vavangulo dottò!).

Ora con la secondogenita mi ha regalato un'altra chicca:

- Bene, ora quanto ha? Quasi un mese? E' grande...
(Grande? Beh, sì: un'adulta direi)

- ...basta farla poppare una volta sola durante la notte...
(Ne parli con l'interessata, dottore: magari a lei darà ascolto...)

- ..per esempio se ti mangia a mezzanotte e poi si sveglia alle 3, magari prendi un po' di tempo... tirala un'oretta-due... fino almeno alle 5!
(Eh! Che saranno mai due ore a "tirare in lungo" una neonata affamata nel cuore della notte? Caro dottore: mi chiedo seriamente se si diverte a pigliarmi per il culo a volte...)

Io nel frattempo ho imparato la strategia del "dici-di-sì-e-poi-fà-come-ti-pare", che è meglio (come direbbe il puffo quattrocchi). Sapevatelo, e poi fatelo.



Il Blogstorming è candidato al Fattore Mamma Award, per votarlo questa è la pagina.

sabato 18 agosto 2012

Sopravvivere all'estate in quattro comode mosse


Quando sei piccolo l'estate ti sembra la stagione più bella dell'anno. Il resto dell'anno lo passi a fare il conto alla rovescia su quanto manca al suo arrivo, perché in fondo a quell'età estate è sinonimo di libertà, dalla scuola, dai compiti, dalla routine, dai vestiti pesanti...

Ora per me estate è sinonimo di "uff, ma quando finisce?"
Perché stai a casa, sudi come un porco, frughi nel frigo in cerca di un'ispirazione circa cosa propinare alla pupa per pranzo senza dover accendere i fornelli, quasi vomiti nel maneggiare polli crudi che non hai mai imparato a tagliare come si deve, ma tanto lei non mangerà che qualche cracker con stracchino, e anche tu, o in alternativa due acini d'uva, un succo di frutta ACE con la cannuccia e, forse, un uovo alla coques... no la devo capire questa passione improvvisa della pupa per l'uovo alla coques (che a me continua a venire fuori più sodo che alla coques) dopo che per un anno mi ha schifato l'uovo in qualsiasi veste io glie lo presentassi. Ma va be'.

Il nido intanto mi sembra esser stato un miraggio di ricordi lontani forse solo immaginati.
Partendo per le vacanze subito a ridosso della sua chiusura non ho fatto in tempo ad abituarmi all'eventualità di non poterne disporre. Al ritorno la cruda, dura realtà: due mesi di fila a gestirmi infinite giornate bollenti con la pupa insofferente, pomeriggi brevi di nanne iniziate tardi e finite tardissimo, tappata in casa ad aspettare temperature più consone a poter riaprire le imposte della cucina senza rischiare un collasso, mentre lei dorme cullata dal ronzio del nostro formidabile condizionatore d'epoca, raccattato con gran lungimiranza al mercatino dell'usato, che, devo dire ci sta risolvendo non poche notti di afa e calor...

Però questo ritiro forzato con Mimi priva di sostegno logistico esterno, supporto parentale, conforto spirituale di amici latitanti impegnati a "svernare" lontani dalla città, il web più o meno deserto, mi hanno permesso di approfondire le mie competenze in fatto di convivenza con pupa, che oramai si è consolidato quasi in una simbiosi, per cui credo che questa estate la ricorderò soprattutto così: le mie strategie di sopravvivenza di un'estate in città con lei.

- Mare. Ci son state le andate al mare mattutine: davvero, non so chi me lo facesse fare, ogni volta finiva in pianto, io incazzata, guidare sotto il sole meridiano in un'auto incandescente (per inciso, siamo riusciti a procurarci un'auto più obsoleta di quella che avevamo prima, ma siccome a caval donato non si guarda in bocca, e soprattutto non si sputa, posso dire che è stato proprio un gran bell'affare, per non dire una gran bella botta di culo il fatto che il tizio che ce l'ha mollata fosse stufo di tenersela parcheggiata sotto casa, così, insomma, sì: abbiamo pagato più l'autoradio che la macchina, fine dell'inciso), lei che snocciolava i più fantasiosi capricci del caso, prima di cadere in catalessi in prossimità della città, cosa che mi avrebbe pur fatto comodo se immancabilmente i miei tentativi di traslarla dal seggiolino al letto senza che lei si svegliasse non fossero stati frustrati da tempestivi e drammatici risvegli, ancora accompagnati da pianti furiosi e più o meno immotivati, che solo dopo molto tempo riuscivo a sedare. Del resto il sonnellino pomeridiano dopo questo abbozzo di sonno comatoso da macchina andava a farsi puntualmente fottere, e il resto del pomeriggio finiva peggio di quanto non fosse iniziato, con la conseguenza che ben presto le mie volenterose incursioni marine si sono drasticamente diradate, e infine azzerate, in attesa di tempi un po' più freschi.

Ci sono gli aspetti positivi del passare il periodo di Ferragosto a casa: non trovi traffico per strada e soprattutto i supermercati non proprio deserti ma quasi. Diciamo che ci accontentiamo.
nel mio caso ci sono state non poche aggravanti, a render ancor più odioso questa lunga stasi estiva:


- il Ramadan. 'Cidenti a me e a quando non ho ascoltato le raccomandazioni della mia prof delle medie: "Ricordate: mai sposare un Musulmano". Averla presa sul serio all'epoca mi sarei risparmiata tanto sudore ai fornelli nelle uniche ore in cui, messa a letto pupa, mi sarei potuta svaccare anche io per terra, come Panzumen, che la sa lunga, e si sceglie il pavimento del bagno, evidentemente il più fresco della casa. E invece mettiti a soffriggere cipolla, a cuocere minestre con agnello e peperoncino alle tre del pomeriggio, a rimestare brodaglie per due ore, che così poi la cena è pronta per quando torna il Beduino con il suo compare, il così detto "ragazzo della macelleria" (ma a parte l'età effettiva che ha, sembra mi'zio) a rompere il digiuno, e anche un po' le palle alla sottoscritta,  ché è abbastanza normale che quando passi l'intera giornata senza bere e senza mangiare, soprattutto se fanno 40°C, la sera ti girano e  hai una spiccata tendenza a scassare i cabasisi al prossimo, ma non ho capito perché ci devo rimettere io che con Allah non ci voglio avere nulla a che fare, che se la vedano loro con il loro Dio a far quadrare i conti. La shorba è troppo asciutta, hai messo troppo piccante, troppo liquida, manca il prezzemolo, che c'entrano le patate? Troppa cipolla, ma hai fatto solo questo da mangiare? Hai messo su il té? L'acqua fresca è finita? Va be', ciao Hasuna, sai che c'è? Domani ho da fare, cucinatevi voi.

- Il vasino.Ok stavolta testa bassa, vado fino in fondo. Pipì o non pipì, ho una scorta di mutandine taglia 2-3 anni da far invidia a Intimissimi, e pure lavandone tre al giorno, co 'sto caldo, fanno presto ad asciugare. Ricorderò forse questa estate com l'estate del vadino, o, come dice lei "L'invasor":
Mimi cosa ci fa il vasino in camera mia?
- Mimi dove l'hai messo il vasino? Vallo a prendere su, che facciamo pipì.
- Mamma, guadda: ho tovato l'invadò!
- Ah, il vasino sarebbe l'invasor? Quello della canzone?
- Tì: Una mattina, mi to' vvegliata...

In effetti, a parte l'assonanza tra le due parole che deve aver suggerito alla pupa l'equivoco, il vasino finisce per trovarsi sempre in luoghi che non gli competono, ed è per questo che in casa nostra è e rimarrà "l'invasor" di campo.

Dopo le prime due pipì andate a buon fine, pensavo che la cosa fosse ormai sotto controllo, e invece finiamo per trascorrere in compagnia dell'invasor circa un terzo della nostra giornata, con conseguenti esaurimenti nervosi miei. Si inizia con paziente incoraggiamento:
- Dai Mimi, ora ci mettiamo qua e facciamo tutta la pipì nel vasino, come Lia...
- Come Lia-e- il-tuo-vadino?
- Sì sì, proprio come Lia e il suo vasino. Mimi lascia stare Panzumen. Mimi siediti che non l'hai ancora fatta la pipì. Mimi alza il vestito che lo bagni. Mimiiiii, dove vaiiiii?
Per passare poi alle lusinghe:
- Dai Mimi, che se fai pipì, poi andiamo ai giardini. Dai, fai questa pipì che dopo ti dò il ghiacciolo. Fammi vedere come sei brava che fai pipì tutta da sola, io vado di là e tu quando hai fatto mi chiami.
Per finire con le minacce:
- Mimi che fai culo all'aria? Dov'è il vasino? Forza, vai a far pipì, guarda che se la fai ancora per terra stavolta mi arrabbio eh!
Lo so che non è bene arrabbiarsi per questa cosa, ma le mezz'ore passate ad aspettare la fantomatica pipì che non arriva, per poi dover asciugare laghi di piscio sulle scale di casa o sotto al cesto dei panni sporchi mi snervano.

- Giardini. La sera andiamo in genere ai giardini, ci sono le amichette di Mimi del nido e quelle dei giardini appunto che son rimaste in città perché hanno avuto di recente neonati fratellini e sorelline. Ci sono le mamme che ci siamo pure scambiate i numeri di telefono, e anche se per me questa è una cosa nuova e un po' strana, devo dire che non mi dispiace scoprire un poco di solidarietà maternale, scambiarsi consigli e strategie su sonno e pianto, parlare anche di vasino, sì, visto che per me questo è al momento un argomento molto "scottante", e vedere Mimi fare la selvaggia aggirandosi per il parco in mutande dietro all'amichetta di poco più grande, bagnarsi da capo a piedi con la fontanella dell'acqua, studiata da accorti architetti per ottenere risultati ottimali in un giardino frequentato da infanti, col suo design da pompa campestre che stuzzica di molto le fantasie ludiche di due duenni; vederla affacciarsi incuriosita e affascinata alla carrozzina dove dorme "la to'ellina di Maua" e vederle tirare fuori quella tenerezza che disperavo avrebbe mai manifestato nei confronti di bimbi più piccoli, a giudicare dal trattamento da lei riservato ai suoi sfortunati bambolotti, ripetutamente sbatacchiati e defenestrati dal parapetto del lettino...

In somma: tutto questo è stato, ed è ancora, la nostra estate.
L'estate con la sua insostenibile leggerezza.

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mercoledì 25 aprile 2012

Lui, lei... e io!

Lei e lui ora dormono, insieme, sullo stesso grande letto. Materasso ortopedico, rete con doghe in legno... mica robetta! (Ci abbiamo messo nove anni, eh, partendo dalla piazza singola condivisa, ma infine abbiamo assemblato un Signor Letto!).
Lui russa forte, si sente anche da dietro la porta chiusa. Lei russa pure, un poco, e ci va di tosse a momenti. Lui col suo peso fa almeno sei volte lei, ma lei non si fa intimidire, a suon di calci e pedate ben piazzate, si conquista la sua meritata porzione di materasso, relegandolo nell'estremo limbo marginale, laddove lenzuola e coperte finiscono per scoprire porzioni considerevoli di membra, perennemente desiderose di calore.
Lui mi ha detto: "La posso addormentare io, la bambola?"
Io ho lasciato fare, imponendomi un atteggiamento possibilista e genitorialmente equilibrato.
Il fatto è che lo sapevo, in realtà, che non sarebbe stata cosa.
Però li lascio, chiudo l'uscio, raccolgo da terra pupazzi sparsi, sollevo la coperta-tappeto e la piego via, metto a posto libri cartonati ed enormi rilegati illustrati con copertina rigida, mentre sento di là un chicchericcio intermittente, risate soffocate e brandelli di parole non si sa bene in che lingua: "Naso dibabbo!" "Buia!" "Babb..ahahahaha! Buia!" -interferenza- "Pinocchiooo".
Poi un cellulare che suona e una manina che bussa alla porta piano. Allora entro in scena.
Va be', mi trattengo (lo sapevo): "Hasuna la vuoi togliere la suoneria al cellulare se devi addormentarla?"
Comunque mi unisco a loro, sul lettone, e dieci minuti dopo, a furia di "Pinocchi", dormono entrambi.

Lo so che forse a volte dovrei lasciare che lui provi, senza intervenire alla prima difficoltà, ma è infinitamente più facile subentrare con la prassi collaudata, che lasciare terreno a nuove sperimentazioni.
Sì che li apprezzo i suoi slanci di paternità improvvisi e i suoi sforzi per essere più presente.
Ma mi rendo anche conto che in questi quasi due anni ho dovuto imparare a gestire quasi da sola quel mondo, la nanna, la pappa, i risvegli, i giochi, e che adesso inserire il terzo elemento attivo nel nostro tandem sarà un'operazione lunga e delicata.
Però non dispero: a poco a poco, si fa.
E non nego le mie responsabilità: è vero, troppo spesso sbrigarmela da sola è stato più pratico che riuscire a coinvolgerlo come avrei voluto nell'amministrazione delle faccende genitoriali, mediare senza cadere nella polemica, chiedere aiuto senza recriminare, comunicare nozioni senza dare l'impressione di dover impartire una lezione, senza far sentire comunque la mia ingombrante presenza.
Magari se dall'altra parte avessi avvertito una maggior disponibilità all'ascolto, una maggior attenzione a quelle che io ritenevo tappe importanti (ci vieni al corso pre-parto? All'incontro con le maestre? Ai giardini? Ma che. Lui sa già tutto: figuriamoci! Guarda che io ho cresciuto i miei fratelli piccoli, qui vi fate tante seghe mentali e che ci vuole a crescere un bambino?)...

La verità è che ci sono stati giorni, momenti in cui avrei avuto bisogno che fossimo in due, e non l'ho trovato. E ci sono stati momenti in cui mi sarebbe piaciuto che ci fosse anche lui, e lui non c'era, se non fisicamente, di certo con la testa non era lì. E poi ci sono stati momenti in cui ho capito che ce la potevo fare, anche accontentandomi del suo contributo minimo, e allora ho fatto da sola, e andava bene anche così: la cosa ha avuto i suoi lati positivi, niente discussioni sul come e sul perchè.
E poi c'era una cosa che mi faceva incazzare: che la colpa era sempre mia. Se lui non era abbastanza presente, era perché io non lo coinvolgevo abbastanza. Se sua figlia non lo cercava era perché la mia presenza era totalizzante. Se non partecipava alle faccende pratiche di gestione pupesca, era perché io ero troppo attaccata alla bambina e non gli lasciavo fare niente.
Gli amici senza nulla sapere della nostra vita domestica e vedendolo baloccare la pupa per dieci minuti in loro presenza, avanzavano sempre questi argomenti e non si spiegavano come io non volessi ammettere che fosse un "padre eccezionale".
Ecco, forse c'è anche questo subdolo argomento che generalmente viene utilizzato per giustificare un certo tipo di disinteresse paterno, con l'aggravante di generare (oltre al mazzo che una si fa) il senso di colpa materno.
No, no e poi no: mi ribello.
Che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Se tu non ci sei abbastanza la colpa non è certo mia. Io ho dovuto imparare a sopravvivere, mio caro, e non posso sobbarcarmi anche il peso della tua genitorialità inespressa.
Ecco. Così press'a poco è stato il nostro approccio ai ruoli genitoriali. Molto scoraggiante.
Tutt'altro che moderno (cosa ti aspettavi da uno che viene da un Pese deve le donne girano a capo coperto? Eh, te la sei cercata!)

Ma poi è vero che lui a un certo punto si è accorto che si stava perdendo qualcosa, e che, malgrado le proteste, non poteva certo dare la colpa a me, né tantomeno... a lei!
Qualcosa è cambiato.
Tornato a casa dopo una lunga assenza si è sentito "tagliato fuori".
Si è lamentato: l'ho mandato a cagare.

E poi l'ho sentito parlare con alcuni nostri amici, e fare sua una frase che era stata mia (quale gaudio!), rivolta a lui, quando si era lamentato dell'assenza di rapporto con sua figlia (non mi vede da più di un mese e invece di salutarmi mi manda via!), e ammettere con quella frase tante cose: "Stiamo iniziando a costruire un rapporto. Dobbiamo lavorarci".
Allora ho capito che ci teneva. Allora ho capito che mi ascoltava (Hasuna, ma non puoi pretendere che un rapporto nasca dal nulla: ci devi lavorare. Un rapporto va costruito!), e soprattutto ho capito che voleva provarci.

E l'ho visto provarci.
Mi tengo un po' in disparte, per quanto ancora la tentazione di intervenire spesso ci sia, e ancora ogni tanto ci casco ("Aspetta, vuole questo" "No, devi fare così").
Ma è bello vedere come inizino a ritagliarsi momenti per loro due: quando lei, la sera, lo cerca, va da lui, che mangia, gli siede sulle ginocchia, aspettando di ricevere qualche boccone dal suo piatto, di quella cena "da adulti" (lei ha mangiato già da qualche ora, perchè il padre continua a rincasare piuttosto tardino da lavoro), e poi guardano insieme la tv "della Libia", e cantano la canzone della Libia nella lingua "di babbo".
Quando sente l'esigenza di tradurre le parole: "Balena! ...Huta!" e di puntualizzare poi:"dice babbo".
Quando vuole mangiare il pollo impugnando il cosciotto con le mani, dall'osso, "come babbo" senza farselo sminuzzare nel piatto.
Quando quel mattino si è svegliata alle cinque dopo una notte tormentata (l'avevo messa a letto prima che il padre tornasse, perché era molto stanca) e quando lo ha visto, che dormiva lì accanto mi ha sorpreso con una serie di entusiastici: "C'è Babbo! Babbo! Bello bellittimo! Ha'vitto? C'è babbo! Bellittimo babbo! Bellittimo!" e ha iniziato a stuzzicarlo (naso di babbo...) finché non è riuscita a svegliare anche lui. Di dormire non se n'è parlato più, ma credo che per lui sia stato un bellissimo risveglio, anzi: "Bellittimo!"
Quando li ho seguiti dalla terrazza fare il giro della casa, giù nel giardino, piegati a guardare insetti e raccogliere rametti e sassolini che "sembravano tatta'ughe" o "lucettole", lui che fischia come un merlo e che conosce e comprende la natura perché sa osservarla e ha la pazienza di farlo, non certo perché l'abbia studiata sui libri, che certo saprà spiegargliela meglio di quanto non sappia fare io, che le insegno i nomi del glicine e della gazza, della cornacchia e dell'alloro...

E così, stupita, lo vedo tornare a casa sempre un po' prima, sperando di trovarla ancora sveglia, e quando posso, cerco di farmi da parte.


(Anche Zorro vuole partecipare al rapporto padre-figlia!)


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venerdì 29 luglio 2011

Vacanze è: tornare bambini


Ucchebella l'estate! Ma de che?
Da qualche anno a questa parte per me l'estate si riduceva a: afa asfissiante, città-forno, lungarni maleodoranti, vicoli deserti, pure maleodoranti popolati di sorci indisturbati, giornate di reclusione forzata in casa per non soccombere alla calura, sudate sui libri, serate a gocciolare sudore nei piatti della gente al ristorante, rientri post-lavorativi a ore sempre più assurde, aspettando la perenne ultima sigaretta dell'ultimo tavolo di buontemponi, rimasti in veranda a prendere fresco, odio patologico per la categoria umana del medio avventore estivo di trattorie tradizionali storiche, eco dei miei passi per le strade vuote di una città universitaria più che vuota almeno fino a settembre, la tesi che non finiva mai e gli orari estivi ridotti delle biblioteche che mi costringevano a levatacce mattutine, le sortite solitarie al mare nel giorno libero ad arrostirmi sui ciottoli della Marina, ritornando sempre un po' rintronata.
Poi l'anno scorso portavo il mio pancione a spasso in bicicletta per la città, con quel senso di arrogante orgoglio che talvolta accompagna le donne gravide, lo accomodavo al tavolino del bar all'imbrunire aperitivando con me a succo d'ananas, a leggere con me Guerra e pace nell'attesa, col mio sorrisetto da ebete stampato in faccia pensando chissà come sarà che farà a chi somiglierà e non vedo l'ora di vederla in faccia e avere una sua foto da attaccare in camera accanto alle altre.
Poi è arrivata, e io troppo impegnata a starle dietro per accorgermi che era estate, tempo di mare e gite e relax e letture.
Ottimista senza cognizione ho traslocato buona parte della mia biblioteca personale nella casa di villeggiatura affittata da mia madre in quel di Calci, ridente cittadina di media montagna nella provincia di Pisa, sede della celebre Certosa. Lì la mia permanenza è stata allietata da risvegli notturni con pianti allegati, esaurimenti nervosi miei, giorni a sballottare in giro una recalcitrante e molto incazzata pupa, passeggiate dall'esito tragico fino a giù in paese e ritorno con lei furibonda nell'ovetto, via vai di amici e familiari che si avvicendavano al mio fianco senza riuscire peraltro a domare la belva furiosa che avevo incautamente messo al mondo, libri accatastati sul ripiano del soggiorno a prendere fresco e polvere, intonsi, con mio gran disappunto. Se sono riuscita a finire Guerra e Pace è stato solo per accanimento testardo e recidivo della secchiona che ancora dimora in me, ancora non del tutto convinta a dover sloggiare dal mio corpo.
E' stata un'estate particolare, fresca, per fortuna, ma piuttosto devastante da tutti i punti di vista.

E poi, riecco l'estate, che porta a mia figlia il compimento del suo primo anno di vita e a me la novità di viverla con lei. Con lei un poco più partecipe e di piacevole compagnia.
Vacanze? Diciamo che le mie vacanze durano ormai da più di un anno: mi sono convinta a considerare la mia maternità indeterminata come un periodo di vacanza un po' faticosa, in cui ho l'opportunità di osservarla crescere, senza dovermi dividere tra lei e l'ansia di un lavoro quasi sicuramente non soddisfacente e non adeguatamente retribuito.
L'estate è diventata solo un'occasione per goderci di più il mondo insieme.
Girovaghiamo per i giardini spopolati di bimbi villeggianti altrove a conquistare castelli in miniatura fatti di scivoli pertiche ponticelli e rampe di scale, osserviamo formiche al lavoro sotto il sole di luglio e ci deliziamo del canto di spensierate cicale.
Poi, quando ci va, e il tempo lo permette, che quest'anno è un po' bizzarro, ci infiliamo in macchina e ci buttiamo in spiaggia.

Il mare con pupa è un po' diverso da come lo ricordavo in solitaria.
Certo: ho smesso di portarmi il solito libro in borsa, e in compenso mi accollo una bustona carica di secchielli, palette e formine, magari prendo meno sole, abolita la nuotata corroborante a largo, ma, credetemi, mi diverto molto di più.
La nostra spiaggetta prescelta si trova all'inizio del lungomare di Marina di Pisa, lungomare dalla storia lunga e travagliata, poiché le mareggiate si portano via la sabbia. Invano il Comune ha tentato di porre rimedio a questo accidente innalzando robusti frangiflutti di fronte alla linea di costa, e infine ha optato per sostituire la spiaggia sabbiosa con una gettata di ciottoli, piuttosto scomodi per la verità.
Solo all'inizio del lungomare è rimasta questa spiaggetta, bassa bassa, e tangenziale alla riva, una piscina d'acqua marina protetta dalla barriera scogliosa del frangiflutti, che non supera mai i trenta centimetri di profondità, perché sospetto si stia impantanando.
Insomma: non proprio la spiaggia ideale per chi voglia farsi delle gran nuotate; ideale invece per chi voglia portarvi bambini.
E infatti la nostra spiaggetta pare il giardino di un nido d'infanzia: una quarantina di bambini dai dieci anni in giù, con allegati genitori single o accoppiati, stipati in una quarantina di metri quadrati. Va da sé che si sta gli uni addosso agli altri, ma non importa, va bene così.
La pupa razzola, rotola, raccoglie la sabbia a piene mani e mi sfida guardandomi dritta in faccia, aspettando che le dica "No, in bocca no!", poi scuote la testa e ride. Gattona, striscia, si tuffa, ci si fa lo shampoo, poi galoppa sicura verso il bagnasciuga, senza curarsi se finisce, nera di sabbia com'è, su qualche asciugamano estraneo lungo il percorso, e la mamma arranca dietro.

La pupa in spiaggia guarda gli altri bambini correre e urlare, ride e urla pure lei come loro, poi mi chiede di prenderle le manine e corre con me sulla battigia, arraffa i giochi degli altri, si intrufola nelle architetture arenarie innalzate da operosi architetti in erba, entra e esce da fossati e buche.
- No, lui non può giocare con noi: è troppo piccolo!
- Guarda: ci ha distrutto tutta la fortezza! Portalo via!
Sono un disastro a mediare:
- Veramente è una bambina... dai, vi aiuto a ricostruire la fortezza. E' piccola, non vuole distruggere, vuole solo giocare con voi.
- Noi non vogliamo giocare con lei.
Lei intanto, incurante delle proteste degli ingegneri acquatici, dopo una rapida incursione in acqua, è tornata, sempre nera di sabbia e ora anche bagnata, a tuffarsi nella buca, demolendo argini sabbiosi e poderose muraglie.
- No, fermo! Gli dici di smettere?
- Oh, quante storie, dai, fate finta che lei era un mostro marino che arrivava e distruggeva tutto e voi ogni volta dovevate ricostruire da capo, no?
L'idea ha avuto un successo insperato.
- Ah ah ah! Mostro mostro! Vieni qua mostro!
- No vieni da noi, mostro!
E fu così che mia figlia divenne il mostro della spiaggia, e felice distrusse decine e decine di castelli e fortezze.
E io, che come madre forse devo ancora conquistare un minimo di credibilità, come inventrice di giochi non me la cavo affatto male.
Ecco forse perché per il resto della giornata uno stuolo di ragazzini mi è rimasto appiccicato alle calcagna.
- Voi domani tornate?
- Quando andate via me lo dici? Io sto là in quell'ombrellone.
- Quando vai via con la macchina mi fai ciao?
- Va bene, vedrò cosa posso fare.
- Ma il mostro quanti anni ha?
- Ma il mostro parla o ruggisce?
- Ruggisce, per ora.
E in effetti il mostro, manco avesse capito il ruolo che le era stato assegnato, ruggiva giulivo e soddisfatto scorrazzando per la spiaggia, seminando distruzione dietro di lei.
Ecco forse anche perché ero l'unica madre ad essere nera pure io di sabbia, e non di tintarella, da capo a piedi, mentre le altre, come diavolo facciano non saprò mai, si sporcano a mala pena la pianta dei piedi.
E poi, quando è l'ora di levare le tende, un rapido ultimo bagno a mare a togliere di dosso il rivestimento sabbioso del mostro, la avvoltolo in un asciugamano mentre lei mangia melone con gran gusto, raccattiamo i giochi in giro, salutiamo tutti, passiamo a fare una cavalcata rapida su uno dei cavallini della giostra ferma, che tanto c'è scritto: vietato salire e scendere dalla giostra mentre è in movimento, e la infilo in macchina stremata.
Ha la sabbia persino nelle orecchie.
Sulla via del ritorno stramazza nel suo seggiolino.

Bella l'estate, che fa tornare bambina un po' anche me.

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giovedì 30 giugno 2011

Io Madonna del latte? Poco credibile.

"Ma tu hai allattato?"
Ecco una delle domande più frequenti che, in quanto mamma e da quando mamma, mi sento rivolgere, senza capire bene che conclusioni il mio eventuale interlocutore crede di poter trarre da una mia risposta in senso negativo o affermativo.
Chissà per quale strano meccanismo della mente rispondere a questa domanda apparentemente semplice getta la mamma in uno stato d'animo curiosamente eccitato, in bilico tra la volontà di rassicurare l'intervistatore di turno, la necessità di giustificarsi chissà per quale insondabile colpa o negligenza, e l'orgoglio di poter rispondere che, sì, in effetti ho allattato.
E qui potrei tranquillamente fermarmi.
E invece vado avanti a spiegare a quello, che quasi sicuramente non ha la minima idea di ciò di cui io stia parlando, com'è che ho smesso al quarto mese anziché al sesto, o addirittura all'anno, come pare sia altamente consigliabile e preferibile, come io abbia provato a insistere quando ho constatato che le mie tette avevano dato tutto il possibile e che le risorse alimentari che ero disposta a elargire erano esaurite, come non mi possa dolere dell'interruzione non certo da me voluta né cercata, ma in fondo ben accolta, quando ho potuto realizzare quanto mi sentissi più riposata e in forze una volta eliminato l'appuntamento con la poppata quattro o cinque volte al dì.
E con questo non voglio dire che la cosa in sé non sia gratificante e appagante. Solo che, nel mio caso, davvero non ho sofferto di nostalgia nel perdere questa consuetudine, le cui gioie ho dimenticato ben presto, ben più presto di quanto non mi sarei mai immaginata.

Dicono quando sei incinta: "Eh, ti mancherà il pancione!" E io ci credevo, anzi: ne ero profondamente convinta, che mi sarebbe mancato. Ma tutta quella lunghissima e dolorosa trafila di 40 ore e più aspettando di eliminarlo, toglierebbe a chiunque il rimpianto di non poterselo più accarezzare con dolcezza, e sguardo sognante, perso nell'imminenza di un meraviglioso domani.
Non mi è mancato il pancione, e non mi è mancato l'allattamento, anzi, con grande mia soddisfazione ho accolto il nuovo paio di tette che Madre Natura mi ha lasciate decisamente ridimensionate rispetto a come me le ricordavo, magari un poco smosciatelle, sì vabbé, non si può volere tutto dalla vita.
E' che io come dispensatrice fisiologica di nutrimento non mi ci vedo molto. E invece ho sempre avuto questo generoso paio di bocce che mi facevano sentire piuttosto atta alla mungitura, sensazione che invece si rivelerà esser stata unicamente illusoria. E i vestiti non mi stavano mai bene, soprattutto quelli con la fascia sotto il seno, che invece a me stava sempre sopra, e le camicie non mi si chiudevano, e un viscido capo che ho avuto durante un mio periodo di lavoro in una libreria di Pisa, amava rivolgersi a me con l'odioso appellativo di Miss-puppe. Tutto questo non c'è più, da quando ci sei tu.

Ma si parlava di allattamento.
Cosa dirvi che non sia stato già detto centuplicanta volte da altre?
Di quei mesi ho ricordi fumosi e confusi, come confusi e fumosi si ricordano generalmente i sogni, indice del fatto che non ero propriamente in me.
Ricordo la stanchezza, cronica, perenne, non ordinaria. Ricordo che avrei voluto dormire sempre, se possibile, e invece dormivo sempre poco e male, e comunque mi sarei volentieri risparmiata la prospettiva di trascorrere la stragrande maggioranza dei miei pomeriggi a trottare per la città a passo da bersagliere con una pupa infilata nel marsupio, ché lei solo così dormiva per periodi abbastanza lunghi da permettere a me di ricaricarmi nevralgicamente dai suoi incessanti pianti e richieste di attenzione.
Ricordo la mia impacciataggine a dover tirar fuori 'sta tetta enorme nei più svariati contesti, ché io non son mai stata di quelle che "vive la naturalesse", e tanto meno mi sentivo a mio agio calata nel ruolo di colei che offre il proprio corpo alla funzionalità primordiale e primaria di dispensare nutrimento e vita.
Mi sentivo relegata in un universo che non mi apparteneva troppo, ecco.
Non che lo facessi controvoglia, ma... lo facevo come un dovere a cui non mi sottraevo.
I primi tempi forse la mia resistenza psicologica potrebbe aver inibito anche la mia produzione lattifera, dato che fino a qualche giorno dopo la dimissione dall'ospedale, di produzione non ve n'era stata.
E non so se sia stato un fattore naturale e fisiologico, quanto piuttosto l'errato approccio ospedaliero, che nei primi due giorni dopo il parto ha mantenuto una distanza fisica ed emotiva tra me e il frutto del grembo mio, impedendomi di familiarizzare troppo sia con lei che con il mio nuovo status, e invece di "lavorare" sulla questione latte me ne andavo gironzolando per l'ospedale in preda a un'euforia difficilmente spiegabile, se si considera quello che chiamano "crollo ormonale post partum", ad accogliere gioiosa amici e parenti. E poi, oh, è di nuovo ora della poppata, scusate, ma devo andare.

Lì nel reparto neonatologia dell'edificio, la figura tipo dell'infermiera (ostetrica?) addetta al nido era più o meno questa: un'acida giovane donna intorno ai trenta, fresca fresca di laurea, saputella e scostante, con l'invalsa abitudine di trattare come pezze da piedi le malcapitate maldestre frastornate neomadri che osavano mettere piede nel loro regno senza essersi prima adeguatamente preparate sulla materia allattamento.
Io ero una di quelle.
Non sono una che prende i problemi con un ampio margine di tempo per l'azione.
Durante la gravidanza ho partecipato ad un corso pre-parto informativo in cui però la parte relativa all'allattamento, come ci dissero, era stata eliminata dal programma, poiché si era rivelata essere piuttosto inutile. Quando ci spiegarono in cosa consisteva questa parte del corso, fui d'accordo con la definizione di inutile. Consisteva dunque nel tenere in braccio a turno un orso di peluche delle dimensioni approssimativamente simili a quelle di un neonato, e nel mimare con lui in braccio il gesto di portarlo al seno. Ora la cosa, solo a pensarci, mi appariva grottesca e farsesca.
E infatti credo tuttora che fosse una pratica piuttosto inutile, come potrebbe confermare qualsiasi donna che abbia avuto a che fare con un neonato da allattare al seno.
Non c'entra molto con un orsacchiotto di peluche.
Il bambino appena nato è tutto floscio e casca da tutte le parti. L'orso no.
Il bambino ti dà l'impressione che se lo prendi male si rompa, che ti cada, che stia scomodo. Con l'orso non ti poni certi problemi.
Infine il bambino appena nato sembra trovarsi perennemente in uno stato letargico, dal quale ti sembra quasi un delitto doverlo riscuotere per potergli somministrare quel nutrimento che lui non si sogna nemmeno di chiederti.
E infatti Suster trascorreva un buon due terzi del tempo a disposizione per la poppata a contemplare la sua meravigliosa pargola dalla nera zazzera di capelli e occhi da cinesina, costantemente chiusi dal sonno. Credeva infatti che anche quella contemplazione estasiata facesse in qualche modo parte del complesso processo di instaurazione del rapporto madre-figlia, e pazienza se poi la pupa non si attaccava. Ma svegliarla, come potevo?
Così che ero sempre l'ultima ad attardarmi nel nido e, quando le altre rinfoderavano soddisfatte le proprie tette nei capienti reggiseni a scomparti estraibili, io stavo ancora lì a combattere con le mie, e mi attardavo ben oltre l'orario predisposto alla poppata. Le bambinaie laureate scalpitavano. Quando si dice: rispettare i tempi e le naturali esigenze del bambino (e della mamma, aggiungerei, la quale ha tutto il diritto di essere imbranata, cribbio!).
Comunque ben presto venni aspramente redarguita dalla capo-nursery miss-sottuttoio con queste parole: " Ma ragazze, possibile che vi ci voglia un'ora per allattare? Eh, su, svegliatevi un po'!"
Che nel mio caso non era proprio un invito fuori luogo. In effetti ero un pochino imbambolata, e non vedevo l'ora di potermene andare a casa mia a fare le cose nell'intimità delle mie stanze e senza nessuno che mi facesse sentire un'idiota se non riuscivo ad attaccare la bambina. Credevo io.

Ovviamente quel giorno arrivò e la scena che si verificò fu questa: io sola in casa, pupa urlante in braccio affamata e molto incacchiata. Di latte nemmeno l'ombra. Eravamo passati al supermercato a comprare il latte in polvere, ma nello stordimento generale, che a quanto pare aveva coinvolto anche il padre, c'eravamo dimenticati il biberon. Lui poi era andato a lavoro, e io mi ero accorta troppo tardi della dimenticanza, e allora spedisci mia madre a comperare l'indispensabile strumento, mentre io tentavo di imbonirmi la piccola.
Due amici arrivarono in quel frangente in visita e mi trovarono nel panico più totale. Scapparono via costernati dalle urla della dolce frugoletta per mai più tornare.

Attaccare la pupa al seno fu quanto di più doloroso le mie povere tette avessero mai sperimentato.
Il giorno dopo la dimissione dall'ospedale mi ritrovavo con due vulcani paonazzi laddove un tempo avevo due prominenti seni. Non saprei dirvi a che taglia di reggipetto io fossi arrivata poichè ormai giravo per casa coi vulcani al vento, avendo rinunciato a indossare qualsiasi indumento che mi potesse conferire un minimo di decenza, poiché qualsiasi contatto con la stoffa mi procurava grande dolore.
I vulcani erano paonazzi e gonfi all'inverosimile, ma dall'alto non stillava una goccia del prezioso liquido vitale.
La pupa intanto rivelava il suo reale carattere che finora aveva tenuto ben celato ai nostri occhi, forse nel timore che potessimo pensare di abbandonarla all'ospedale, e lasciare che fosse cresciuta dalle saccenti infermiere della nursery. Sbraitava e vieppiù si incaponiva e infieriva sui miei poveri incolpevoli vulcani doloranti con unghiette sufficientemente lunghe e affilate da procurarmi dolorosissimi graffi, al punto che mi vidi costretta a infilarle due calzini nelle mani per frenarne la furia distruttrice.
Fu allora che iniziai a dubitare di amare davvero mia figlia.
Tutto questo che vi ho descritto lo troverete nei manuali sotto la voce "ingorgo mammario". Care future mamme, vi auguro di non sperimentarlo mai.
Alla sera del secondo giorno toccai la pupa e mi sembrò che avesse la febbre. Sbagliavo: ero io ad avere la febbre, e stavo una merda. Sempre ingorgo mammario.
E qui vi faccio fare conoscenza con un altro simpatico strumento di tortura che si chiama "tiralatte".
Va infatti il padre nottetempo ad acquistarne uno in farmacia alla modica cifra di chevvelodicoaffare, meglio lasciar perdere, perché così aveva prescritto l'amica ginecologa di mia madre per telefono, per "sgorgare" i vulcani.
Il mio era un tiralatte a pompetta, che ora che ci penso potrei ritenere in parte responsabile della successiva tendinite carpale che mi porto dietro ormai da mesi.
Pompa pompa alla fine qualcosa esce: antiestetico liquido giallo opaco dalla consistenza simile a quella del burro fuso.
E fu così che finalmente allattai.
Tralascio i casini con gli orari, le paranoie, le indicazioni discordanti del pediatra, allatti troppo, allatti troppo poco, fai passare troppo tempo tra una poppata e l'altra, no ne fai passare troppo poco ecco perché 'sta bambina c'ha sempre le coliche.
Tralascio bilancia, pesate, nuove paranoie, ma sta bambina mangia o no? Ma l'aggiunta glie la devo dare? E svegliarsi mezz'ora prima per tirarmi il latte che ieri sera questa tetta non l'ho munta e ora mi sta per esplodere. Ma perché appena la prendo in braccio io inizia a piangere? Ecco, da me ci viene solo per mangiare, mi vede come una tetta gigante, io non ce la faccio più mi fa male la schiena, e addormentarmi con la cervice a novanta gradi reclinata su lei addormentata al seno che non ha fatto il ruttino e quindi mi ha intanto anche rigurgitato addosso.
Bellissime istantanee di vita che darei volentieri alle fiamme.

E quando finalmente credi di aver preso il ritmo, finito tutto: le erogazioni chiuse.
E allora ci provi per un po' con l'aggiunta artificiale, magari poi riprende, però mi raccomando falla attaccare se no non stimola il latte. E quella che ancora piange perchè non esce niente.
Ok, sono passati quattro mesi, che faccio? Diminuisco le poppate?
Stiracchia stiracchia, il latte è sempre meno. E allora sai che si fa?
Basta finiamola qui. Ma ora la bambina rimarrà traumatizzata, come farà senza la tetta di mamma, nutrita ad uno sterile (si fa per dire) arido biberon di latte in polvere ricostituito?
Ma la bambina nemmeno si accorge del passaggio di testimone.
Afferra soddisfatta il suo biberon e da quel momento vuole cambiar pure postura: non più adagiata sulle ginocchia di mamma; ora il latte si prende da seduta, e alla mamma si danno le spalle, così si può avere miglior visuale del mondo di fronte.
No, alla pupa non sembra esser mancato particolarmente il seno. E neanche a me l'allattamento. Niente traumi, tranquilli tutti.
Ecco: io come Madonna del latte continuo a non vedermici gran che. Archiviata momentaneamente e a tempo indefinito quella fase di mia vita, di cui non conservo quasi immagine visiva, nemmeno su carta fotografica.

Niente foto di me puppe all'aria mentre dispenso vita alla mia dolce frugoletta. O quasi!
Dico quasi perché una ce l'ho. E faccio questo sforzo di pubblicarla: la mia versione della Madonna del latte. Eccola:


Beh, chiarissimo, no? Direi che parla da sola. Scattata a tradimento. Io che ho una faccia tipo: "Minchia guardi?". E se ci fate caso, c'è pure Panzumen, che se la dorme beato, lì accanto.


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