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mercoledì 17 aprile 2013

Presentazioni.

Come al solito sono una gran cafona.
Mi capita sempre, eh! Che quando sono in compagni di qualcuno, tipo di un amico, e incontro qualcun altro, tipo un altro amico, e i due non si conoscono, mi fermo magari a parlare mezz'ora, e solo dopo aver chiaccherato amabilmente tra loro, ignorando i reciproci nomi e ruoli, i due alla fine si rassegnano: "Io comunque sono Tizio..." "Piacere, io sono..." Perchè io puntualmente non li presento.
Non lo faccio con cattiveria, né per gelosia, né per altro sentimento malevolo, sia chiaro, ma solo per rincoglionimento.
E cafonaggine aggiungo.
Ci credete?
Beh, chi vuole crederci lo faccia.
Tutto ciò per dire che l'ho fatto anche stavolta: ho saltato le presentazioni, e sono passata subito alla fase successiva, quella dei miei post sfasati in cui elenco a casaccio persone ed eventi dando per scontato che uno li debba conoscere.
Diciamo che l'ho fatto per esigenze di tempo, e mancanza di concentrazione necessaria a scrivere un post decente di presentazione, e mancanza di coordinazione bioritmica delle mie due pargole, che mi hanno reso assai difficile il proposito di dedicarmi seriamente a queste pagine...
Ma la faccio finita, ché se no non concludo nulla neppure ora, e ci provo, a fare una presentazione come si deve, anche se mi sento molto fuori allenamento, e se non dormo sodo una notte di fila da un po', e anche se nel frattempo tendo l'orecchio ai rantoli di lei che provengono dalla carrozzina accostata qui a fianco, quella che fu di Mimi, e che ora circola di nuovo per casa, inchiodandosi contro stipiti di porte e incastrandosi tra il tavolino di legno dove Mimi realizza le sue opere d'arte e il cumulo di scarpe di Hasuna, incarnando i desideri più irrealizzati dei gatti, che puntualmente ci riprovano, a farne il loro giaciglio, ma vengono malamente dissuasi e frustrati in questa loro inconfessata aspirazione.

L'abitante della carrozzina.
Colei che ha fatto saltare tutti gli equilibri umani e relazionali di questa casa, probabilmente spingendoci a migliorarli, e comunque rendendo necessario un ridefinirli.
Colei che ha reso urgente un ennesimo resetting delle nostre vite, e anche un parziale refreshing abitativo, ancora in fieri per la verità, portando ancora una volta sull'orlo del baratro esistenziale la mia autocoscienza, costringendomi a cercarmi in una nuova identità, perché in quella vecchia non riesco più a riconoscermi, e quella che sono ancora non so... e tu che pensavi che ormai il grande salto l'avessi fatto quando sei diventata mamma la prima volta. E invece eccoti qua ancora che stenti a raccogliere tutti i fili, spiazzata dalle tue emozioni, disorientata da una vita che non c'inzerta più con quella vecchia, con i ritmi che avevi preso, con i tempi e le cose che facevi per riempirli, con i tuoi propositi a breve e a lunga scadenza.
Tergiversi, intanto, e ancora non hai iniziato a parlare di lei, ma solo di te, e ancora una volta sei scivolata dalla prima alla seconda persona, nel riferirti a te stessa, indizio evidente del tuo attuale smarrimento d'identità...

La prima volta che l'hai vista hai pensato: "Ammazza, che capoccia! E ci credo che mi so' fatta un mazzo tanto per farla passare da lì sotto!" Più o meno, ma la prima frase l'ho proprio pensata para para: "Ammazza che capoccia!"
La prima cosa che ho visto è stata la sua capoccia, bella tonda e liscia di capelli neri, ben spartiti a ciocchette sulla fronte, paonazza per lo sforzo o forse per la contrarietà di esser stata così brutalmente sfrattata dalla sua conca di comfort e oblio, bruscamente espulsa in un mondo fatto di stimoli per lo più fastidiosi, e mani che ti prendono, e luci che ti abbagliano, e voci che ti confondono...
Poi me la sono presa con calma e ho provato a conoscerla meglio.
Ho scoperto che non era semplicemente un doppione di sua sorella, l'incarnazione inquietante di un mio deja-vù esperienzale, un temporaneo lapsus della memoria.
Lei era una persona nuova, con sue attitudini e peculiarità caratteriali già parzialmente definite, evidenti all'occhio di una mamma, sia pure la più rinco, quale io mi ritengo, almeno quanto evidenti sono le differenze che ho riscontrato nella sua fisionomia, che a un primo sguardo mi richiama tanto quella di Mimi neonata.
Le orecchie tonde anzicchè a punta, da elfetto, come le aveva Mimi, le ciglia sottili e quasi invisibili, le guance e la pappagorgia da bambolotto pacioccone, contro la precisione miniaturistica dei lineamenti fini di Mimi, che sembravano dipinti dal pennello sottile di un artigiano sul volto impeccabile di una bambolina di porcellana...

Lei spalanca strani occhi grigi e senza ciglia e ti scruta seria, ché sembra ti interroghi, o forse solo che cerchi di capire il senso del tuo stare là, e del suo stare qua, o forse solo che ti dica: "Eccomi, conosciamoci. Tu sei mamma, giusto? Io sono quella della pancia, quella per la quale hai già perso tante notti insonni, che ti ammaccava le costole, che ti costringeva lo stomaco trasformando in bruciori e reflusso ogni tuo pasto, e finanche il tuo più esiguo spuntino. Sono quella che sentivi gli ultimi tempi traslocare da un lato all'altro del tuo utero con grandi stravolgimenti di addome. Sono quella. Mi riconosci? Io ti riconosco."
Perché quando lei ti guarda ti senti riconosciuta, e quasi sgamata.
E rimani a chiederti cosa mai starà pensando dietro quella fronte aggrottata, quando poi alla fine socchiude gli occhi e la vedi che medita, medita, talvolta appoggiando la mano al mento, ché lei, signori, è una gran pensatrice, oltremodo riflessiva, una filosofa, forse, chissà. Medita e gesticola, che pare stia provando tra sé un'orazione, atteggiando il volto a una serie ininterrotta di espressioni mimiche di rara intensità.

Lei per lo più è tranquilla, e raramente si lascia andare a scenate isteriche o ad immotivati explois vocali. Non sbraita, pigola. Protesta al limite, se è contrariata da qualcosa, soprattutto se le sue rimostranze vengono a lungo ignorate.
Per esempio detesta stare nuda. Ma è paziente, e aspetta di venir spogliata, cambiata e lavata all'occorrenza. Collabora perché ha capito che è un fastidio a breve termine. Perde la pazienza solo se la cosa si prolunga più del dovuto.
Si gestisce abbastanza in autonomia in fatto di mangiare e dormire. Ha imparato presto e bene  l'utilizzo e il funzionamento della tetta, è paziente e si impegna a fondo quando non si ritiene soddisfatta del rancio, senza inutili proteste e rimostranze, allora, si concentra e ci dà giù di suzione con una costanza e un'energia ammirevoli.
Dura cosa la lotta per la vita: procurarsi il cibo è un lavoro che sfianca, e non parliamo della digestione... e dell'evacuazione! Eppure lei dimostra anche qui un non comune stoicismo nell'affrontare le rognose coliche neonatali. Un po' di lamenti, qualche ué-ué, ma poi la vedi al pezzo, concentrata, determinata, focalizzata sul problema, aggrotta le sopracciglia e... parte lo scorreggione. E poi relax.

Non ha preferenze in fatto di musica, ma non le piace il silenzio. Per ora dimostra di apprezzare molto melodie soffuse, flauti irlandesi, arpe new age e tollera fin troppo le strida e gli schiamazzi della sorella maggiore, che non ha alcun riguardo per i suoi stati di sonno o di veglia. A quanto pare ama la compagnia, e non disdegna le occasioni di vita sociale.

Pare proprio non abbia difetti... se solo dormisse un poco di più la notte!

Signori e signore, ecco a voi: Rania.



domenica 24 marzo 2013

Scontri generazionali.


Sarà il sentore che qualcosa nell'aria sta cambiando, e non hai ancora ben chiaro cosa: nuovi arrivi, nuovi ritmi, mobili nuovi, e il tentativo maldestro di mandarti al nido senza di me... che ha fruttato, mi hanno riferito, pianto disperato fino al vomito...

Sarà pure che di tuo ce li hai 'sti periodi di nervosismo estremo che tutto è no, e se puoi contraddire in qualche modo lo fai, opposizionista della peggior specie con intervalli di frenetica attività ludico-distruttiva,  fautrice di smaronamenti materni vari e gravi attacchi di stress felino...

Vogliamo giustificarti, almeno in parte?
Sarà che 'sto catarro non ti dà tregua, e non riesci a dormire due ore filate senza farti una buona mezz'ora di tosse che sovente degenera pure in svomitazzate varie su lenzuola e pigiamini... e quando uno perde il sonno, in questo ti capisco eh, possiamo anche fargli passare liscia qualche scenata da pazza furiosa...

Sarà pure un pochetto che è arrivata la nonna a casa, e tu, paraculetta che altro non sei, hai capito benissimo come approfittartene, ché quando ti pare è "Nonna! Nonna!" e quando ti pare è "Mamma! Mamma!", e hai capito benissimo che esistono sottili linee di confine oltre le quali non posso andare per non interferire con il vostro rapporto, pena gravi crisi diplomatiche interne, che la vicenda dei Marò a confronto è acqua di rose...

Sarà pure un po' di tutto ciò messo insieme, come suggeriscono i miei consulenti pedagogici a distanza (leggi: zia Gunchina).

Sarà pure, ma...
Ciò non toglie che in questi giorni sei indiscutibilmente una gran rompiballe, e visto che almeno tu per ora non leggerai queste righe, qui lo posso anche scrivere: a volte mi stai profondamente sulle palle, sappilo!

Tipo quando dopo ogni pipì devo rinfilarti mutande e pantaloni e te ne scappi nuda come ti generai in giro per casa e devo andarti a recuperare sotto il tavolo con la panza che mi struscia a terra.

Tipo quando ti divincoli come un'anguilla mentre tento disperatamente di centrarti la testa con l'apposita apertura della canottiera.

Tipo quando perdo mezz'ora buona a tentare di sgarbugliare quella massa di stoppa che hai sulla sommità del capo e che ci ostiniamo a chiamare capelli e quando finalmente (NB: sempre inseguendoti nel frattempo per casa mentre tu corri dietro a Panzumen o dissemini tovaglie in giro) riesco a sbrogliarne fuori qualche ciocca, ti saltano i cinque minuti e in un raptus isterico ti cacci le mani in testa e vanifichi tutto il mio operato al grido di: "Non le voglio le codine!"

Tipo anche quando ti devo ripetere in tutti i modi e fino allo sfinimento di non seviziare i gatti, che alla fine mi auguro che quelli perdano la pazienza e ti castighino a dovere a suon di unghiate, ma nel frattempo temo per l'incolumità dei tuoi bulbi oculari, ché non sei nemmeno tanto sveglia  e dritta come credi di essere, e piazzi loro sempre il viso ad altezza zampa unghiuta, che se io ti dico "non tirare la coda a Panno", tu stringi più forte, che se quello emette penosi gemiti di dolore e panico, tu ridi e ti ci sdrai sopra, che se Zorro se la dorme tranquillo in qualche angolo remoto della casa tu lo soffochi con il piumone...

Tipo quando ti diverti a fare i dispetti, anche autolesionisti, e ti cacci in bocca qualsiasi schifezza, dalle bustine di cellophane ai croccantini dei gatti, dai frammenti delle sorpresine Kinder non adatti a bambini di età inferiore ai 36 mesi  ai sassetti che stacchi dalla suola delle tue scarpe...

Tipo quando ci metto due ore a farti dormire, e dopo storie varie e canzoncine a manetta mi pigli pure per il culo e mi piazzi le ginocchia nello sterno, o mi infili un piede tra le cosce, e un dito nel naso, e mi lecchi la mano, finché non sclero, e quando finalmente riesco a narcotizzarti e riemergo esausta dalla camera pronta a godermi almeno un'oretta e mezza di libertà pomeridiana, dopo mezz'ora sei già di nuovo sveglia e pronta a rompere la palle come prima e più di prima...

Tipo quando è ora di cena e ti impunti che vuoi fare il bagnetto, facciamo il bagno e dici che vuoi ballare, dobbiamo uscire e vuoi vedele Lobin Hood, ci prepariamo per la nanna e alzi la lagna che vuoi andare sull'olopattino...
E se ti devo mettere il pigiama vuoi la maglietta, e dopo 70 pagine di fiabe in filastrocca frigni che volevi tre libri. Dopo i libri vuoi la canzone della palla (per inciso: quale accidenti sia ancora non l'ho capito), e dopo cerchi il "pupazzo di neve" e dopo vuoi l'acqua e ti autoprovochi la tosse, e dopo dici che non vuoi fare la nanna: vuoi fare la colazione...

Tipo quando ho preso un appuntamento premurandomi di fissare un'ora abbastanza in là da riuscire a fare tutto malgrado il tuo ostruzionismo ostinato, e mi fai arrivare lo stesso in ritardo di mezz'ora perché: i calzini no, e le scarpe le metti alla rovescia, e la giacca la devi mettere tu ma ti incarti con la cerniera e te la prendi con non si sa chi, e quella rosa non la vuoi, vuoi quella blu che è ancora bagnata, e la faccia non te la fai lavare, e la colazione non la vuoi fare ma poi quando finalmente sei vestita e (in qualche modo) pulita, ti viene in mente che vorresti proprio mangiare uno yogurt...

Tipo quando ti sto appresso una mattinata intera, tra giostre e raccolta di fiori a tappeto ai giardini impantanati, e poi torniamo a casa e ti pianti sulle scale e vuoi stare imblaccio, e ti ricordi che non volevi andare con la macchina ma con la bichicletta, e che non volevi andare alle giostre del mercato ma a quelle glandi, e il fiore giallo è caduto dalle scale e pretendi che io scenda due piani a raccogliertelo...

Tipo quando la minestra non la mangi, e mi chiedi la pasta con le zucchine, però poi quando te la faccio la sputi nel bicchiere e dici che vuoi la stracchino sul pane, per poi spalmartelo sulla maglietta, mi fai sbucciare il mandarino e poi te lo infili a spicchi nei calzini, e mi sfinisci perché me lo mangi io, che notoriamente non sopporto gli agrumi...

Tipo quando sto cucinando e tu intanto mi scappi in terrazzo e giù per le scale. Scalza, mentre piove, e devo correre a raccattarti sullo zerbino degli inquilini del primo piano con il soffritto di cipolla che mi si carbonizza nella padella e caricarti su di peso mentre mi gridi "Blutta! Vai via! Sei blutta e scleanzata!"

Va bene tutto, mia cara piccola piantagrane, ma sappi che rimpiangerai questi giorni quando mamma non sarà più tutta quanta per te, e non avrà le energie e il tempo per giocare con te con il didò, e per leggerti dieci libri al giorno, e per fare il puzzle di Biancaneva e per fare le passeggiate i bichicletta...

Magari una parte di te lo ha già intuito ed esprime così la sua indignazione e ribellione?
Forse questa prospettiva dovrebbe o potrebbe straziare la mia fragile coscienza di madre, ma no, al momento sto solo tentando di reprimere l'impulso a strozzarti.

In ogni caso: non mi esasperare o lo sai che fine ti faccio fare?


Ci metto un attimo, eh!

giovedì 18 ottobre 2012

Il bello di questo "periolo"

Però poi ci sono anche tante cose belle, tanti bei momenti, che mi si dischiudono davanti agli occhi come boccioli inattesi, tra tante insicurezze, e sono quelle sensazioni che da tempo non provavo, che forse pensavo di non provare più o che avevo dimenticato di aver mai provato, momenti che si creano così su due piedi, senza programmi e senza averli messi in conto.
Come quello di fare dei progetti in due, costruire un futuro insieme, fantasticare su un obiettivo comune.
Come i nostri viaggi su e giù per il contado circostante la città, gli appuntamenti per vedere, confrontare fotografie con impressioni di prima mano, confrontare impressioni reciproche, interrogarsi con gli occhi di fronte a estranei, risalire in macchina e iniziare a raccontarsi a vicenda gli appunti presi mentalmente.
"Hai visto la cucina? Se ce la lasciano è buona."
"Hanno ripitturato da poco ma l'intonaco sotto è tutto fracico."
"Il giardino è bello ma la casa è un po' una tristezza."
"Hai sentito come gli puzzava l'alito al proprietario?"
"Non mi fido di questa agenzia, mi sembrano un po' furbastri."
"Rispetto all'altra, questa è più bella, ma non ha spazio fuori."
"Dice che va rifinita, ma solo per il tetto ci vorranno almeno 5000 euro!"
"Va bene, prendiamo l'altra casa più il giardino di questa, si può?"
"Lì magari ci mettiamo un'altalena, e una poltrona a dondolo."
"Quella stanza sotto è utile quando viene a trovarci tua madre."
"La camera dei bambini è troppo piccola"

Come se tutto fosse fosse possibile, già tutto in mano nostra.

Come sentire la tensione dello star per compiere un passo importante, il silenzio carico di attese e pensieri, che entrambi avvertiamo e non abbiamo modo di interrompere, quando sai che l'altro sa cosa ti ronza per la testa e sono più o meno gli stessi pensieri che ronzano in testa a te, e ti stringe la mano forte, o una carezza indugia sul ginocchio, a dire ci sono, siamo in due, e tu capisci.
E ritrovare complicità, e tenerezza, e sentirsi compresi, cercare un punto d'incontro, saper rinunciare alle proprie priorità.

Come quando di notte non si dorme in due, e ci si rigira e ci si rigira, illudendosi che sia colpa della posizione scomoda, del caldo, delle zanzare, del cuscino, ma poi dici: "Non dormi neanche tu?"

E decidere all'improvviso di passare una domenica diversa, prendere e andare, per una volta senza pensare a quanto spenderemo.

E avere una conversazione al telefono con mia madre più lunga di cinque minuti, e riuscire a dirle tutto quello che provo, e sentirmi finalmente appoggiata, sostenuta, aiutata.

E ricevere tante visite di amici e passare insieme giorni piacevoli, tranquilli, senza bisogno per forza di fare chi sa che, recuperare consuetudini allentate, incontrarsi per caso al supermercato e cercare una data comune per organizzare una sera insieme, ridere constatando che il primo week end disponibile per tutti e quattro sarà tra più di un mese, e fissare il promemoria sul cellulare, ché se non si fa così ci si perde di vista di nuovo, e la pupa intanto nel carrello protesta che si sta annoiando, allora rimaniamo così, che si cena insieme tra un mese e mezzo.

E il sole che torna ad affacciarsi dalla cortina di nuvole dopo i primi giorni di grigio e i primi freddi e ti scalda la pelle e il cuore.

E sentire la necessità di tenere traccia di questi momenti, di fissarli nella parola scritta, di scattare foto a casaccio, sapendo che ripenserai ad essi come ai momenti forse più belli della tua vita, e ti viene in mente una canzone triste che dice: supponiamo dei giorni a creare ricordi...

E sapere che tra di noi c'è già un'altra persona, che non si vede e non si sente ancora, ma che già esiste, e per una volta evitare di pensare al dopo, al come sarà, al ce la farò? Ma provare a godermi l'ora, questi ultimi istanti di noi tre, sapendo che dopo, ancora una volta, tutto cambierà in maniera irreversibile, e non sarà necessariamente più bello o più brutto, ma sarà diverso, e allora provare a mantenere dentro queste sensazioni, dell'attimo che precede, di quel che siamo e che non saremo più, senza rimpianti.

E trovarti in fila alle poste con due studentesse alle prime armi, l'accento smaccatamente cagliaritano, la testa piena di progetti e di argomenti accademici, le parole dense di entusiasmo per un mondo a loro nuovo e adulto, e rivedermi in loro, ma accorgermi che in fondo quei dieci anni che ci separano, si sono scavati una trincea che somiglia più a un'abisso, e che ci sono, eccome se ci sono, e che non sono passati inutilmente, ché per fortuna non sono più quella persona, e non lo rimpiango.

E gli occhi nocciola della mia bambina che ride e cresce e scherza e le sue parole inventate, le sue canzoni improvvisate, il suo modo esilarante di raccontarmi il contenuto dei suoi sogni e cosa ha fatto a scuola, le canzoni nuove che impara al nido e che tenta di insegnarmi.

E gli abiti di qualche taglia fa riesumati dal mio armadio per adattarsi alla mia nuova conformazione fisica, chè dopo tutto meglio che li sfrutto ancora che se no non li avrei più messi, e per fortuna che non li avevo ancora buttati.

E la pupa che dice: "Mamma, guadda come sono grrrande in questo periolo". E ancora la pupa che canta Tanti auguri a mamma per due giorni di fila, e quando poi è arrivato il momento di cantare se ne esce con "Tanti auguri a Pinocchio".

E accorgerti di quanto sia fuorviante l'insana abitudine di stilare bilanci ad ogni nuovo avvicendarsi di quella data fatidica, che sempre porta con sé un po' di malinconia e sconforto, quando ti sembra che i tuoi obiettivi siano andati persi per strada, e invece poi a guardare le cose da un'altra prospettiva pensi che è proprio così che avresti voluto festeggiare i tuoi 31 anni, con una bambina in braccio e un'altro dentro, e il tuo uomo accanto.









domenica 1 luglio 2012

Duetto monodico.

(Illustrazione di Roberta Angeletti)
Mi è venuto in mente l'altro pomeriggio, mentre portavo la pupa al mare. E pensavo: ma chi me lo fa fare di sfacchinare così per un due orette a rincorrerla su quella striscia di sabbia sporca e perennemente umida, martoriata dalle palette di frotte di bimbi affamati di estate, stipati su un dieci metri spiaggia artificiale, in una piscina livello ginocchio di acqua di mare piuttosto stagnante, chiusa dal frangiflutti perché le mareggiate non si portino via del tutto quel residuo di rena iperaffollata, mentre lei lascia pedate di sabbia sugli asciugamani altrui e tenta per l'ennesima volta di prendere il largo a piedi approfittando della mia momentanea distrazione, presa come sono dall'edificazione della sua personale fortezza silicea, e si rifiuta di darmi la mano mentre l'acqua le arriva già alla gola e la più piccola oscillazione della superficie basta per farle perdere il precario equilibrio e ha già la testa sott'acqua e beve sorsate d''acqua salata prima che io possa afferrarla per le ascelle ed estrarla ché non anneghi sotto il mio sguardo vigile.

E intanto siamo ancora sul pullman, e io già penso a dopo, e l'autista ha una guida disinvolta e sportiva, che fa sì che la pupa, che pretende di star seduta da sola, sul suo sedile di fianco al finestrino, venga sbatacchiata di qua e di là, e ad ogni curva e ad ogni frenata mi aspetto che decolli verso i posti in prima fila, e l'afferro per una caviglia suscitando le sue più sentite proteste: "No, mamma! E' mio il piedino! E' mia la poltrona!".

- Pronto, dove siete?
- Stiamo andando al mare, io e Mimi.
- Con chi?
- Da sole.
- Ah, e come andate?
- Lascio la bici alla stazione degli autobus e poi prendo il pullman fino a Marina. Vuoi venire con noi?
- A marina?
- ...
- Mh. No.

La verità è che non mi interessa nulla di farmi le vacanze ideali. Non mi interessa il mare ideale, la spiaggia ideale, spiaggiarmi unta d'olio abbronzante esponendo un corpo scolpito a fatica nei lunghi mesi invernali appositamente per la "prova costume" (ah! Dannato lessico pubblicitario!).
E tutto sommato non mi rammarico nemmeno di aver perduto le mie solitarie incursioni lampo munita di asciugamano e mattonazzo cartaceo, le mie lunghe sessioni di lettura sulla riva conciliate dallo sciabordio delle onde, interrotte solo dai miei frequenti tuffi per prender fresco, chè il sole sulla pelle non l'ho mai amato troppo, e il mare per me non è mai stato sinonimo di "tintarella".
Sono  felice quando la vedo entusiasmarsi di tutto, portarla a passare un pomeriggio, poche ore fuori città, misurare il proprio coraggio e la propria indipendenza avventurandosi nell'acqua bassa, via via sempre meno bassa, insozzarsi di sabbia fin tra i capelli e concludere il pomeriggio con un giro sulla "macchina di Aladino" (1 euro e 50 un giro in giostra? Ma dove andremo a finire? Ah, ai miei tempi...)

Non ho bisogno d'altro per stare bene, che di vederla stare bene. Ho smesso da tempo di pensare che potrei essere più felice di così, che la vita potrebbe essere più facile. So che non è vero, che ciò che possiedi non ti rende più soddisfatto, di te, della tua vita. Se mi è permessa una citazione un po' pulp, mai come ora sono più che convinta che davvero le cose che possiedi, a un certo punto ti possiedano, nella misura in cui senti di non poterne fare a meno, che la tua realizzazione è legata al loro raggiungimento, alla loro permanenza e mantenimento.
E davvero, sentire di essere indipendente da tutto, di potermene andare al mare con mia figlia anche senza bisogno di una macchina, due borse in spalla e lei a cavalcioni su un fianco, mi fa stare bene, in armonia con me stessa, in pace, senza nulla desiderare, nulla chiedere di più, un poco anche compassionevole verso chi non riesce a fare a meno delle comodità che si è sempre concesso, ed è lì ancora a lamentarsi dei parcheggi inesistenti e del prezzo di un posto prenotato in spiaggia con ombrellone e sdraio, e anche di chi si rifiuta di starci, corpo a corpo con questa umanità vociante, e un po' panzona, di asciugamani confinanti e pedate di sabbia in faccia, insalata di riso e cocomero al sacco, e se ne rimane ormeggiato a largo di calette irrangiungibili per i comuni mortali, a fare tuffi e sorseggiare drink da barche che solo il carburante per una giornata di relax ci parte lo stipendio mensile di un manovale.
Ne ho conosciuti, di questi ricconi, e non mi son sembrati più felici di me neppure con la loro attrezzatura da sub nella rimessa del barcone e la moto ad acqua con cui improvvisare spedizioni nelle grotte. A dirla tutta ricordo quella giornata in barca con quei ricconi come una giornata un po' penosa. Noi due ci guardavamo a disagio, sapendo che non era quello il nostro posto, che per quanto splendido quel mare dove ci avevano portato, non ce lo stavamo godendo come quando attraversammo Cape Corse in bicicletta, dormendo a sbafo nei camping a pagamento e mangiando fichi d'india sulla via.

Ed ecco com'è che ci ho pensato, proprio l'altro giorno mentre andavo al mare con la pupa.
Pensavo a quel ragazzo allegro e irriverente che girava per le strade deserte della città notturna con le mutande infilate in testa, per gioco e per raccogliere una sfida.
Pensavo a quelle corse sulla bici senza sellino lui davanti e io dietro, in piedi sul portapacchi, che schivava i passanti gridando loro in un italiano da flagello di Dio: "Non ce l'abbiamo i freni! Non ce l'abbiamo i freni!", il mocio in spalla, perché andavamo a pulire il pavimento del sottopassaggio della stazione, impiego ottenuto per procura di un tizio losco di nostra conoscenza che si pigliava tutti gli appalti di lavori del Comune e poi se li rivendeva a compensi da schiavista.

Pensavo anche allo schifo di quel sottopassaggio, al puzzo di piscio umano, a quel cinese che è passato sul pavimento bagnato a lavoro finito e tu che gli hai gridato, assai politically scorrect, e very pisan slang: "Oh, Cinese! Levati di 'ulo! La maiala de tu ma'!", ma anche all'orgoglio di chi a testa alta è fiero di fare bene anche il lavoro più degradante e alla spensierata noncuranza con cui spazzolavamo metri quadri di lastricato, fregandocene dell'oggi ed entusiasti per il domani.

Pensavo a quel ragazzo che era felice con nulla, e che metteva allegria intorno, che contagiava tutti col suo buon umore, che invitava tutti a casa sua, che fermava sconosciuti per strada offrendo loro da bere, nelle fredde serate di inverno, e portava in giro carrelli della spesa piedi di lattine di birra da due soldi, comprate all'Eurospin, e casa sua era sempre piena di voci e accenti diversi, e gente che rideva e tutti si sentivano a casa loro, sin dal primo momento in cui vi mettevano piede.

E pensavo a quel ragazzo che non si era mai curato dei soldi, sempre troppo poco dei propri diritti, che in nome di presunte amicizie finiva sempre per dare a fondo perduto, in tutti i sensi, e non ritirava neppure i vuoti a rendere, e non teneva mai il conto di quello che offriva, mai a mente ciò che prestava, e si curava sempre delle persone più che degli oggetti.

Pensavo a quel ragazzo che non aveva mai pudore di mostrarsi per quello che era, e che per questo tutti amavano, che non si faceva mai pensiero di essere fuori contesto, o di non essere all'altezza di situazioni, che era sempre sopra le righe e metteva chiunque a proprio agio, che ricordava tutti i volti e scordava tutti i nomi, a cui tutti confidavano guai e problemi, infelicità e dolori e a cui nessuno chiedeva mai come si sentisse, di cui tutti si accorgevano di sapere sempre troppo poco, che nessuno ricordava mai da dove esattamente venisse, e quale fosse la sua storia, ma che tutti affermavano di conoscere come un fratello.

Ma soprattutto pensavo a quel ragazzo che sapeva essere felice pur non avendo nulla, e che tutto ciò che aveva costruito intorno a sé l'aveva costruito partendo dallo zero assoluto, e senza sotterfugi né scorciatoie, e lo sapeva e ne era fiero, ma senza vantarsene.

E mi sono chiesta quand'è che hai iniziato a gettare la spugna, e a sentirti stanco.
Perché ora non abbiamo molto più di quanto non avessimo allora. Se possibile abbiamo meno soldi di allora, perché abbiamo sicuramente meno entrate.
Ma abbiamo della strada fatta insieme e molti bei ricordi, altri meno belli, e abbiamo una laurea e un'attività, e anche se ci sembrano insufficienti le abbiamo realizzate con le nostre forze e con l'aiuto di nessuno.
E anche se è una laurea che chiunque un poco sorride sotto i baffi quando dico in cosa, anche se non me la rivendo magari, so di averla conseguita con passione, amando tutto ciò che facevo mio.
E anche se è un'attività che conta più fatica di quanto non sia il rendimento e non è arredata da un interior designer, e non è nella guida verde del turista, e chissà se ce la sfanghiamo da questa crisi, l'hai inventata tu, da cima a fondo, con creatività e impegno, e presenza, e anche se dici di essere stanco e demotivato, lo so che la senti parte di te, e non te ne staccherai con facilità e non senza dolore.

E abbiamo portato piatti, infornato pizze, tagliato bistecche, servito vino, stappato bottiglie, annusato tappi, litigato con principali, ingoiato bile, asciugato bicchieri, spinato orate, mandato in culo colleghi, litigato ancora con clienti, ingoiato bile, lavorato fino a tardi, ballato a piedi nudi, collezionato sbornie, allineato voti sul libretto (io), smesso di fumare, ricominciato a fumare, smesso di fumare, smesso di bere (tu), macinato libri (io), preparato esami dopo le tre di notte (io e tu), riso per le repliche di Paperissima sempre alle tre di notte, dormito solo la mattina (soprattutto tu).

E ora abbiamo anche un'altra cosa che ci unisce, ed è questa bambina.
E non è giusto, io credo, non è così che deve essere, che un bambino porti pesantezza, e preoccupazione, e negatività. Un bambino dovrebbe portare nella vita di chi lo accoglie, energia e gioia, e fiducia e speranza. E pensare al futuro non dev'essere un'ossessione, dev'essere un progetto comune. Pensare al presente non dev'essere il sentore una sconfitta, dev'essere consapevolezza di un viaggio e soddisfazione e orgoglio di sapercene fregare di quel di più che non serve, che è solo un'illusione di felicità.

Ogni tanto vedo ancora quel ragazzo, anche se ormai è un uomo, ma lo riconosco ancora.
Per fortuna avevo solo creduto che fosse andato via.
E siccome ti vanti di non aver mai letto un libro "in tua vita", so per certo che non leggerai mai queste parole, ma mi piace che comunque tu qui dentro ci sia.

sabato 11 febbraio 2012

A riveder le stelle...

Nell'imbarazzante imbarazzo di esordire con il primo post dopo il nostro rientro in patria, giungo alla conclusione che non concluderò niente e mi preparo a scrivere un post sconclusionato.
Siete pronti? Probabile che a nessuno interessi leggerne un altro, ma il calore con cui scopro di essere stata attesa e commentata in mia assenza, a dispetto della spruzzata di neve fuori, mi confonde e mi fa arrossire.
Dunque voi mi pensavate?
E a me è mancato il blog.
Mi è mancato potermi raccontare, quando le impressioni del nuovo si affollavano tra gli occhi e il pensiero e faticavo a tenere in mano il bandolo per poterne poi tirarne fuori qualcosa da dipanare linearmente. Mi è mancato il contatto, l'idea di poter essere ascoltata e seguita da qualcuno al di fuori della mia realtà, quando di fronte a uno schermo che sapevo muto e cieco ho provato a raccogliere in appunti scritti le mie esperienze di vita quotidiana.
Dunque mi siete mancati voi, e in sostituzione di questo mio spazio di raccolta ed elaborazione del vissuto, il quadernino che vedete in foto si è presto riempito di caratteri corsivi a volte fitti fitti e accuratamente stilati, altre volte disordinati e spaziati, buttati giù di fretta, per afferrare la rapidità di un pensiero che fuggiva.
Grafomane. Grafomane e pedante. Secchiona come al solito. Avrei potuto per una volta lasciarmi andare al puro vissuto, all'immediatezza dei rapporti umani pur nella difficoltà di comunicazione nell'idioma per me eternamente incomprensibile.
Ma ho fatto quanto era nelle mie possibilità per lasciar spazio a questo e a quello, nei limiti del mio carattere, delle difficoltà di adattamento e della necessità pur sempre viva in me di trovare attimi di raccoglimento.
Mi trovo ora nell'ambivalente condizione di fremere dal desiderio di raccontare le mie esperienze e nell'incapacità di iniziare, nel proverbiale non sapere da che parte, nel capire in che modo farlo, chiedendomi se davvero a qualcuno potrà interessare fino in fondo ciò che ho intenzione di fare. Ma non importa.
Per trarmi d'impaccio mi gioverò del suo aiuto, dell'aiuto di quel piccolo quaderno dalla rossa copertina, dono gradito e quanto mai sfruttato in penuria di altri mezzi di contatto con l'al di qua mediterraneo, e rimarrò fedele a quelle linee tematiche che avevo iniziato a buttare giù scrivendo, inchiostro su carta. Vi delizierò anche e ancora con le mie foto, scattate a volte con foga di accumulo, altre con stanca passività dettata dall'imperativo del documentare.
Non vi aspettate un viaggio avventuroso, anzi: non vi aspettate affatto un viaggio, non nel senso comunemente attribuito al termine. Il mio non è stato tanto un viaggio esteso orizzontalmente, da luogo fisico ad altro luogo fisico. E' più stato un viaggio verso l'interno, dall'esterno. Da estranea a parte di una comunità, i cui codici e taciti regolamenti sociali, comportamentali, che nessuno ti spiega, ma che apprendi con la pratica, ho imparato a comprendere e ad accettare, per quanto continui a non sentirli miei.
Non è stato facile, mi ripeterò. A tratti è stato estenuante, annichilente, perché per capire a fondo l'altro è necessario rinunciare a una porzione di te, metterla da parte quanto meno temporaneamente, dimenticare le tue convinzioni cristallizzate nel tempo del tuo vissuto, mettere in dubbio le tue sacrosante idee di normalità, concedere un'incognita a ciò che hai sempre ritenuto scontato per far spazio all'apparente illogicità di consuetudini che non comprendi, al nuovo, al diverso.

Non mi è mai piaciuta molto la parola "tolleranza", per quel ché di sopportazione che sottintende: tollerare implica un abbozzare tacito e paziente, ma non un reale spazio di comprensione dato all'altro, non un mettere in discussione noi stessi. Non per nulla si riduce a zero quando pretende di mettere in crisi i nostri sacrosanti valori; c'è una portata massima della tolleranza che è dovuta al senso stesso della radice verbale di "portare", "sobbarcarsi un peso", il peso e l'ingombro dello spazio d'azione dell'altro, che spesso intralcia il nostro (quella storia della mia libertà che finisce dove comincia quella altrui).

Ma senza divagare oltre, mi interrogo e cerco di rispondermi sul senso di questo mio viaggio verso l'interno, verso l'interno di una realtà a me esterna, estera, per l'appunto.
E per farlo prendo a prestito il passo di un classico, suggeritomi dal commento di un'amica del web:
«Tout comprendre c’est tout pardonner»
Comprendere. Perdonare.
O forse in questo caso non si tratta tanto di perdonare, quanto di "accettare" l'altro e l'alterità.
Ed è di "accettazione" del diverso più che di tolleranza, più che di "sopportazione", che mi piacerebbe sentir parlare, anche dai nostri media tanto superficiali e vacui nel loro commentare le cronache riempiendosi la bocca di integrazione e integralismi.
Ammettere l'eventualità della diversità, della nostra non infallibilità nell'interpretare la vita, è assai più difficile del tollerare. Comprendere, dunque, accettare.
Integrarsi? Per quanto ci è possibile, rimanendo integri in noi stessi, perché anche l'altro impari ad accettare e a riconoscere la nostra, di diversità, conferendole e riconoscendole dignità di esistenza e di coesistenza.
Ora dite, suster, non ci dovevi parlare della Libia? Che diamine vai blaterando?

Ma vi avevo annunciato un post sconclusionato e voglio rimaner fedele ai miei propositi.
E poi ora concludo.
Sono partita con grande tribolazione, perché in fondo lo sapevo, che sarebbe stata dura, e  non solo per la guerra trascorsa.
Ma nel rispondere ai miei dubbi sull'identità individuale e di coppia, sul dove finisce l'io e inizia il noi, dove il venirsi incontro e dove l'annullarsi nell'altro, questo viaggio era per me una tappa necessaria e inevitabile.

Nel riprendere le fila del mio ora, fugando come al solito tra le mie scartoffie di tempi andati, mi son ritrovata tra le mani l'ennesimo quaderno. Non ridete: di poesie! O qualcosa del genere, insomma.
Eh, sì, dovrei smetterla di frugare tra le mie cose, rispettare la privacy di colei che fui, ma...

Quando leggo:

Insieme a te
immagino una vita assurdamente immensa.
Pensa! tutto può ancora iniziare.
Andare.
Vivere ovuque. Con te.
Imparare tutte le lingue
sentire suoni nuovi
altre luci e colori
amare musiche sconosciute...

Ho un universo da conoscere con te,
 e troppo poco tempo...

Vorrei sapere
del tuo passato, del tuo Paese,
della tua infanzia, la tua famiglia,
cosa sognavi, cosa cercavi,
quando partisti?

... Ti scoprirò
ti esplorerò
dovessi anche perdermi
o non arrivare mai...

Direi, può bastare. Scusate.
Il punto è: arrossisco di me stessa scoprendo entusiasmi d'amore che avevo evidentemente sepolto tra i miei ricordi e che ora fatico ad attribuirmi sentendomi parlare del beduino. Entusiasmo soprattutto per aver trovato in me la forza e il coraggio di amare nell'altro ciò che per me allora era nuovo, sconosciuto, e forse proprio per questo affascinante, suadente.
Poi col tempo si sa, ciò che prima ti affascinava ti inizia a infastidire, ad annoiare, diventa un fardello, un ostacolo, un'ineludibile realtà con cui fare i conti.
E allora ti chiedi: amo davvero questa persona?
O se vogliamo: la conosco davvero?

E qui arrivo, finalmente. Alla necessità di conoscere a fondo, per amare. E non di conoscere come sacrificio all'amore, ma come conferma, come accettazione del confronto tra due e disponibilità a superare l'uno, la propria inviolabile individualità, monolitica e inamovibile.
Non era mia intenzione partire con queste dissertazioni, così come non sapevo in realtà cosa aspettarmi dal mio viaggio, ma quasi sempre le aspettative disattese si rivelano per essere le esperienze più interessanti.

Spero di riuscire a comunicare, almeno in parte, nel resoconto di viaggio verso l'interno, che mi accingo a intraprendere, ciò che ha significato per me, nel mezzo del cammin...
Se vorrete seguirmi nella selva oscura dei miei arzigogoli mentali!

mercoledì 3 agosto 2011

Raffreddore? Ad agosto?!?!


Ebbene sì. Io e la pupa siamo raffreddate, che in estate è un tormento.
Chissà, forse è stato l'ultimo pomeriggio in spiaggia, dentro l'acqua, fuori dall'acqua, bagno di sabbia, di nuovo dentro, di nuovo fuori, e venticello assassino, che lei alla fine diventa blu e tremante e deve ancora fare la doccia.
O forse qualche bimbo moccicoso che ci ha infettato ai giardini.
O forse la punizione del mio vantarmi di non ammalarmi mai, che poi non è un vanto, è abbastanza vero: non è che non mi ammali mai, ma un'influenza a letto da mattina a sera saranno cinque anni che non me la faccio. E non che me ne dolga nemmeno, ma questo mi rende piuttosto scettica sui malanni altrui: possibile che la gente in media si faccia due-tre malanni stagionali l'anno e la sottoscritta se la cavi con un paio di giorni di naso gocciolante?
Ma comunque ora siamo in due a gocciolare. Felice di essermi ammalata insieme a lei, così è più facile per me interpretarne le sue esigenze da malata. Come ieri che volevo portarla fuori intorno alle quattro del pomeriggio, ma poi sono uscita in terrazza e stavo per stramazzare dal caldo e dal mal di testa e mi sentivo il sangue pulsare dolorosamente nelle orecchie e nelle tempie, e i bulbi oculari che mi esplodevano.
E stamani stendevo i panni e un altro po' rimango stesa pure io dal sole forte, con lei seduta accanto che giocava con gli animali infilandoli in corteo sul muretto basso smoccicando ed ansimando, e allora le ho fatto vedere come si soffia dal naso e lei mi imitava e rideva, smoccicando nel lavandino in bagno.
La mattina mi alzo con la gola secca e ruvida, che mi brucia a respirare, e il naso pure mi brucia a furia di smoccicare sempre negli stessi fazzoletti, svegliandomi di notte sento lei che rantola e la tiro su con due cuscini sotto la testa a controbilanciare la congestione nasale.
Sudiamo come matte e aspettiamo che passi per tornare a fare il bagno nella piscina gonfiabile in terrazza.
Il Ramadan è iniziato per il beduino e mi rendo conto che sarà dura.
A volte mi incazzo da sola pensando e ripensando cose, poi mi scazzo, quasi automaticamente sempre da sola, o se no sbotto e dico cose che lo so che lui lì per lì pare che se ne freghi, ma dopo me ne accorgo che le ha interiorizzate e ci sta più attento, e godo e goisco interiormente, stando ben attenta a non insuperbire, ché lo so che è solo una battaglia vinta, e che poi piano piano si ricomincia tutto come prima e mi sfibro.
E mi chiedo se per tutti amore è questo, o solo per me che sono troppo cerebrale e che raramente mi abbandono all'estasi dei sensi, anche perché se dovessi affidarmi a loro più che respiri rantolanti e moccicosi in questi tempi non ne trarrei.
Altre volte parto del tutto con la testa, ipotizzando futuri assai poco probabili, di me che dico e mo' mi hai rotto, tu e la tua Libia, il tuo Dio, il tuo bollettino di guerra e le tue telefonate interminabili mentre tua figlia ti cerca, e cosa credi, che di te non possiamo fare a meno noi due? Penso alle distanze, a cose che lessi tempo fa, sui punti di vista incompatibili e su quanto tollerare l'altro significhi assecondare, su quanto possano essere veri i discorsi di chi snocciola frasi da baci Perugina, che l'amore supera tutte le barriere, quando poi li vedi, tutti infatuati all'inizio, e invece poi si accorgono che "Non mi faceva sentire speciale", come se amare significhi aspettarsi che qualcuno ti faccia sentire speciale.
Ché se non l'hai acquisita da solo la coscienza della tua individualità, stai fresco ad aspettartela da altri. L'altro ti può dare solo se stesso, e tu lo devi prendere così com'è.
Qui nessuno è speciale, ma tutti siamo particolari. A parte che poi c'è gente che è proprio ordinaria, e manco se ne accorge, e per loro va sempre tutto bene così, tutte queste storie non se le fanno. E chissà che non siamo noi sbagliati, sempre a pensare a come sarebbe se, avrei potuto, avrei dovuto, avrei voluto, potrei, vorrei, dovrei.
Non sapere ciò che si vuole credo sia la peggiore delle cose, giacché è la volontà che ci contraddistingue dalla bestie, come esseri capaci di autodeterminarsi, almeno in teoria. Leggere Saramago non mi ha fatto bene.
Ma poi tutto questo volere altro da te, dove ti porta?
Dov'è che l'ho visto scritto, che la libertà assoluta non esiste? Esiste la libertà di fare una scelta e portarla avanti. Ah, già, sempre su quel libretto di nozze (ah ah! Risolino sarcastico).
Come quando sei su un treno e devi decidere dove scendere. Prima o poi devi scegliere, se no non scenderai mai, e arriverai al capolinea senza aver visto niente. E però se scendo qui, poi non posso scendere più lì. E più vai avanti più le possibilità diminuiscono, e forse è meglio avere meno opzioni che ti mandano in crisi, specialmente se sei indeciso cronico come me, ma poi non farti venire rimpianti e rimorsi che tanto non serve a nulla.
E piano piano le scelte che fai ti autodeterminano, e tu diventi quello che hai scelto. Come ora che sono la mamma della pupa, ed è meglio che non mi arrovello troppo che fuori fa caldo e non va bene il rovello quando si arroventa, e non va bene soprattutto per chi non si accontenta.
Se bastasse un elettrodomestico per sentirci soddisfatti di noi stessi!
Tranquilli, che poi mi passa, così com'è venuta. E' che siamo una generazione forse un po' troppo abituata ad avere tutto, e ci hanno insegnato che avremmo potuto fare tutto, diventare tutto, e invece magari ci siamo sopravvalutati, delusione. E che è importante essere egoisti, come se fosse difficile, dannata psicoanalisi spicciola, da reality. E invece non ci hanno insegnato come si fa ad amare, e che è quella la cosa difficile. Amare l'altro da noi è faticoso, e non richiede aspettative di qualsiasi genere. Che poi siamo bravissimi restare delusi dagli altri, indulgenti con noi stessi e a trasformare tutto ciò in senso di colpa.
Suderò via questi rovelli assieme al malanno e torneremo fresche come rose.