venerdì 10 aprile 2015

Parente-si.

Illustrazione di Loretta Serofilli
Casa di mia madre per me e per le bimbe è qualcosa di totalmente differente.
Per me è un tornare, per loro un andare.
Per me è un ritrovare e non ritrovarmi, per loro è un esplorare e una scoperta continua.
Per me è una retrovia, per loro un'avanscoperta.
Per me è fare i conti col noto, col tempo che si accumula a ritmo di decenni, con le dita di polvere che denunciano la vanità del ricordo, della mania di mettere da parte e conservare, di circondarsi di oggetti nell'illusione di costruirsi un'identità, prima, una storia, poi.
Per me è rivedere la mia adolescenza e fare i conti con la passata smania di futuro, con l'ansia di fuggire, con le promesse di riscatto altrove, di affermazione fuori dalla casa paterna, lontano da quegli oggetti noti, accuratamente allineati sullo scaffale a rappresentare i miei anni trascorsi tra quelle mura, in quell'abbraccio a volte soffocante che è la famiglia.

Per me la casa di mia madre è la casa dove sono cresciuta, dove ho pianto di notte affondando il viso nel cuscino, perché magari mi sentivo sola che più sola non si può, pur essendo circondata di affetti, o perché ero convinta di sentire il dolore del mondo e di non riuscire a sostenerlo.
E' la casa in cui ho litigato furiosamente, in cui ho studiato di notte, guardato la televisione di giorno, giocato a Final Fantasy fino alle 4 del mattino, la casa in cui mi alzavo tardi e mi sbracavo di colazioni luculliane, la casa in cui ho trascorso pomeriggi affacciata a una finestra, e intere mezz'ore al telefono, la casa delle rabbiose sigarette fumate di nascosto in cortile, delle estati in giardino a prendere sole e zanzare, e a consumare gran parte delle letture della mia vita.
E' la casa in cui ho faticato a crescere lottando contro l'immagine della bambina che ero e che tutti ancora ricordavano troppo bene, in cui ho dovuto indossare il ruolo familiare che mi ero cucita addosso per anni, che alla fine era divenuto insopportabile anche a me; è il luogo dove tuttora ritrovo quegli abiti che ancora mi sento stretti addosso, ma che non riesco ad abbandonare del tutto.
E' la casa in cui a lungo mi sono sentita arroccata, protetta, compresa e incompresa, parte di un tutto che escludeva il fuori. E' la casa da cui ho sognato di poter scappare per emanciparmi da quel dentro e per poter sfidare quel fuori, per poter diventare altro e lasciarmi indietro.

Per loro è la casa di nonna. E' la casa in cui scovano cimeli nascosti, e possono giocare a lungo con vecchi regoli colorati di scuola di chissà chi, o strimpellare sul vecchio organo sfiatato da chiesa che mia madre tiene nel seminterrato, che poi sarebbe il piano degli ospiti, quello in cui stiamo noi, quando andiamo.
Per loro sono gli zii e i pomeriggi a impastare pizza e tingere uova di rosso con le bucce della cipolla, sono i cuginetti che vengono a giocare e le passeggiate al giardino dietro casa con lo scivolo e l'altalena sbilenca, a raccogliere margherite e rotolarsi nell'erba.
Per loro è scoprirsi parte di un insieme familiare più vasto, che è sempre loro, e a loro appartiene, ma che è esterno e diverso dal loro quotidiano, lontano anche geograficamente, tanto che si rende necessaria una lunga trasmigrazione di corpi, una transizione di diverse ore per far sì che dall'una realtà, noi ci veniamo a trovare finalmente in quella seconda realtà, e quello che c'è in mezzo è tempo sospeso, sono interminabili paesaggi fuori dal finestrino e infiniti "Quando arriviamo?".
Per loro è vacanza.

Mimi ascolta le cassette dei Raccontastorie sfogliando con attenzione le pagine strappaticce dei fascicoli illustrati con le storie di Gobbolino il gatto della strega e di Dorothy, ignorando che uno dei nomi che sua madre qualche anno fa prese in considerazione per lei fu, appunto, Dorotea...
Per lei cinque anni devono essere tantissimi. Una vita. Pienissima.
Per me trent'anni sono effettivamente una cifra sconvolgente, che in verità non mi capacito di aver potuto riempire.
Eppure quei fascicoli, prima di rimanere impilati nell'immensa libreria di mia madre per anni, a prender polvere e ingiallire le pagine, trent'anni fa li sfogliavo io, al ritorno da scuola, in un'altra casa che non era neanche questa.
La primavera e le festività pasquali mi mettono addosso una certa smania di pulizia.
Via i vecchi diari pieni di vaneggiamenti adolescenziali, via le vecchie carte natalizie tenute da parte per eventuali riutilizzi, prima o poi, via le vecchie borse assurde rotte ed ammuffite, di quando mi cercavo in una diversa immagine di me, via questi abiti orrendi, che magari un giorno li metto, via i giochi da tavola polverosi con cui nessuno ha mai giocato.
Ogni oggetto mi opprime col valore del tempo che rappresenta.
L'ultima volta che siamo stati qui era Natale, ed ora scartiamo le uova di Pasqua.

Le mie figlie giocano sul parquet rigato mettendo in ordine schiere di animaletti da collezione. Ippopotami e tartarughe, leoni e draghetti sono il paziente risultato di un'assidua ricerca tra le sorprese degli ovetti Kinder che è durata anni, che dico, lustri.
Mi siedo per terra con le mie figlie e ci lacchiamo le unghie con smalto brillantinato.
A trentatré anni, finalmente, anche io inizio a giocare con le Barbie. Non sapevo che potesse essere divertente. Mia madre non me ne ha mai comprate.
- Mamma mi posso mettere la tua collana?
- Mamma posso giocare con il tuo scrigno dei trucchi?
- Qui da nonna ci sono un sacco di cose belle, ce le portiamo via?
- Mamma, perché non veniamo a vivere a casa di nonna?

Sulla via del ritorno, tra Civitavecchia e Grosseto un cantiere stradale di diversi chilometri ci ha fatto procedere a rilento sotto un prepotente sole di aprile.
Mimi ha detto di aver sentito nonna ridere.
- L'avrai sentita nella tua testa, Mimi.
- No, l'ho sentita nelle mie orecchie. L'ho pensata così forte che l'ho sentita fin qui.

Le mie figlie hanno familiarità col distacco.
Tra le tante bellissime cose che avrei potuto insegnar loro, io ho scelto questa.
Non che l'abbia proprio scelto, solo che è andata così.
Noi partiamo, la nonna resta, e con lei un intero mondo di affetti e di vita passata e presente. Lo mettiamo da parte per poi tornare, e ce lo teniamo però sempre a portata di mano, per avere una via di fuga, per quanto faticosa da raggiungere, per quanto scomoda per stare.
A casa di mia madre dormo scomoda, quasi sempre dividendo con Rania un lettino incassato tra alte sponde di legno che secondo me di piazze non ne fa una intera.
Dormo per metà sulla sponda di legno, in bilico sul dislivello tra il lettino incassato e la brandina pieghevole con pratico materasso effetto conca.
Dormo e mi sveglio con il segno della sponda impresso sullo zigomo.

Però so che da mia madre ci sarà sempre un letto per me e per le mie figlie, per quanto scomodo.

E' come un monito, che aleggia intorno alla casa tutta: qui ci potrai sempre stare, ma scomoda.

1 commento:

  1. mi sembra di vivere la mia storia.
    450 chilometri, tra me e la casa di nonna.
    450 chilometri che mi hanno salvato da un rapporto estremamente conflittuale con una madre alla quale, ora che invecchio, assomiglio in un sacco di cose......forse era specchiarmi in lei e vedere in lei i miei difetti che mi faceva stare sempre distante.
    450 chilometri da un luogo che amo follemente, paese di sassi e pietre e verde ovunque. A volte lo amo più per come lo sento che per com'è.
    i miei figli lo adoravano e lo adorano. Adoravano e adorano la casa dall'immensa soffitta dove giocavano ore, indossando abiti chissà di chi, costruendo case, cercando tesori.
    Poi.... per loro sono i nonni, disponibili e sorridenti.Ora c'è solo la nonna, anziana ma ancora incredibilmente lucida, testa notevole, curiosità , mille letture, ma piena di acciacchi:e si stanno invertendo i ruoli, tra noi. E la casa mi mette un sacco di tristezza.
    Emanuela

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