venerdì 9 dicembre 2011

Valigie e valige: che passione! (Nel senso di sofferenza!)

Eccoci qua infine.
E' stato bellissimo. Dico fare le valige con la pupa che mi inseguiva con un libretto nella manina tesa, un libretto e un paio di calzini, un altro libretto e pulisci la cassetta dei gatti, un terzo libretto e scusa Hasuna ti sposti che passo la scopa?
Un altro? No pupa, aspetta ora che devo preparare la pappa per te per il viaggio.
Biblo! Biblo! Biblo!
Pupa, fammi respirare, non vedi che siamo in alto mare?
Allora siamo pronti, andiamo?
Hasuna, porca pala, ma tu l'hai preso il cambio per te?
No, ovvio che no.
Questi sono i momenti in cui mi chiedo a cosa accidenti servano gli esponenti del sesso maschile.
Però poi mi modero da sola e mi rispondo che, lo so, non è che sono tutti così, gli uomini.
Allora mi correggo e mi chiedo a che caspita servano quelli di questo stampo.
E ancora mi dico che, suvvia, in certi momenti si rendono utili pure loro, basta sapere cosa non puoi aspettarti, cosa non devi pretendere.
Non certo che sappiano gestire una partenza, quello no.
E mentre arrancavo con la pupa appollaiata sul fianco, i pannolini sotto un braccio e lo zaino semipreparato in spalla, lui mi chiede, con tono seccato come uno che sia ormai stanco di aspettare: "Dai, dimmi cosa posso portare giù, intanto. Prendo la valigia?"
"No! Ma sedvo ancora finire di riempirla! Cosa porti giù!"
"Allora prendo le coperte, le portiamo o no?"
"Non lo so, aspetta che chiamo Gunchina, e sento se ce ne hanno anche per noi..."
Non si sa mai che temperatura faccia, in montagna.
Non è che noi siamo avvezzi montanari. Io son donna di pianura, e il beduino... beh: c'è bisogno di dirlo? Quello uomo di deserto è!
Io sono abituata a quelle di casa nostra, di temperature, che pure se fuori fanno venti gradi, dentro casa batti i denti dal freddo, per qualche oscuro fenomeno di microclimatizzazione. Fauna locale, pappatacei perenni e iperattivi, anche nel cuore di gennaio, quando io mi intabarro in giri di lana intorno al collo e pluristrati di maglia addosso, e la pupa muove a fatica le braccia annaspando sotto cotte di pile e ciniglia, loro, le zanzare, ti vengono a bisbigliare i loro canti d'amore notturni nell'atrio del tuo padiglione auricolare.

Ma di questi tempi per fortuna ancora non siamo arrivati a quei livelli di freddo domestico e abominevoli zanzare delle nevi.
In quel di Torino però, chissà...
Lui accende la tv (ecco una cosa che, almeno, gli impedirà di rompere le palle per un po', finchè non finisco di fare i bagagli, e mente locale su cosa manca, cosa sto dimenticando, cosa di strepitosamente essenziale sto abbandonando qui?):
"Torino: 0-9 °C..."
"Porca zozza! Allora sì che le portiamo, le coperte! Aspetta che prendo un maglione pesante per me. Cacchio, me l'hanno mangiato le tarme, pure questo! Guarda che buchi! Ma c'entra tutta 'sta roba in macchina?"
"Sì, t'ho detto che prendiamo la macchina di Kamis!"
"Ah, e quindi dobbiamo ancora andare da Kamis? Perchè non vai tu intanto che io finisco qui, a prenderla e la porti qui, la macchina?"
Ma non c'è stato verso di togliermelo dalle palle.
Uomini!
Non è che io voglia un uomo iperorganizzato. Non potrei: morirei il secondo giorno.
Un uomo modello Furio, no. Ne ho conosciuti, in vita mia, di uomini-Furio, gli uomini ingegneri nell'animo. Non in senso biblico. Ne ho conosciuti almeno due, e non erano nemmeno ingegneri. Ti fanno passare la voglia di fare la più figa delle cose che tu possa anche solo immaginare. Te la rovinano in partenza, con levatacce a ore rocambolesche, liste dell'occorrente, equipaggiamento alla Messner, tabelle di marcia. Un suicidio, davvero.
Ma neanche un uomo Homer, però.
Una via di mezzo tra un Furio e un Homer, ecco.
Mio padre, per esempio, quando ci preparavamo per una delle nostre villeggiature da incubo, esodo vacanziero sulla Salerno-Reggio Calabria per ore e ore in una FIAT station wagon azzurrina tutta scassata, oberata dal peso di almeno sette valige, sette come il numero degli occupanti in vettura, o sullo strepitoso furgoncino rosso Subaru sette posti, carico come un somaro, ogni figlio col suo personale carico di vestiario libri e giochi, senza considerare il vettovagliamento per la comunità, lui, caspiterina, incastrava peggio di un Tetris! Mentre mia madre strigliava casa a dovere prima di chiuderla per un mese, cospargendola a sazietà di DDT.
Ecco, io non sarò mai così metodica. Per questo necessito un uomo almeno un pochino più metodico di me. Ma mi dovrò accontentare.
Il segreto è trovare a ognuno qualcosa da fare, così che tu possa finire in pace il vettovagliamento viatico.
Alla pupa ho tirato fuori il bellissimo zainetto verde con la ranocchia che al nido non han voluto (acquistato per il nido, eh!).
"Tieni, pupa, prendi i libretti che vuoi portare e mettili nello zainetto".
Oh, lei è stata fantastica! Non fosse che se li sarebbe caricati tutti e 54 se io non le avessi a un certo punto imposto un limite.
Percorreva lunghe distanze, dalla piccola libreria pupesca in corridoio, allo zainetto posto in camera (metterlo più vicino non le è balenato in mente) con il suo piccolo carico di uno o due per volta. Poi li infilava.
"Gatti! Gatti! Gatti!" Ripeteva a ogni nuovo arrivo.
"Pe' tte! Pe' tte! Pe' tte!" con tono interrogativo ascendente.
"Sì, brava, prendi Per te"
"Mino! Mino! Mino!"
"Anche il Valzer del moscerino? E va be', piglialo"
"Iaiaò! Iaiaò! Iaiaò!"
"Pupa, basta quanti ne vuoi portare?"

"Iaiaò! Iaiaò! Iaiaò!"
"E va bene, prendi anche La vecchia fattoria, però poi basta, eh!"
"Popò?"
"No, Popoff proprio no. Basta adesso."
E via così.

Bellissime vallate, verdi montagne, e gallerie gallerie gallerie.
Valli strettissime e vicinissime, addossate le une alle altre, borghi arroccati dimenticati dal mondo, con pittoreschi campanili a cupoletta svettanti, e tetti aguzzi, intonachi rosa e giallini , e azzurri.
"Sembrano francesi queste case".
"Non sei andato troppo lontano dal vero, caro il mio Hasuna..."
E lì partiva il pippone storico artistico.
Era la Liguria, con il suo mare e i suoi monti, e poi Piemonte, infine arriviamo, siam qui.
La pupa che: "Ora si sveglia e ci fermiamo per mangiare", invece s'è fatta una tirata di tre ore.
Poi il camino, il fuoco, il gatto Geggio, i giochi in legno della zia Gunchina, i galli asincroni che cantano a ogni ora, le montagne rosa sul far del mattino che ci siamo perse, perché siamo rimaste a letto credendo che fosse ancora notte fonda, perché dalle tapparelle chiuse non trapelava un filo di luce. La casa iperriscaldata, il giro ai giardini in mattinata, il fiume, che emozione! La polenta, gli interruttori della luce da far scattare, su e giù, "Atteto... Petto.." e grasse risate, una foto appesa al muro in cui misteriosamente si riconosce una bambina, che "momme" (dorme), in braccio alla zia, una bambina di nome Mimi.

martedì 6 dicembre 2011

Zorro Vs Panzumen.

Dopo appena quattro mesi, sono finalmente riuscita a portare il gattume dal veterinario per il richiamo vaccino tetravalente più FeLV, per l'ammontare complessivo di 120 €, che, vuoi per ristrettezze economiche momentanee e protratte, vuoi per l'incastrarsi ardimentoso dei tempi pupeschi, vuoi infine perchè "Domani chiamo il veterinario e prendo appuntamento... uh, vabè, non ho credito nel cellulare, lo chiamo lunedì", insomma, per tutte queste cose insieme, era stato sempre posticipato.

Dopo un sommario esame, la dottoressa prorompe nella solita, sbalordita, esclamazione di meraviglia, dacché, manipolando Zorro, si avvede che il gatto trovasi effettivamente "intero".
- Ma come? Non sono castrati?
E non è che sottintenda con questo disapprovazione per la scelta di non sterilizzare (magari giusto un filino, eh): è proprio che i miei gatti ad occhio esperto, parrebbero castrati!
- No, no. Lo so che sembrano castrati (sovrappeso, flemmatici, privi di qualsiasi apparente velleità riproduttiva), e si comportano come gatti castrati, ma non lo sono. Non so... boh! Credo siano gay... Questo qua monta il fratello a volte.
Lei scuote la testa e credo che soffochi un sorrisetto, poi mi fa:
- Non è un discorso sessuale.
- Ah, no?
- E' una questione di predominio. Evidentemente questo è il maschio dominante.

Che cosa???

- Ma davvero? Panzumen? Ne è sicura? Dominante su Zorro? Ma non è possibile: è uno sfigato! Non ha praticamente vita sociale! Ha... un soffio al cuore!
- Non è una questione di salute fisica: è un problema di ruoli...
- Ma, ma... Zorro è il primogenito!
- Non c'entra chi è nato per primo: è una questione di carattere!
- Ma Panza è stupido, goffo, petulante, grasso...
- Si vede che questo qui è più mansueto, e si lascia sottomettere.

Ecco cosa mi è toccato sentire.
Non solo sentirmi ribadire che i miei gatti non hanno inspiegabilmente il sano atteggiamento di gatti adulti sessualmente attivi, che si comportino come due bambacioni asessuati, non solo sapere che Panzumen fa il bullo con Zorro, e non perda occasione di ricordargli la sua posizione subalterna mimando il gesto di un accoppiamento ignominiosamente incestuoso, ma che il MIO gatto per bontà d'animo, e solo per quello, sia condannato a subire il predominio dello stupido fratello, fisicamente e intellettualmente inferiore!
E' così. Lo sapevo: anche nella vita. Guardati dai prepotenti. Chi non aspira al potere verrà sottomesso.
Maledetto Panzumen!

Il maschio dominante (stupido Panza)
Il maschio sottomesso (Zorro, gatto eccellente!)
Roba da gatti, la rubrica del martedì.
(Chi volesse partecipare comunichi il link del suo contributo)

lunedì 5 dicembre 2011

Di tutto un po', alla rinfusa.

La pupa è in catalessi. Questa cosa capita una volta su trecentocinquantamila, e quasi sempre me la sputtano facendo puttanate.
Come oggi. Sarà la pioggia? Mia sorella diceva sempre, quando lei era piccola, che quando piove i bimbi dormono che è un piacere.
Lei dorme dall'una, e inizio a temere una notte di fuoco se il letargo non si interromperà a breve.
Per contro la mia connessione va e viene.
Tante idee da concretizzare, tanti progetti, tanti propositi da portare a termine, fuori e dentro il blog.

Quando potrei non lo faccio e quando vorrei non posso. Quando vorrei e potrei non riesco.
Vorrei per esempio parlare di lei, di come è, di come siamo diventate.
Rifletto sul passato e mi accorgo che divento deprimente, ed è l'ultima cosa che vorrei.
Ma è così: devo elaborare il mio difficile approccio alla maternità, per farlo, eviscerare il bagaglio di ansie e frustrazioni che mi porto dietro come unico ricordo nitido di quei primi faticosi mesi.
Perché poi? Non si può semplicemente andare avanti?
E a che servirebbe allora questo spazio?
Forse che ci devo scrivere solo stronzate, o bandire concorsi per accumulare record di visite?
No di certo.
Vorrei, potrei.
C'è chi lo fa splendidamente, si racconta e si analizza, per capire, tirare le somme.
Io ho diecimila post a metà e non so se finirli o cestinarli.
Ho iniziato cinque libri e di tutti ho letto solo le prime quaranta-ottanta pagine.
Troppo impegnativi i miei classici, e allora sbircio la libreria di Master e mi trovo nell'imbarazzante imbarazzo di dover scegliere tra Baricco e De Carlo, De Carlo e Baricco. Ahimè. Due agonie, per me. Due torture.
Meglio Baricco: almeno è breve l'agonia. No, ma questo ha 300 pagine, altro che breve. Potrò tollerare 300 pagine di stronzate e periodare frammentario, punteggiatura arbitraria personaggi insulsi e assurdi e storie campate in aria? Poi dici perché mi butto su internet e blog.

Tante cose rimaste nell'aria. Parlare ancora della mia città, dei miei viaggi. Ma il cielo è scuro e il tempo uggioso. Sorseggio una tazza di té beduino carico carico, al gelsomino, come il mio bagnoschiuma, regalo ancora non del tutto sfruttato del mio diventar mamma, in onore al nome della mia bambina, un piccolo fiore sbocciato in luglio, solare e prepotente come le estati più torride di quaggiù, e non le si addice il grigio di un dicembre che finalmente ci porta vento e pioggia.
A lei piace quando le canto "Nella pioggia", anche se la sbaglio sempre, e non immagina che l'anno scorso la addormentavo con quella canzone, sempre, a ripetizione nello stereo senza modalità "repeat" perché avevamo perso il telecomando, e allora correvo, ogni due minuti e mezzo, a rimettere indietro la canzone.
Ed è consolante constatare che una volta che parto funziono sempre, malgrado tanti giorni di inattività scrittoria, che non mi sono arrugginita, che basta fare andare il cervello, pure off topic. Si dice così, no? Senza una traccia predefinita, che ogni tanto funziona pure, anche se ho perso l'occasione di appuntarmi i geniali pensieri che mi balenano in testa nel corso della giornata.
E allora mentre aspetto riguardo le foto -un disastro- e le sistemo, le catalogo, penso di farci dei post, e le riunisco in cartelle, e sottocartelle, ma mi annoio, e smanetto con i programmi nuovi che ho scaricato, e che non so usare.
Dimenticavo. Che lei ora sa scendere da sola dal letto, e senza sfracellarsi la faccia. Si gira panza sotto e si lascia scivolare.
Eccola in piedi, con una risatina di soddisfazione mi chiama piano, di là dalla porta chiusa.
"Mamma! Mimi! Mamma! Mimi!" ripete. E cioè: "Mamma! Sono Mimi!" e che ridere mi fa quando crea queste sue prime frasi telegrafiche.
Ancora mi sorprendo a scoprire che formula dei pensieri tutti suoi, delle intenzioni comunicative non imitative, ma autentiche, come quando sgridava il bambolotto, ieri, perché si era messo le sue pantofole. Glie le avevo messe io, al bambolotto, per convincere lei ad infilarsele: "Se non le metti tu le metto al bebè." "No! Mimi!" e ha continuato tutto il pomeriggio a rimproverarlo: "Più! No!" (Non farlo più!")

La casa, l'inverno imminente, i gatti dentro e fuori la rubrica. La casa sempre affaccendatissima nel suo impegnativo compito di autodistruggersi, finché non ci crollerà addosso.
Ma un giorno ve lo racconto per bene, chissà se poi vi interessa, sapere che la lavatrice non lava più, non centrifuga più, e che io porto il bucato in lavanderia tutti i lunedì, dopo il nido. Sapere che la serranda in camera è crollata e che ora dobbiamo avvolgere la cinghia ai pomelli della mia cassettiera, così che posso attingere al mio vestiario solo a serrande chiuse e quel che cojo cojo. Sapere che la lampadina si è pure fulminata e malgrado i miei immani sforzi non sono riuscita a smontare la plafoniera per cambiarla, e così viviamo a luce di abat jour dalle cinque di pomeriggio in poi.
Va be', io in caso lo dico, così magari qualcuno si impietosisce e viene a darmi una mano, che io non ci sto dietro a tutto, e mi chiedo com'è che il tempo non mi basta mai per fare nulla anche quando non faccio niente.

Ecco, ti pare che appena mi metto a fare qualcosa di costruttivo lei non si sveglia? Che ci ha il radar, lei, per queste cose.
Pazienza. Vorrà dire: vi mostro i miei favolosi collage, frutto di un pomeriggio di non-connessione, in attesa che la mia bella si ridestasse dal suo sonno tanto fuori dall'ordinario.





giovedì 1 dicembre 2011

Giveaway avventizio.

Eccoci qua.
Datosi che oggi comincerebbe anche l'Avvento, la vostra Suster vi offre un'occasione in più per iniziare, trepidanti il vostro conto alla rovescia, ché lo so che tra voi che mi leggerete ci saranno moltissimi fan del Natale, amanti spassionati che non vedono l'ora di issare poderosi abeti sbrilluccicanti di luci e paillettes, che hanno già iniziato il loro giro per regali e che raccolgono in rete ricette succulente per il loro prelibato menù delle feste. Oppure no.
Il Natale dai tempi dei tempi infonde alla qui scrivente una profonda, profondissima malinconia, striata di intolleranza e qua e là punturellata di alti picchi di ansia e timor panico.
Questione di punti di vista e sensibilità personale.
Ma chissenfrega! Quest'anno voglio strafare!
Pungolata da un'amica creativa, mi sono finalmente decisa.
Ecco a voi (ta-dàààààààààààà!):
Il mio Giveaway avventizio!
Yuppiiiiii!

Come lo chiamiamo?
Uno, cento, trentacinquemila:

Uno, come un anno di blog. Giusto giusto un piccolo ritardo di tre settimane, come quello che mi permise, a suo tempo, di intuire vagamente la possibilità di essere, per caso, incinta? Sono una tipa perspicace, io.
Cento come i miei lettori, giusto con quella cresta di nove, che, a pensare positivo, forse hanno cliccato sul pulsante "segui" per un tremito nervoso e involontario della mano.
Trentacinquemila come il traguardo di visite che (secondo me il conteggiatore automatico di Blogger conta anche le mie!) si reputa plausibile che il blog riceva entro la conclusione di questo quasi esausto 2011.

Amletico quesito: cosa cavolo regalo al vincitore?
Ecco una domanda che mi stava quasi per far desistere dal mio volenteroso intento. Perché io, come ampiamente e dettagliatamente credo di aver esposto qui, per la verità non so fare un'amata ceppa.
O meglio, so fare tante cose: ho una predisposizione imbarazzante per memorizzare in breve tempo canzoncine e filastrocche sceme; invento giochi con una scatola di cartone; sono capace di scrivere interminabili monologhi senza parlare di niente; ho una fantasia onomastica sterminata per quanto riguarda i nomi per gatti; so andare in bicicletta con le buste della spesa e due casse d'acqua; questo e molto altro ancora, vi stupireste!
Ma nessuna di queste eccellenti capacità può aiutarmi nel difficile compito di  mettere in palio un premio allettante per i miei lettori, e per chi avrà la pazienza di seguirmi nei meandri dei miei ragionamenti.
Per fortuna la mia amica B. sopperisce alle mie mancanze. Lei si diletta tantissimo di fai-da-te, arte del riciclo, paste sintetiche e molto altro, ha un blog... due blog... tre... Boh!
Lei ha una serie di blog in cui illustra le sue creazioni, e gentilmente si è offerta di procurarmi la materia prima per il mio fantastico, stratosferico Giveaway, che altrimenti che senso avrebbe una cosa che, in traduzione sarebbe tipo "Dar via", senza niente da dare via? Un controsenso, certo.
Quindi, diciamolo: io non so fare una ceppa! (Ma possiedo ottimi contatti).

Volete partecipare al mio Giveaway:

"Uno, cento, trentacinquemila (Io non so fare una ceppa!)"?

Ecco come fare:
  • apponete il vostro commento in calce (non è che dovete utilizzare proprio la calce, eh! E' un modo per dire: qua sotto) a questo post;
  • ditemi che partecipate e indicatemi il premio da voi prescelto (un attimo: ora ci arrivo)
  • giacché ci siete, levatemi una curiosità: appartenete alla specie dei creativi multitasking o di chi, come me, non sa fare una ceppa? C'è qualcosa che siete molto fieri di saper fare, fosse anche indovinare ad occhio nudo l'indice di massa corporea di qualcuno?
  • pubblicizzare questo fantastico giveaway, se vi pare (il banner lo trovate in pedice)
  • andate a farvi un giro nel fantastico blog Riciclo creativo e riutilizzo per scegliere i premi ( ci sto arrivando...) e, se vi va, appuntarvi qualche idea regalo;
  • avete tempo entro la mezzanotte del 25 dicembre!
  • l'estrazione del vincitore avverrà con metodo da precisare (in ogni caso dovrete fidarvi ciecamente della mia buona fede, tanto io non ho niente da guadagnarci).
I premi: dunque che cacchio metti in palio?
Non siate impazienti!

In palio queste deliziose creazioni artigianali:


BON BON CD: andate a vedere di che si tratta sulla pagina del blog, che raccoglie e illustra i vari modelli.




SET DA BAGNO: qui la pagina con i modelli e le descrizioni.








Allora avete capito? Potete scegliere uno solo tra questi premi.
Vediamo quante adesioni raccogliamo, e se sarete tanti tanti, ma proprio tanti, potremmo decidere di effettuare una seconda estrazione per assegnare il secondo premio (quello scartato dal vincitore).

Dunque partecipate, partecipate, partecipate!
Che ci fate felici.


(...e lo si vede dal banner! Meno male che ho messo le mani avanti dichiarandolo nel titolo!)

PS.
Giacché si parla di blog e concorsi, colgo l'occasione per ricordare, a chi se lo fosse perso, il fantastico blog contest di Mamma è in pausa caffè:
"A voi che cavolo hanno raccontato?"

martedì 29 novembre 2011

Roba da gatti: allarmi automatizzati.

Torno a casa da un accompagnamento al nido e trovo Panzumen spaparazzato sul divano in terrazza, a prendere sole sulla panza a cui deve il soprannome che ha rimpiazzato ufficialmente il suo nome di "battesimo".

-Bello gattone! Ciao Panza: oggi scrivo un post su di te, contento?
Uno slancio di affetto che lui non ricambia. Ah, in amor vince sempre chi fugge! Te lo ricorderò quando verrai a scassarmi i cabasisi rotolandoti sulla tastiera del pc.
Ma una promessa è una promessa.


Panzumen è un gatto da guardia.
Peccato che la monti alla porta di casa del vicino del piano di sotto, pingue e petulante signore di mezza età stempiatello che accompagnasi a procace giovane trentenne brasiliana dalla pelle ambrata e scollatura facile, un profluvio di curve ben fasciate da abiti assai poco dimessi, che sembrano urlare: "Ehi, guardatemi!"
Questa signora pare sia terrorizzata a morte dai gatti, o almeno dai MIEI gatti, dal momento che l'ho sorpresa una volta nell'atto di cercare disperatamente di allontanare il suddetto Panzumen dalla sua soglia di casa a suon di sassate scagliate dabasso.

Ma dico io: come si può aver paura di Panzumen?


Ok, sì, lo ammetto che è un po' inquietante, quando si appollaia lassù come un avvoltoio e inizia a emettere quel suo sinistro ululato lamentoso scoprendo le gengive e i vampireschi canini, che pare ti possa balzare in testa da un momento all'altro...


Voglio succhiare il tuo sangueeeee!
Ma vi assicuro che non lo fa! Non lo farebbe mai: ha paura persino a scendere dal tavolo!
E' il suo modo di annunciare che sono arrivate visite. E' il suo modo, sinistro e fastidioso, di salutare i nuovi arrivati. E' come quel campanello in cima alle porte di alcuni negozi, che tintinna ogni volta che entra qualcuno. E' come gli allarmi che scattano appena qualcuno si appoggia distrattamente alla portiera dell'auto in sosta.
Più che un gatto da guardia, Panzumen è un gatto di benvenuto.
Al massimo può mostrarvi indecorose parti di sé che volentieri evitereste.

WELCOME!
Fantastico gesto di benvenuto, questo!

Roba da gatti, la rubrica del martedì.

lunedì 28 novembre 2011

Aspettando Picasso... Pi-nocchio!!

Sul chiudersi di un novembre che ha elargito luce dorata a volontà e giornate terse, una mattinata che si apriva uggiosa mi ha spinto a cercare il lato luminoso che spesso sfugge, il versante soleggiato, una specie di meridione dello spirito. Che non è sempre facile, ricordarsi di cercare la luce quando la tua esistenza di appare, anche solo per un attimo ingannevole, tinta di grigio. Routine, stasi esistenziale, mancanza di stimoli, niente energie per reagire, le giornate che si susseguono e tu macini ore davanti a uno schermo, aspettando che lei si svegli dal riposino pomeridiano, mentre le occasioni di poter fare mille e mille cose che ti eri proposta sfumano col passare dei minuti.
Come l'idea della mostra di Picasso. Sì sì, ci andiamo, che fretta c'è? Abbiamo tempo fino a febbraio, tanto.

Avevamo pure i biglietti per l'inaugurazione, guarda caso, era il giorno del mio compleanno. Ho dovuto battere in ritirata di fronte alle giuste proteste di una pupa costretta ad attendere i tempi iperdilatati degli ospiti d'onore, delle giacche e cravatte, delle foto al sindaco, delle illustri personalità, dei discorsi degli ideatori, degli omaggi ai finanziatori, e via dicendo. Poi più nulla.
Nel frattempo ci regaliamo un piacevole intermezzo.
Raccattata la mia amica Bidone, così detta non  certo perché sia un cesso, anche conosciuta al mondo del web come la ragazza degli scogli, e non certo perché sia una cozza, prendiamo al volo e acchiappandola per la coda, quest'altra mostra qui:


Che ci sgattaiola sotto il naso, passando e ripassando sul Lungarno, ogni giorno, con la pupa che dal seggiolino mi addita il burattino che fa capolino dai manifesti esposti in facciata.

Un Pinocchio subconscio, inquietante come le sue metafore, di grilli e mantidi che copulano, di viluppi di spire serpentine, divoratore di se stesso, imprigionato nella materia, recisa, di un ciocco di legno, in cammino per la crescita, ma intrappolato dal mondo fittizio di bugie, che si costruisce intorno.
Brandelli di fiaba abitano ora  ruderi di pubbliche affissioni, il rovescio della favola: incubi e visioni del Pinocchio-bambino che non vuole crescere.





Un burattino di legno che ci saluta, sorridente, al termine del percorso, abbandonato su una poltroncina bassa: quello che rimane è solo il suo involucro esterno; dove sarà, ora, il bambino-Pinocchio?
Ma io sbircio da una finestra sul piccolo cortile interno del palazzo, sbircio e trovo ancora un burattino, aggrappato alla lunga barba ispida di un accigliato Mangiafuoco. Quella sezione della mostra non è accessibile, come mai? C'è forse un burattino-Pinocchio che è riuscito a sfuggire alla necessità di crescere come un bambino vero? Ce l'hanno nascosto, ma io l'ho scorto, qui, dalla finestra.
Che dici, si potranno fare le foto all'interno della mostra? Boh!

Prendiamo atto del tempo e delle occasioni perse, sfogliando i cataloghi e le stampe del bookshop.




E come bambine, ci perdiamo nei mondi dischiusi dall'arte e dalla fiaba.
Creare un'occasione di condivisione, un'esperienza da vivere con un'amica, un dono offerto dalla città, che basterebbe interrogare ogni tanto perché ci elargisca ottime risposte.
Una mail da mia sorella, infine:
Tornare bambini alla fase senso motoria dove il bimbo, come tu ben sai, scopre gli oggetti non per la loro vera utilità (il cucchiaio per un bambino potrebbe essere interessante perché utilizzato per divertire, non perché ci aiuta a mangiare, il sasso raccolto sulla spiaggia è buono perché ha un buon sapore salmastro, è bello perché può essere lanciato ed ha un bel rumore, è utile se si vuole vedere l'effetto che fa quando cade nell'acqua o quando lo si fa scivolare su di essa). Ma come poter tornare bimbi facendosi domande che possono risultar banali, ma che possono sguinzagliare la fantasia anche di chi reputa non  essere fantasioso? La storia del sasso che era triste perché sapeva di sale e avrebbe preferito saper di acqua dolce e allora..."
Ed è così che oggi mi illumino.
Grazie a Stima per questa sua bella rubrica.

venerdì 25 novembre 2011

Caos dinamico.

Quelle che seguiranno sono istantanee di un normale mattino di vita domestica.


 Ahimè, Signora Cuore, lei non è capitata bene in questa casa: niente villa delle Barbie per lei e la sua prole... a proposito: dov'è finito Bebé?

 No: qui c'è solo un imbuto...

 Oh, ecco lì, poverino, accanto allo spazzolino di pupa.

 Pupa, ma la smetti di seminare pastelli?

 E dove l'hai trovata la prima e unica pedina della scacchiera gigante in legno che devo realizzare per tuo padre col tornio?

 Io non so proprio da chi abbia preso questa pupa... siamo così ordinati e metodici, noi...

Ehm... no, è che Hasuna deve ancora fare colazione...

Speriamo che queste immagini non mi costeranno la diffida di mia figlia da parte di qualche zelante assistente sociale (senza alcun riferimento personale eh!).

Per la verità, è vero, c'è casino, ma è che eravamo intente a creare!

Cosa fareste voi con tutta questa roba raccolta in giro per parchi?


E con una scatola ad altezza bambina?


Sì, va be': a parte il gioco del cucù, dicevo!

 Ispirata, in parte, da questo post , io mi accingevo a farne un bellissimo albero autunnale, addossato al muro di una casetta.
Per fortuna ho con me il valido aiuto della pupa, che intanto dispone sul pavimento gli uni-posca, anche se non ho ancora ben capito la funzione di questa operazione preliminare.


Be', che c'è? Non vi piace la nostra casetta?
Non siamo gente che sta a guardà il pelo noi! Certo, certo, avremmo potuto fare assai di meglio! E che non siamo capaci, noi, di realizzare cose tipo questa? Tsè! Che ci vuole?
Allora, intanto iniziamo a diluire la Vinavil... uhm... forse così è troppo liquida: non attacca un piffero!
Va be', mettiamola pura allora. Aspè, pupa, passami le cortecce... le cortecce ho detto! No: quelle sono foglie. E vabbè, passami le foglie. Ecco mettila qua: brav... NO NO pupa! Non spalmare la colla con le mani! NO! Non pulirti addosso! NO! Non fartici lo shampoo! Ecco brava, prendimi la pigna, che la mettimao qua. Acc', sta pigna non si appiccica: come possiamo fare?
Pupa cosa hai in bocca? Sputa quelle ghiande, su!


Insomma, non è mica facile appiccicare su un cartone delle cortecce e delle foglie secche: non ti ci stanno mica quelle bastarde! Si accartocciano, si staccano, fanno le difficili. Ma alla fine un sistema l'ho trovato. Mattoni mattoni mattoni, e poi in terrazza ad asciugare.
E alla fine:
 

Ta-dààààààààà!
Niente male il nostro albero autunnale, in fondo.
Chiedo scusa a Debbie e a MadreCreativa per aver osato il paragone con le loro opere, ma sapete qual'è il bello?
Che magari la differenza c'è... ma lei non la vede!

Oh, gioia di mamma, che fortuna che ancora ti basti così poco per farti divertire!
Anche se per la verità lei si diverte soprattutto a distruggerlo:



(Notare i pezzettini di foglie sgretolate in terra)
Ma insomma: che ci giochi un po' come le pare!

Ehi, ma... qualcuno ha visto la pupa?
Pupaaaa! Puuuuuuuuupaaaaaa!

Dove sei? Non ti vedo!
...


Ah! Ecco dov'eri! Cu-ccù!
(Mia figlia ha una verve comica da fare invidia a Gianni e Pinotto!)

giovedì 24 novembre 2011

Mediamente idiota, che veicoli contenuti utili.

"Questo è esattamente quello che ti chiedo, mi ha risposto lei, definizione strepitosa, la tua!"
Bene, dico io, in tal caso, tanto vale riciclarmela per il titolo del post.
Ed eccomi lì, ricatapultata indietro ai tempi dei compiti in classe di Italiano, a stendere la mia bella traccia. E ammetto che un filino di ansia da prestazione me l'ha data 'sta cosa.
Non sono proprio quella in grado di scrivere su richiesta, tanto meno, poi, se ti si chiede di non superare i 4.000 caratteri. No perché, se non ve n'eravate accorti, io inserisco il pilota automatico e chi lo guarda più il contachilometri? Io macino, fino ad arrivare a destinazione. Ché se poi mi metti un limite al carburante, capace che la strada per arrivare prima te la trovo, ma il percorso perde in attrattiva.
E infatti è proprio quello che è accaduto in questo caso.
La traccia era: "Qualcosa che racconti di Pisa in generale (caratteristiche della città, carattere degli abitanti, e poi di te. Di come ci vivi come mamma). Se riuscissi a condire tutto con un pizzico di ironia..."



'Azz! E dici poco!
Comincio a scrivere, ma a metà strada mi accorgo di essere ormai in riserva di carburante. Il pezzo ha sforato, ma di brutto! E allora taglia che ti ritaglia, sposta là metti qua.
Il risultato lo potete vedere qui: non è proprio dei più brillanti.
Dov'è Suster lì dentro? Io ci vedo solo il mio grosso, stratosferico CULO! Certo, ci vuol coraggio per pubblicarlo su un sito ad accesso libero, sbatterlo in faccia a centinaia di visitatori.
Ecco, allora, che oggi voglio rendere sì giustizia alle mie fatiche pseudogiornalistiche (e alla mia immagine), per quanto faticoso sia stato assai di più il lavoro di ridurre (per via di levare, per usare le parole di un grande), ché ci ho perso tre giorni solo a tagliuzzare, piuttosto che quello di scrivere, per un totale di 20 minuti.

Vi mostrerò l'articolo nella sua originale interezza e prolissità.
Ta-dààààààààà! Come direbbe (indovinate chi?) la pupa!
Non siete curiose (/i)?

Ecco qua:


Io, Pisa e mamma.

Sì lo so che sarebbe più corretto scrivere “Io mamma e Pisa” da un punto di vista semantico-grammaticale, ma nel mio caso trovo più corretto rispettare l’ordine narrativo-consequenziale degli eventi. Ed ora vi spiego perché.
Io.
Sono arrivata a Pisa nel novembre del 2000; avevo 19 anni, iniziavo l’università, cercavo casa e mi sentivo totalmente imbranata alla vita, ma con ottimista entusiasmo avevo messo da parte una piccola somma con un lavoro stagionale, tale da darmi l’illusione di poter essere autosufficiente.
Per la verità la somma raggranellata con tanta fatica mi bastò appena per pagare la caparra e il primo mese di affitto, e questa fu la prima batosta. La seconda fu che la città mi accolse con un mese e mezzo di pioggia incessante, cielo grigio su e foglie gialle giù, il fiume si gonfiò fino a livelli allarmanti, tanto che ci fecero evacuare il centro storico e io mi chiesi più d’una volta chi me lo facesse fare di trasferirmi in una città fredda, piovosa, e a rischio alluvioni, a regalare i miei miseri stipendi a gretti affittacamere sfruttatori.
L’impatto traumatico poi però nel tempo si è trasformato in un reciproco rispetto e convivenza pacifica tra me e Pisa, vituperio delle genti.
Dimenticavo di dire che sono di Roma: quale realtà più lontana e antipodica quella della caotica, trafficata, chiassosa, disorganizzata metropoli, di fronte a questa piccola città di provincia, dal passato sì glorioso, ma oramai piuttosto impantanata nel ruolo di città universitaria e sede della celebre torre?
Pisa.
La prima cosa che mi saltò agli occhi fu che qui la gente circolava in bicicletta. Biciclette ovunque, che pareva di essere in Cina ai tempi di Mao, che se ti fermavi a bordo strada in una normale giornata feriale te ne vedevi passare davanti più di quante non ne avessi contate nell'intera tua vita precedente: passava lo studente scafato con la sua bici sgangherata, e va be’. Passava l’arzilla vecchina in direttissima dal mercato della frutta-verdura col suo carico di ortaggi nel cestino, e va be’. Passava il distinto signore in cappotto di feltro e giornale infilato nel portapacchi, e va be’. Passava il tipo da banca in giacca svolazzante e cravatta, la ventiquattrore sotto il braccio, e insomma: no! Questa era proprio strana: una nevrosi collettiva!


In ogni caso, ben presto compresi la comodità e la praticità di tale mezzo per spostarsi in città: date le ridotte distanze, a cui non ero affatto abituata, pedalando e pedalando sei in grado di teletrasportarti in appena un quarto d’ora dall’estrema periferia della città, quella fatta di palazzoni e giardinetti, supermercati e strade a quattro corsie, all’affollatissimo centro storico, dove file di turisti dagli occhi a mandorla o no effettuano il loro perpetuo pellegrinaggio alla fin troppo nota torre pendente, che della città è emblema, fotografandosi in pose improbabili nell’atto di sorreggerla.


Questo a una prima, sprovveduta occhiata.
Ma Pisa, in realtà, è molto più di una cartolina di Piazza dei Miracoli.
Qui la vita scorre a ritmi più umani. Qui è possibile svegliarsi al mattino, andare a fare commissioni, trascorrere la giornata in biblioteca, incontrare un amico per strada, tornare a casa due volte nella stessa giornata per mangiare o anche solo per cambiarti, e recarti infine a lavoro in orario, infilandoci in mezzo pure un caffè al bar, senza dover impazzire un’ora nel traffico di intasatissime tangenziali o vie consolari. Solo qui ho potuto conciliare per tanti anni studio e lavoro.
Per contro girare in macchina è altamente sconsigliato, data l’assoluta assenza in centro di parcheggi liberi, o anche semplicemente di parcheggi, i labirintici sensi unici e i varchi ZTL come se piovesse, capaci di fruttare da soli nel giro di un’unica giornata un cospicuo capitale di contravvenzioni multiple.
Ragion per cui il centro città si presenta brulicante di camminatori e ciclisti.
Camminare favorisce gli scambi e gli incontri e poiché in fin dei conti gira che ti rigira i luoghi di ritrovo son sempre gli stessi, finisce che ci si conosce un po’ tutti, come in un paesone.


L’importanza di Pisa come centro universitario ne fa, poi, un piccolo universo multietnico e multisfaccettato, dove, accanto alle comitive di turisti in calzoncini, trovi la chiassosa umanità universitaria, anima stessa della città, che contribuisce non poco a ravvivare e consentire il ricambio umano della sua popolazione, altrimenti a rischio estinzione.
Il pisano tipo infatti, quello figlio di figli di pisani, sembra che non vi risieda, preferendo appartarsi nell’immediato interland residenziale.
Mostrasi normalmente affabile con i turisti, diffidente e insofferente verso l’altra fetta cospicua di umanità ivi presente, ovvero il rumoroso, nottambulo “studentame”.
Pur tuttavia la convivenza risulta piuttosto pacifica, assestata su una specie di simbiosi che garantisce agli uni la percezione di cospicui affitti su abitazioni per lo più fatiscenti, mal riscaldate, tremendamente umide e generalmente assalite da interi ecosistemi di muffe, agli altri una serena vita di bagordi e schiamazzi alcoolici finesettimanali sufficientemente tollerati dalla popolazione autoctona ancora residente in centro città.


C’è poi la città, col suo fascino indecifrabile, così antica e integra, nei suoi vicoli sormontati da archi, nelle sue case-torri svettanti dalla linea dei tetti al primo crocicchio, le sue numerose chiese, vestigia di un passato di glorie ormai appassite, così decadente, nell’abbandono evidente di molti dei suoi palazzi storici, nel puzzo di liquami che ristagna nell’umido degli stessi, pittoreschi vicoli.


Ma arriviamo a quando, poi, sono diventata mamma, dieci anni dopo.

Mamma.
Dal mio punto di vista di ospite e non nativa, ex studente e poi madre, che non può avvalersi dell’appoggio di un retroterra familiare e di un aiuto parentale, la città, così raccolta e a portata di mano, si è rivelata un nido accogliente, in cui andarmi a scovare spazi e situazioni adatti alle mie esigenze.


Nel mio percorso verso la maternità l’organizzazione delle strutture sanitarie e ospedaliere si è rivelata salvifica, visto che, da neolaureata spiantata e neodisoccupata squattrinata, non mi toccò sborsare un centesimo di tasca mia per tutti gli esami e le visite pre e post parto, che su iniziativa della regione Toscana vengono preventivamente prescritte a tutte le future mamme in un comodo libretto di impegnative prestampate, e l’abbondanza di tutti questi “pre-“ non può che infondere sicurezza e sollievo alla futura mamma in questione, per contro, sempre totalmente impreparata e sprovveduta su tutto.

L’ospedale storico di Pisa, il Santa Chiara, si trova a due passi dalla piazza del Duomo, raggiungibile rapidamente e agevolmente per chi risieda in città: un grande vantaggio quando per esempio ti svegli la mattina che ti si sono rotte le acque e sai che non dovrai farti un’ora di macchina in mezzo al traffico metropolitano col cuore in fibrillazione e la paura di non arrivare in tempo.


Come pure, soprattutto per le mamme lavoratrici, posso assegnare un giudizio più che positivo al servizio dei nidi d’infanzia pubblici, che copre in maniera efficiente e soddisfacente l’intero territorio comunale, e offre un servizio di buona qualità, strutture e preparazione del personale docente (che, certo, se si svecchiasse anche un po' lasciando posto alle nuove generazioni di operanti nel settore non sarebbe male, ma la perfezione è lungi da tutto ciò che è umano).

Il pregio di Pisa di essere a misura d’uomo, non è cosa da poco quando ti trovi a dover scarrozzare da mattina a sera per le sue strade un pupo che non dorme.
Diciamo che in quanto a barriere architettoniche non si scherza. Le strade del centro sono per lo più sconnesse, prive di marciapiede in molti punti, o con marciapiedi larghi mezzo metro e continuamente ostruiti da cartelli stradali, alberi dalle poderose radici e passi carrabili, coscienziosamente pensati senza scivolo pedonale, e quindi la neomamma carrozzinomunita è spesso costretta ad effettuare ardimentosi slaloom tra le macchine, sali e scendi dai passaggi pedonali, e impegnativi dribbling di auto ferme in seconda fila che la costringono a piazzarsi esattamente al centro della carreggiata contromano, a rischio suo e della prole, che intanto inala a pieni polmoni boccate di ossido di carbonio.


Tutto questo solo per raggiungere il parco più vicino.
C’è da dire che il centro città non abbonda proprio di parchi urbani di grandi dimensioni, pur potendo vantare deliziose piazze alberate e lastricate con grandi aiuole, abitualmente frequentate da turbe di bimbi che sciamano nel post scuola e stormi famelici di piccioni.


Tutto sommato però, in relazione alle dimensioni del centro, gli spazi verdi non mancano. I più importanti sono principalmente due: uno è lo storico giardino Scotto, ex fortezza ora munita di ampio spazio gioco per piccoli di ogni fascia di età (strutture metalliche dai bizzarri ed eleganti profili gaudiani progettati più in funzione dell’estetica architettonica che di una reale sicurezza infantile), e inoltre luogo per piacevoli passeggiate; l'altro, il parco urbano delle Piagge, un lungo tratto di lungofiume alberato e attrezzato, assiduamente frequentato da fanatici del fitness, fanatici cinofili, e qualche scarrozzatrice di passeggini più o meno fanatica, oltre che da una sterminata popolazione di pappatacei che rendono in ogni stagione altamente sconsigliata e fastidiosa una permanenza prolungata con bimbi su quei lidi.


A metà strada tra il mare e i monti, raggiungibili in pochi minuti di auto per una fuga estemporanea dalla quotidianità, la città rappresenta per il mio modo di vivere la maternità, casalinga ma proiettata verso il mondo, un universo ideale in scala ridotta: gran cosa quando ti ritrovi a dover gestire i ritmi e i tetti di tolleranza minimi di un bambino piccolo anche solo per passare un pomeriggio in spiaggia!


Il visitatore occasionale che gira oggigiorno per le strade di Pisa potrebbe imbattersi facilmente in un curioso e caratteristico duetto di cicliste: una sulla trentina, una massa di capelli scomposta e indistinta, guida una bicicletta d’epoca cigolante e arrugginita che ondeggia sotto il peso delle buste della spesa; spesso pedala cantando “Lo sai che i papaveri son alti alti alti”; l’altra sull’anno di età, ballonzola sul seggiolino a ritmo e tiene traccia degli oggetti degni di nota che incontra lungo il percorso, come per esempio può essere un cane o un piccione, o una signora alla fermata dell’autobus.


E’ questa la città dove ogni pomeriggio ce ne andiamo a giocare e passeggiare in un parchetto diverso, a rotazione, che siam gente che ama cambiare noi, oggi qui, domani lì, e però i bambini che incontriamo finiscono per essere sempre gli stessi.
La città dove andiamo ogni tanto a trovare babbo a lavoro, e sostiamo a lungo lì fuori, sul piazzale lastricato davanti al negozio perché passa sempre qualche amico o conoscente che si ferma a scambiare due chiacchiere.
La città i cui abitanti difficilmente si mostrano giulivi e ciarlieri col primo venuto, che magari ti salutano col grugno e ti guardano strano se non corrispondi ai loro standard mentali, ma che se poi riesci a penetrare il loro muro di diffidenza sanno mostrarti il loro lato più affabile e affettuoso.

Ci sono le libecciate calde che portano l’afa insopportabile dal mare, e i venti di neve che spazzano via le nubi e ti sferzano la faccia in inverno.
Ci sono i suoi lungarni variopinti di facciate ocra e gialle e rosso mattone, i nostri luoghi noti, i selciati dove lei ha intrapreso le sue prime esplorazioni autonome, e la sensazione di avere tutto un microcosmo a portata di mano, come un nostro personale parco giochi.