giovedì 31 gennaio 2013

Aspetta che ora rispondo.


- Ma la tua adesso con che cos'è che gioca di più?
- Mh... non saprei, le piacciono diverse cose, ma forse...
- No perché il mio ora è in una fase che i giochi che faceva qualche tempo fa lo annoiano. E' vero che è un maschietto, e hanno diversi modi di giocare, ma vorrei capire: come posso stimolarlo un po' di più. Per esempio: gli ho comprato il Play-mais no?
- Ah... No: cosa sarebbe?
- Il mais colorato per fare le costruzioni, non so se hai presente.
- Ah! Sì, una mia amica...
- Però poi ho passato un pomeriggio a fare composizioni che lui distruggeva. Non riesco a farlo concentrare. Non so, la tua per esempio a casa come la intrattieni?
- Beh, noi abbiamo fatto il didò e...
- Ah, il didò. Vero! Ho visto quelle valigette al supermercato, solo che mi sembrava che fossero per bambini troppo piccoli.  C'era lo zoo con tutte le formine. Ma è sicuro se lo mettono in bocca? Guarda il mio mi fa disperare. Lo fa apposta: mette tutto in bocca.
- No, ma ti dicevo: se tu guardi su internet...
- Ah, ecco: il mio adora i video su u-tube. Abbiamo preso anche un lettore DVD di quelli portatili, sai, per vedere per esempio i film della Disney. Ma lui si stanca subito. L'unica cosa che guarda tanto è RAI Yo-yo. La tua la guarda la televisione?
- (Rassegnata) Sì, qualcosa.
- Guarda, lui è l'unico modo per farlo stare un pochino fermo. E' che si stanca troppo al nido, mi sa. Tutte queste attività che fanno... ma non sarà troppo per dei bambini così piccoli? Poi quando viene a casa è nervoso, ipereccitato. Mi sa che è iperattivo, anche. Tu non sai cosa mi combina. Ma la tua è calma, beata te, lo vedi come sono le femmine. Mi sembra molto calma lei, vero? Com'è in genere?
- No, vabbé, è abbastanza tranquilla, poi dipende dai giorni. Anche lei quando è molto stanca...
- Magari qualche volta ci possiamo vedere per farli giocare insieme, eh, che dici? Mio marito me lo dice sempre: Pietro è innamoratissimo di Yasmin, parla sempre di lei, guarda. Quando gli raccontiamo una storia bisogna sempre mettere in mezzo la principessa Yasmin. Magari ti lascio il mio numero, eh. Così ci sentiamo. Guarda, io non ho tanto spazio a casa, poi ora mio marito ha soppalcato tutto, per mettere i giochi di lui, che in pratica non sappiamo più dove metterli. Io non lo so come fanno ad aumentare sempre. Un altro po' usciamo noi.
- Eh, se uno li compra del resto...
- No, ma poi a ben guardare, lui non è che ci gioca, eh. Li tira tutti fuori e poi si stanca subito. Per questo ti chiedevo se la tua in questo momento ha qualche gioco preferito. A parte che lui forse è un poco più grande mi sa. Lui è di maggio, la tua quando è nata?
- A luglio. Ma forse dovresti cercare di farlo concentrare su una cosa per volta. Per esempio io...
- Ah, a luglio. Allora nemmeno tanto. Sembrava più piccola. Ma guarda, è proprio bellina tua figlia. Eh, anche io volevo una femmina. Però per adesso mi fermo eh. Io non ce la faccio a fare il secondo subito. Certo però, che coraggio hai avuto! Considerando che non avete neanche casa. Ma tanto oggigiorno, che vuoi farci, eh, i tempi son cambiati! Un sacco di gente sceglie di stare in affitto, io rispetto le scelte degli altri, eh. Noi per esempio ora abbiamo il mutuo da pagare, ma abbiamo due stipendi. Però io appresso a un altro figlio lavorando non ci posso stare, e poi la nostra casa è troppo piccola per quattro. Ora dobbiamo fare la cameretta per Pietro, perché lui dorme ancora in camera con noi. La tua dorme con voi? Sempre nel lettino?
- (respiro) Sì.
- Ah, ecco, vedi. Non siamo i soli allora. Ma ora però che arriva l'altra dovrete pensare a come fare. Noi volevamo prendere quei letti che si tirano giù la sera, e poi sù, non so se hai presente. Io devo andare di qua, vado a trovare un'amica, se no mi faceva piacere fare la strada insieme, ma tanto ci si vede tutti i giorni io e te, siamo sempre le ultime ad arrivare. Ancora non mi hai detto con cosa la fai giocare lei. Hai visto il dépliant del corso di musica? dev'essere una cosa carina da fare con i bimbi. Magari ce li portiamo insieme, tu ti sei informata?
- No, guarda, a me non interessa. Sono piccoli ancora, preferisco...
- Eh, hai ragione anche tu: tutto questo tempo al nido. Però è bello che facciano tutte queste attività, vero? Oggi la maestra Lucia mi diceva del lavoro che stanno facendo con... però è giusto anche lasciar loro un po' di tempo libero, Poveretti. In fondo sono piccoli ancora, eh? Hai ragione anche tu. Poi ci sarà tempo, quando andranno a scuola... che poi crescono rapidamente che uno manco se ne accorge. Comunque poi mi dici, eh, perché mi interessa sapere come fanno le altre mamme. Io per esempio mentre preparo la cena ho lui che mi inizia a tirare fuori di tutto. Pentole, strofinacci. Sto sempre a urlare guarda.
- Anche lei fa uguale: tira fuori tutte le tovaglie, si fa i vestiti da principessa. Io la lascio fare.
- Ah, no: io questo no. Le regole sono regole. Le tovaglie servono per mangiare, per giocare ha i suoi giochi. Deve imparare che ogni cosa ha la sua funzione e il suo momento.
- Va be', ma che male c'è?
- No no, è una questione di metodo. Altrimenti va a finire che tutta la casa finisce in balia loro. No, io su questo non transigo. Io devo scappare, purtroppo, tanto poi ci vediamo eh, stammi bene.

- ...

Lei è giusto un po' logorroica. Non è antipatica, in fondo, nel suo genere. E sorprendentemente capace di autoironia, si arroga da sola il ruolo e l'etichetta di "madre ansiosa". No, ma lo è giusto un filino, eh.
Però mi dispiace non riuscire a spiegarle.

Che Mimi ha diversi giochi "comprati", è vero, ma con quelli gioca solo insieme a me.
Che quando gioca da sola non ha bisogno di strutture prefabbricate, di meccanismi ludici pensati da altri.
Che i suoi giochi preferiti al momento sono: aprire lo sportello delle tovaglie e tirarle fuori una ad una, drappeggiarsele addosso e fingersi lady Marian o Cappuccetto Rosso, la Principessa Yasmin o Raperonzolo, o un fantasmino, ballare tenendosi la gonna con una mano, come ha visto fare in un video a Biancaneve, pavoneggiarsi nelle sue vesti splendide e saltellare per casa ripetendosi da sola quanto è bella, oppure torturare uno dei gatti a turno addobbandoli di sciarpe e presine.

Che noi il nostro didò l'abbiamo fatto in casa oramai sarà un tre mesi fa, e ancora non è passato di moda, perché quello si presta a mille e un utilizzo: ci si può cucinare, si può tagliuzzare con la rotella taglia-pizza, oppure farci tante polpettine per gli scoiattoli, o per i topini, si può stendere e farci la pizza, oppure ci si può fare il gelato per mamma, o rotolare e farci intere famiglie di bruchetti: il piccolo, la mamma, il babbo, la nonna, la zia Gunchina... qualche volta anche la sorellina.

Che si può giocare anche aiutando mamma a preparare la cena, tagliando i funghi a fettine per esempio, o le zucchine, o tuffando le farfalle di pasta una a una nell'acqua bollente, e poi tenere d'occhio il pentolino e rimestare con un cucchiaio di legno, tanto per non farle sentire abbandonate al loro destino finché non saranno pronte da scolare.

Che un altro gioco bellissimo e di grande interesse è quello di far nascere i peluches.
Prima stanno nella pancia di Mimi, e lei si aggira per casa lamentando un grandissimo pancione (ohi come peda come peda), e ci possono stare anche un sacco di tempo, dentro al pancione, perché Mimi sa che ci vuole pazienza, e che bisogna aspettare tanto, perché un bambino sia pronto per uscire. A volte bisogna aspettare anche fino a primavera.
Poi alla fine nascono ed è una grande gioia: "Guadda mamma, tono nati i miei piccolini! O'a vi dò la puppa."

Che non succede niente se devo raccogliere da terra le tovaglie anche dieci volte a sera, e ripiegarle, e rimetterle via, e ricominciare da capo.
Che se a lei basta avvolgersi una tovaglia intorno al corpo per sentirsi Biancaneve o Raperonzolo, tanto di guadagnato, che non vale certo la pena andare a spendere 40 euro per un costume di Carnevale sintetico made in China.
E chi se ne frega pure, delle tovaglie (almeno qualcuno in questa casa le usa).

Allora me lo scrivo qua: come pro-memoria mio.
La prossima volta glie lo spiego.




mercoledì 30 gennaio 2013

Mimi e il Signor Kandinsky: resoconto di un incontro.


Me lo chiedeva già da un po', da quando mi aveva sorpresa ad armeggiare su internet svegliandosi di soprassalto un pomeriggio dal suo sonnellino diurno, e io mi affrettavo ad occultare il pc prima che partisse la raffica di richieste video-musicali (il tormentone del momento: "Mamma, peffavo'e, io voglio vede'e Giumbolo! Mamma, mi metti Giumbolo che ttò moendo di caldo?" il nesso causa-effetto ancora mi sfugge).

- Mamma, chi è quel tigno'e?
- E' un pittore; si chiama Signor Kandinsky... Ti va di vedere i suoi dipinti?
- Tì, mamma: mi va! (Tono da : "Certo che mi va! che domande!")


Le faccio scorrere alcune immagini e poi le chiedo:
- Ti va se un giorno ti porto alla mostra del Signor Kandinsky?
- Tì, mamma: ci voglio andacci alla mottra del Tignò Kandisky.

Poi la pioggia.
- Mamma, andiamo alla mottra del Tignò Kandisky?
- Oggi piove, Mimi. Oggi è tardi, Mimi. Oggi devo fare la spesa, Mimi. Oggi c'è scuola, Mimi.
Madre sciagurata.

Poi: l'ennesima domenica da sola, il beduino impegnato con i suoi impellenti traffici beduini (leciti), la tristezza montante, l'esasperazione della segregazione a due prolungata, che mette a dura prova le convivenze più testate, le intrusioni sempre meno tollerate dell'altra inquilina... e allora?
Fuga con Mimi: basta! Oggi si va. Pioggia o no, noi andremo a "vede'e la mostra del tignò Kandiski".
Vero è che il ritorno è stato piuttosto traumatico:  correndo per evitare la pioggia incipiente trascinando il passeggino con le ruote bloccate (a stare nella rimessina del sottoscala dev'essersi arrugginito il pedale di blocco), e lei che scappava in mezzo alla strada urlando: "Mamma, integuimi! Guadda come tono veloce!", e "Mimi fermati quando finisce il marciapiede", e "Signora, ma la bambina è sua?", e "Grrrr" tra i denti, e la focaccia che mi si stritola tra il manubrio e la mano e mi casca tutta la cecina (sui pantaloni, ovvio), e allora martellate sulle ruote del passeggino finché non riesco a sbloccarle, e allora poi mi dico "Lo vedi che non facevo male a restarmene tranquilla a casa?"

A posteriori lo posso dire in tutta onestà: sono felice di aver osato, con tanto di panza da ottavo mese gravida e acciacchi e stanchezza e condizioni meteo avverse, e padre latitante.
Sono felice per aver visto l'entusiasmo nei suoi occhi, nei suoi gesti, nelle sue danze davanti ai dipinti, nel suo continuo domandarmi di ricominciare ancora una volta la storia.
E sono felice di aver condiviso con lei questa esperienza, di averle aperto le porte di un mondo ancora in parte ignoto, di aver condiviso insieme una passione, del fatto che lei sia stata in grado di raccogliere l'input, per non parlare ancora di eredità (che mi fa sentir vecchia e con un piede nella fossa).

Ma ora vi racconto della mostra.
Dunque, la mostra in questione veniva ospitata almeno fino al 22 gennaio scorso (ammesso che non ne abbiano prolungato l'allestimento), nei locali dello storico Palazzo Blu, in concomitanza della mostra per adulti, di cui già vi parlai.
Lo scopo era quello di creare un percorso introduttivo all'opera dell'artista per i bambini in visita alla mostra principale, da affiancare con i percorsi e i laboratori didattici previsti per le scolaresche (ed eventualmente per gruppi di privati su prenotazione, ma dai 3 anni in su, come mi hanno confermato alla reception).
In realtà per una bambina come Mimi va benissimo anche la sola visita alla "mostra dei piccoli" che è questa:

Organizzata come una sorta di narrazione per tappe del percorso artistico di Kandinsky e della sua idea di arte, la sua lettura procede proprio come si sfogliano le pagine di un libro, ogni quadro accompagnato da un due righe di racconto, che io le leggevo ad alta voce, perché nella grande sala dov'erano esposte le 21 tavole della mostra, c'eravamo solo noi.
Le opere esposte, di medio-grande formato, sono le tavole originali delle illustrazioni del libro omonimo, realizzate a tecnica mista (collage di vari materiali diversamente assemblati, acquarello, stampa) dal poliedrico illustratore per bambini Daan Remmerts De Vries.

Mimi era raggiante, la sua gioia e il suo entusiasmo rinfrancanti e contagiosi. Andava e veniva dall'uno all'altro dipinto, tornava verso di me che ero seduta (direi stravaccata, esausta) sul divanetto al centro della sala, e accompagnavo con le didascalie vocali il suo peregrinare per tappe, come una gioiosa via dell'arte.
L'arrivo di alcuni visitatori adulti non mi ha indotto a metterle un freno, perché quella era la sua mostra, e loro erano gli intrusi. Del resto le sue escandescenze non erano gratuite, ma dettate dall'emozione della partecipazione a quell'evento: il dispiegarsi dell'arte davanti ai suoi occhi, quella festa di colori, la storia di quel signore tanto originale, che tanto sembrava ancora un poco bambino, nel suo modo un poco obliquo di guardare al mondo e alle cose, nella sua maniera incurante di rappresentare poi quel mondo e quelle cose sulle sue tele.
La storia era abbastanza semplice perché anche una bambina della sua età potesse comprenderla, anche se forse in alcuni passaggi un pochino oscura, come possono apparire oscuri per un bambino i dilemmi esistenziali di noi adulti, i problemi legati all'incomprensione del mondo, all'insoddisfazione personale, alla necessità drammatica di ancorarsi ad una propria ragione d'esistere, ad una ricerca che a tratti si perde e ti fa perdere di vista gli intenti iniziali.
Il cavallino azzurro che a un certo punto salta fuori da una delle tele dipinte dal signor K. rappresenta l'estro artistico, che accompagna lo stesso signor K. in tutti i momenti della sua vita, dai più prosastici ed ordinari, a quelli più creativi, ed a questa presenza, invisibile a tutti se non  a lui ("Mamma, anche io lo vedo, il cavallino del tignò Kandisky") egli deve la straordinarietà della sua arte, anche se non sempre questo gli rende la vita facile, perché le persone intorno non sempre lo capiscono...

Stavo spiegando a Mimi cosa avesse di insolito per i suoi contemporanei l'arte del signor K., che dipingeva le cose non come apparivano, ma come lui le sentiva, a seconda degli stati d'animo che queste suscitavano in lui, e stavo spendendo un sacco di parole per cercare di centrare meglio il succo della questione, quando mi sono accorta che in realtà a Mimi doveva sembrare assolutamente naturale il modo in cui il signor K. dipingeva, visto che anche lei disegna così.
E mi sono tornati in mente alcuni dei suoi (di Mimi) più celebri lavori: "La balena con le ali", "Il bambino blu che vola nel cielo blu", "Il bimbo verde che guarda gli aerei", "Una famiglia di mostri buoni che si nascondono nel buio". Certo, a vederli senza conoscere il soggetto, fatichereste a individuare che si tratta di tematiche così complesse e articolate, anzi: fatichereste a trovarvi un qualche motivo figurativo a caso.
Ma che importa?
Se a lei in quel preciso momento del suo processo creativo tracciare quelle linee curve e dritte suggeriva in sequenza quella e non altre serie di associazioni ed immagini che rispondevano a quel preciso concetto?
Certo, stavo sprecando il mio tempo e le mie energie a spiegare a Mimi che il signor K. dipingeva un prato viola, perché a lui andava di farlo viola. Per lei non poteva essere più naturale, e infatti non ha fatto una piega: nessuna domanda di quel genere lì.
Quando le ho chiesto: "Ti piacciono i dipinti che faceva il signor K.?", mi ha risposto: "Tì, tono tutti colo'ati!"

Abbiamo fatto un salto al book shop di Palazzo Blu e abbiamo comprato questo, a ricordo della nostra mattinata artistica:


Come spiegare l'arte contemporanea ai bambini? Ma i bambini non hanno bisogno di farsela spiegare!

Se lo prendete on line sul sito della casa editrice, lo trovate a un buon prezzo!
E' fatto bene, ma preferivo le didascalie della mostra, più discorsive, più esplicative. In ogni caso bellissime le tavole, vale la pena, solo per quelle.

martedì 29 gennaio 2013

La prima festa di compleanno non si scorda (tanto facilmente).


Allora sì: lascerò ancora incompiuto il post-in-progress che rimando già da una settimana su Mimi e il signor Kandinsky (non vi avessi già rotto le palle a sufficienza), per aggiornarvi su un evento assolutamente insulso, e scrivere una serie di patetiche banalità da madre apprensiva e un tantino disadattata, sbrodolandomi sull'implacabilità del tempo della vita, sull'io, il sé, gli altri, la crescita, il distacco, l'indipendenza, le aspettative, le tare caratteriali e quant'altro, il tutto frullato nella testa di una trentunenne gravida che perde le chiavi della macchina dopo averci chiuso dentro sua figlia di due anni e mezzo e non sapere più come fare ad aprirla, perché le sovviene il dubbio di averle lasciate all'interno della stessa autovettura.
Insomma: questo il trailer. Se nel frattempo siete tutti scappati, meglio così: almeno avrò pista libera ai miei vaneggiamenti, senza dover render poi troppo conto in giro di ciò che scrivo.

Allora, tutto è cominciato con Mimi che è stata invitata a una festa di compleanno delle amichette del nido.
E per la verità non è stata la prima volta che ciò è accaduto: avevamo già ricevuto un paio di altri inviti, infilati nell'armadietto guardaroba del nido, con tanto di RSVP, roba da mettermi addosso la tachicardia già con una settimana di anticipo.
Insomma, quel RSVP, in genere mi aveva definitivamente convinta (se già non lo fossi a sufficienza) a declinare gentilmente l'invito, campando diverse scusanti plausibili.
Ma stavolta no, non è stato possibile.
O meglio: non me la son sentita, perché la mamma in questione è forse l'unica persona con cui sono riuscita a stringere un qualche tipo di rapporto che vada oltre il buongiorno e buonasera e con cui sento di avere una certa sintonia di intenti e di vita.
E quindi, in definitiva si va: aggiriamo l'ostacolo del sonnellino pomeridiano di Mimi, che puntualmente la domenica pomeriggio (soprattutto se abbiamo in programma di fare qualcosa con lei) entra in uno stadio letargico irreversibile, svegliandosi quasi in prossimità della cena. Non ha fatto eccezione stavolta, ma ho messo in atto uno spietato programma di smaronamento di scatole, che alla fine l'ha avuta vinta sulla sua recalcitranza alla veglia.
Per dire: l'invito era previsto per le quattro e mezza, e noi eravamo pronte ad uscire di casa già alle sei meno un quarto: un successone.
Vi confesso che ho indugiato nella debolezza di prenderle in saldo (in previsione del grande evento mondano) un completo maglietta-pantaloncini di vellutino color malva (forse) e un paio di scarpine di vernice che lei ha gradito molto (sempre in saldo, ma... ehi! Salasso!), tanto per non fare sempre la figura della sfollata che porta la figlia alle feste in tuta e golfino sformato mentre le altre bambine sfoggiano abitini di popeline a palloncino e vezzose gonne a piegoline: di stonato, con due enormi spalline e le maniche rimboccate, c'era solo la giacca di feltro rossa, rimediata non ricordo bene da chi (perché il suo cappottino figo era in lavanderia), ma quella, una volta fatto il nostro ingresso, è stata tolta di mezzo, occultata nella stanza-guardaroba.
Si è lasciata vestire da Barbie ancora mezza intontita dal sonno, allettata dalla prospettiva di andare alla festa di "Maua e Pede'ica", ha detto al padre: "Buia, noi andiamo alla pesta, tu appettaci qua eh!" E siamo uscite.

Va be', mo' non è che vi devo fare il resoconto minuto per minuto di quelle due ore e mezza del nostro party-time casalingo. Riassumerò per sommissimi capi.
I bambini: appena mettiamo piede nell'ingresso della casa, un casino che non vi dico, piccoli selvaggi senza scarpe sotto il metro di altezza, correvano da una stanza all'altra senza soluzione di continuità trascinando e/o spingendo veicoli di varia natura, dal passeggino per bambole al monopattino, soffiando dentro trombette di carnevale in plastica e urlando come aquile su varie tonalità e volumi, mandando nel panico prima me (vi giuro: la bimba mi ha sussultato in grembo, perdonatemi la blasfemia), poi Mimi, che non mi ha mollato l'orlo della maglia per tutta la prima ora di permanenza.

I grandi: normale situazione da public relations tra persone che si conoscono mediamente poco e che in linea di massima si stima abbiano meno del 20 % degli interessi e delle abitudini in comune.
Solo che io, in queste normali situazioni di interazione sociale mi ci son sempre trovata come un cammello in una grondaia, tanto per dirla alla Battiato. Un tempo, è vero, ovviavo mettendomi a fare cose, ai bei tempi andati (belli forse proprio perché sono andati) delle deliranti feste studentesche che organizzavamo nella rimessa di casa nostra, sempre esagerate in quanto ad invitati, alcool, e orari, perché ci metteva lo zampino il Beduino, mentre io gestivo la parte pratica, e me la sfangavo dalla necessità di dover a tutti i costi intrattenere conversazioni con semisconosciuti, apparire divertita, muovermi a ritmo di musica e mischiare intrugli alcoolici per poi sentirmi male a metà serata.
Non potevo perché poi a partire dalle due di notte, ero io che dovevo rimanere vigilante a ricevere le visite di carabinieri, polizia, finanza e quant'altro, che periodicamente passavano a vigilare sul rispetto della quiete notturna, turbata dai nostri schiamazzi e da tamburelli vari.
Me la sfangavo anche perché, dopo poco, erano tutti abbastanza sbronzi da non richiedere la doverosa chiaccherata di circostanza, e uno poteva anche mettersi sbracato da qualche parte ad ascoltare la musica con un bicchiere in mano, senza pericolo di esser tacciato di antisocialità.

Ma qui era tutt'altra roba. L'argomento comune a tutti erano i bambini, ed ovviamente sui bambini verteva la maggior parte dei nostri discorsi.
A parte che poi, chi si frequentava un po' di più di quanto non facessi io, aveva modo anche di scambiarsi informazioni personali su famiglia, lavoro, rapporti... io come al solito vagavo da un gruppo all'altro genitoriale mostrando facce interessate ai discorsi dell'oratore di turno, capendo meno della metà, e non riuscendo ad intervenire se non con inutili e pressocché ignorate interazioni affermative, che del resto nemmeno io riuscivo ad udire in quel casino, perché ho sempre avuto il tono della voce piuttosto basso, e non amo alzarlo, nemmeno in circostanze di strettissima e urgente necessità.

Ma siccome tanto ero preparata a una situazione tipo di questo genere, così come a fare la figura dell'allocca disadattata che non ci sta a fare niente, e che è palesemente a disagio, sono adulta, ehi, ci avrò fatto pure il callo, oramai, poco male.
Ciò che mi è dispiaciuto è stato osservare in Mimi un comportamento abbastanza analogo al mio, ma magari accentuato dal contrasto che balzava agli occhi tra il suo silenzioso avviticchiarsi alla mia gamba e giocare in solitaria con cucine e pentoline e quello dell'orda selvaggia, che sciamava ancora di stanza in stanza col suo allegro carico di casino a strascico.
Che io un po' ci ho provato a star loro dietro ("Andiamo a vedere dove sono i tuoi amici), e a tentare di inserirla ed emanciparla dalla mia presenza ("Dai Mimi, vai a giocare con gli altri, ché io sto un po' qui con le mamme, se mi cerchi sono qui"); puntualmente, non appena prendevamo postazione in uno degli ambienti più "animati" della casa e tentavamo interazione, subito subito era l'esodo, e ci ritrovavamo di nuovo io e lei, e qualche sporadico gruppetto di conversanti adulti (con le tempistiche dei party ci ho sempre fatto a cazzotti, io).

Alla fine ho smesso di fare pressione perché si unisse all'orda barbarica, ed ho accettato il fatto che lei preferisse starsene tranquilla a giocare da sola con i giochi che aveva a portata di mano, tenendomi d'occhio perché non sfuggissi alla sua visuale, e rendendomi ogni tanto partecipe delle sue scoperte: "Guadda, mamma, quante cose ho messo nel tacchettino?".
Che poi, mi son chiesta, perché mai deve per forza unirsi ai giochi collettivi? Se lei si trova meglio così che male c'è? Sono solo io che proietto su di lei i miei disagi sociali e la vedo in crisi quando invece lei sta benissimo così come sta, e magari è solo caratterialmente più incline ad occupazioni di tipo riflessivo e organizzativo, che non caotico ed esplosivo-distruttivo. O forse... la mia influenza continua e perpetuata in questi due anni e mezzo di frequentazione pressocché esclusiva, l'ha irreparabilmente alienata da una normale e sana interazione sociale?
Ma dai, rispondeva l'altra me, Mimi ha in media mezzo anno in meno della maggior parte di bimbi che sono qui, essendo lei nata a luglio, ed essendo stata inclusa tra gli invitati, credo solo in virtù della frequentazione intercorsa tra noi genitori. Difatti le sue amiche più strette del nido, non erano presenti.
Insomma, libertà di essere se stessi, cribbio! Che forse a ben pensarci è proprio ciò di cui mi sento privata in questi contesti non proprio tagliati sui miei panni, in cui mi pare quasi di dimenticarmi in che ruolo e in che posizione io mi debba porre, quale registro di me sfoderare, quanto lasciarmi andare nei miei rapporti di confidenzialità e convenzionalità.
Mah, quante seghe mentali di fronte a quei vassoi di panini all'olio farciti alla nutella, focacce con prosciutto cotto e mozzarella, arancini e bignè, e poi, attenzione attenzione, arriva la torta mimosa, rigorosamente, tutto fatto in casa ("Oh, quanto sei brava, tu!" "Ma dove lo trovi il tempo, la voglia per organizzare tutto così bene?" "Mimi, ti va qualcosa di dolce o di salato?")

"Eh, ma non ti stacchi mai dalla mamma, tu?"
" Rilassati, guarda che non succede niente se la lasci un poco da sola". Mi dicevano, le dicevano.

Poi lei, che piangeva in silenzio, come al solito ingoiando le lacrime che quasi non me ne accorgevo nemmeno che piangeva così accorata, chiusa in se stessa, ferita, perché l'amichetta più grande di lei di una spanna e mezza le aveva sòlato la bacchetta magica con cui lei stava pacificamente giocando ("Io ce l'avevo la becchetta, e lei me l'ha p'esa!" Grande singhiozzo di petto. No, non piangere, non piangere, bimba mia: inseguila e tirale i capelli, dalle uno spintone e ripigliati la tua bacchetta magica! Ma in realtà le ho detto: "Non fa niente, guarda che bello: ho trovato una bellissima corona da principessa!)

Francamente non credo di essere una madre morbosa, attaccata alla figlia, incapace a lasciarle i suoi spazi di autonomia, ma non posso neppure obbligarla a comportarsi come non le viene spontaneo di fare.
Mi sono accorta che la mia insistenza a che lei si integrasse nel gruppo era più riferita a me stessa e agli altri, per dimostrare e dimostrarmi che così non fosse, che non a lei e alle sue esigenze.
E poi bisogna dire che Mimi ha sempre funzionato a diesel, come dice mia cuniata: lei per carburare in determinate situazioni ci mette anche un'ora o più. Lo dimostra il fatto stesso che al momento di andar via, alle otto di sera suonate (wow! Che mondanità!), quando già i compagnucci del nido si erano dileguati da un pezzo e rimanevano soltanto i familiari, zii e cugini, delle festeggiate, lei ha avuto un picco di baldanza psico-fisica, ha iniziato a saltellare, a scorrazzare appresso a quel che rimaneva dell'orda selvaggia con una manica del giacchetto sformato infilata, e l'altra a strascico, e a lanciare entusiastiche quanto commoventi esclamazioni quali : "Che bello che tto alla pesta di Maua! Mi divetto!"
Beh, Mimi, alla buon ora, mi verrebbe da dire.
No, perché io seduta sul divano ad ascoltare ancora per altri cinque minuti i resoconti nipoteschi della nonna di Maua e Pede'ica, francamente, non me ne volere, ma non ce la posso fare.

Insomma, bilancio? Mah, non saprei, diciamo che ci abbiamo provato.
Rimandiamo però a parecchio più in là per la prossima, ché io non è che ci ho soldi da spendere per fare regali collettivi (e che palle però! Ma ora si usa fare le collette anche per i treenni???) a ogni marmocchio che compie gli anni da ora alla Maturità; ché io non è che impazzisca all'idea di trascorrere altre 20 domeniche del restante anno scolastico (ché tanti sono i bimbi della sezione quest'anno) in odore di divertimento forzato in mezzo a semi-estranei e aio loro figli esagitati; ché io me ne sarei volentieri rimasta a casa a farmi i cavoli miei visto che Hasuna si era sorprendentemente offerto di portare la pupa a fare un giro con lui (ogni lasciata è persa, cara mia); ché io ora, per fortuna, ci ho la scusa che sono incinta, stanca e appesantita, e tra poco ci avrò quella della neonata da accudire, e tempo per trastullarmi tanto non ne avrò, ma se proprio devo far qualcosa preferisco vedere Mimi scalmanarsi come una Menade furiosa al ritmo di tarante e tamburelli ad una cena tra amici, anche se alla fine è l'unica bambina presente, che giocare da sola in mezzo al caos di bimbi festanti. Per altro ci sarà tempo, quando sarà lei a chiedermelo, e allora certo non mi troverà poco disposta ad accontentarla.

E comunque lei era uno splendore: c'è bisogno di dirlo?




venerdì 25 gennaio 2013

Libri di pupa: Nel paese delle pulcette.

Durante le festività natalizie avrei voluto postare qualcuna delle nostre new-entry in fatto di librini. Purtroppo tra spostamenti con conseguente abbandono di biblioteca casalinga e scombussolamento delle abitudini consuete, non ho dedicato al blog il tempo necessario per poter tenere fede al proposito.
E' che segnalare un libro per bambini sotto Natale avrebbe avuto un senso: regalare un libro a un bambino può essere una soluzione molto bella e gradita, piuttosto che l'ennesimo abitino per le occasioni speciali o l'ennesimo peluche...
A questo proposito vorrei segnalare questo gustoso post, di qualche tempo fa di Topipittori:

(E se non vi bastassero eccovene altre 20, stilate da La scuola in soffitta).

I libri sono in assoluto i regali che Mimi (alias la pupa, ma si è deciso di abbandonare gradualmente questo nick piuttosto ambiguo in vista dell'arrivo della new pupa) gradisce di più ricevere, e non credo che si tratti di un mio merito, anche se a volte mi viene pure la tentazione di arrogarmene un qualche vanto.

No, è che lei ha già capito tutto, dei libri: lei i libri li assapora, li ascolta, li osserva, li impara, li fa suoi, se ne appropria, li vive, li rievoca nel corso della giornata, li recita a memoria, li cita a proposito e all'occasione, diventa amica e complice dei personaggi, ci parla, ci si identifica, trae conclusioni e massime di vita.
Così rimango stupita quando dimostra di saper afferrare alla perfezione il senso e il messaggio impliciti (o abbastanza espliciti) in una storia che sia più di una semplice narrazione di fatti elementari, come era fino a qualche tempo fa, quando si accontentava di un Giulio Coniglio o di una Pimpa... senza nulla togliere all'uno e all'altra, che considero ancora un valido approccio alla lettura per i piccolissimi, è che ora vorrei proiettarla su orizzonti un pochino più articolati, e mi piace trovare libri che riescono a veicolare in maniera semplice e chiara anche contenuti di un certo spessore.

Così oggi volevo presentare questo libretto, davvero molto ben fatto, sotto ogni punto di vista, anche se immagino sia stato segnalato in passato già da altri. Ma pazienza: dirò la mia.

Titolo: Nel Paese delle pulcette.

Autore-illustratore: Beatrice Alemagna

Editore: Phaidon

Età: dai 2 anni.

Voto: 9.

I libri di Beatrice Alemagna sono dei piccoli gioielli di perizia grafica, di creatività e originalità.
Quello che salta subito agli occhi in questo libro è l'attenzione per l'aspetto materico dell'illustrazione: le immagini sono realizzate in lana cotta e inserti cuciti su panno di feltro, quali bottoni, merletti, paillettes... La scelta di questa tecnica così originale già di per sé impreziosisce questo libro, dando l'impressione a chi lo sfoglia da avere tra le mani un prodotto artigianale, frutto di grande impegno e pratica manuale, oltre che di inventiva e lavoro di testa.
Penso che l'accento posto sulla materia, sull'aspetto fattuale dell'immagine vista come oggetto concreto, stimoli molto i bambini dal punto di vista creativo e immaginativo.
Come dire: un invito a vedere le molteplici possibilità del mondo reale, a sperimentale con i materiali, a guardare oltre la carta stampata.
Roba che poi ai bambini riesce benissimo, anche senza ulteriori incentivi: loro riescono a vedere il profilo di un drago in una crepa su un muro, tartarughe sui tetti delle case e pesciolini dentro le pozzanghere per strada. Per questo penso che l'immagine non perfettamente rifinita, che rimane quindi un po' allusiva, nel vago dell'interpretazione, offra ai loro occhi una grande potenzialità di particolari da aggiungere e inventare.
Detto questo devo anche aggiungere che, acanto ad alcune pagine illustrate in maniera molto astratta e schematica, una volta entrati nel vivo della storia, l'autrice arriva ad un livello di caratterizzazione e cura dei particolari estreme, tanto da stupirti per come riesca a rendere irresistibilmente espressivi e "vivi" i suoi personaggi, le simpaticissime pulcette, alle prese con profondi dilemmi esistenziali.

Ecco, per farvi capire, qualche esempio di questo formidabile campionario espressivo (personaggi, poi, tutt'altro che bidimensionali, a dispetto della tecnica, che poteva comportare un generale appiattimento dei volumi):







La storia è molto semplice, ma a mio modesto parere estremamente azzeccata nella scelta del messaggio ed efficacie nella maniera di trasmetterlo e svolgerlo, acuta nel richiamare i modi comunicativi proprio dell'infanzia, i conflitti d'identità, i primi incontri e scontri tra il proprio mondo e quello degli altri.
Banalmente potremmo dire che il tema di base è la diversità di tutti gli individui: le pulcette si incontrano tutte insieme per la prima volta (malgrado da anni convivano tutte nello stesso materasso, però ciascuna rinchiusa nel proprio buchino) in occasione del compleanno della pulcetta grassa, ed è proprio la pulcetta grassa a rimanere per prima sconcertata e contrariata dallo scoprire che le altre pulcette non sono affatto, come lei si aspettava, tutte simili a lei (bianche e grasse), ma sfoggiano una varietà di colori e forme fino ad allora per lei inimmaginabili, e pretende quindi di avere spiegazioni dalle sue ospiti.
Parte una serie di interrogazioni a catena che finisce sul coinvolgere tutte le presenti: "perché tu sei così?", domanda di fronte alla quale le pulcette interrogate si troveranno nell'imbarazzo del non saper rispondere, se non girando a loro volta la scomoda domanda alla prima malcapitata che avranno tiro.

La risposta in realtà è molto semplice, anche se non sempre le risposte più semplici sono quelle più a portata di mano, quando si tratta di dover giustificare in prima persona il dato di fatto di una propria "inadeguatezza" di fronte a un "altro" diverso.
"Io sono così perché è così che sono nato. Non l'ho scelto, non posso farci niente".
Per le pulcette si tratta di una vera rivelazione, e più: di un vero e proprio sospiro di sollievo, perché pone fine a tensioni e incomprensioni.
In fondo tutti noi abbiamo almeno un motivo per sentirci dei diversi: credo che in fin dei conti il vero tema del libro non sia tanto la necessità di accettare il diverso da sé, quanto quella di accettare se stessi, la presa di coscienza di una propria identità, unica e irripetibile, che magari ci impone delle prese di posizione per difenderla da attacchi e chiusure altrui, ma che è proprio ciò che fa di noi degli individui, sin dal momento in cui veniamo al mondo.
Il fatto poi che questi temi siano affrontati in maniera chiara, semplice e divertente non può che andare a merito dell'autrice.


Un'ultima parola sulla veste tipografica: formato e qualità della carta (cartoncino spesso ruvido, che a me ricorda quello dei miei album di educazione artistica a scuola) sono eccellenti, ed accentuano quel senso di matericità tangibile, che ti fa quasi avvertire sotto ai polpastrelli la consistenza morbida e infeltrita della lana, l'incongruità superficiale della stoffa, il rilievo delle cuciture.

Insomma: promosso a pieni voti, tanto che stavo pensando se fosse il caso di procurarci il secondo e il terzo capitolo (a scorrere le anteprime già mi sono innamorata)...

La vostra Suster per:

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martedì 22 gennaio 2013

Elogio dello svacco.


Avere la possibilità di gestirmi il tempo in libertà e svacco fino alle 4 è una sensazione talmente insolita che a tratti ha dell'inquietante.
Del tipo: e ora che faccio? Ma non mi lascio fregare.
Sono abbastanza distrutta fisicamente e anche la prospettiva dello svacco non mi fa proprio schifo, anche se poi mi sono messa a svuotare i pensili della cucina... mah! La solita sindrome del nido.
E a proposito di nido: oggi glorioso rientro di Mimi, a scuola, con tanto di certificato medico alla mano, anche se è stata via solo per uno stupido raffreddore.
Appena entriamo troviamo dei tizi che con lunghe aste facevano misurazioni sul soffitto e annotavano parametri su un foglio, molto concentrati. Delle maestre nemmeno l'ombra.
Ci dicono: infiltrazioni d'acqua dal tetto e dai muri, e, ci dicono, a noi genitori, di aspettare che forse fanno evacuare la scuola, per rischio di crollo della struttura.
Ottimo direi.
Dopo mezz'ora ci mandano via tranquillizzandoci che le aule a rischio crollo non verranno utilizzate (tipo la stanza dove normalmente dormono i bimbi il refettorio e la palestra -termine prosaico per "sala di psicomotricità"-).
No, dico io, che sarà mai, anche se dovesse crollare il dormitorio, che vuoi che sia: basta spostare i bimbi e metterli insieme ai lattanti, no? E poi il geometra ha firmato che è tutto a posto, ti pare che si prende una responsabilità del genere se non fosse così?
Sarà ma una vaga inquietudine mi è rimasta.
Vedremo. Mimi viva o Mimi spiaccicata? Chissà.
Intanto consegno il certificato alla bidella:
"Guardi, non so... è questo?"
Frugo tra i foglietti spiegazzati nella mia agenda 2012.
Mi guarda come fossi scema (e in effetti...):
"Questa a me sembra un'impegnativa per una visita oculistica."
"Ah! Oh! Ha ragione ecco, allora dev'essere questo. Scusi sa... son o un po'... faccia lei." (Suggerimento: rincoglionita?)

Mi viene da chiedermi: Ma con Mimi ero così stanca?
Che implica riferimento alla mia prima gravidanza e sottintenderebbe risposta negativa.
No perché ultimamente, tra la panza che mi tira ovunque, le costole doloranti, Noemma che freme e si agita nottetempo, sono proprio ridotta a uno stadio semi-larvale. Roba che ho rinunciato a uscire di casa per tre giorni di fila, approfittando della grave indisposizione della pupa: lei accusava tremendissimo raffreddore con raccapriccianti fuoriuscite di muco verde, predisposizione alla lagna reiterata e insistente, recalcitranza mattutina ostinata a (nell'ordine): svegliarsi, alzarsi dal letto (malgrado le ripetute evocazioni di un'appetitosa colazione), farsi vestire, pettinare, infilare le scarpe, infilare giacca, uscire di casa, e che lo dico a fare, andare al nido.
Sono debole, lei mi frega come e quando vuole.
- Mamma dove andiamo oggi?
- E secondo te dove andiamo?
- Andiamo a 'Oma da nonna?
- No, Mimi, andiamo a scuola.
- No mamma, io non boglio anda'e a ccuola: voglio tta'e a casa con te!
Parte la serie di valide argomentazioni materne secondo cui a scuola ci si diverte molto più di quanto non si possa fare a casa in compagnia di una mamma comatosa, su quanto sia noioso passare intere giornate di pioggia chiusi in casa e via dicendo.
Lei non si lascia intortare:
- No, mamma, io non mi annoio MAI a cada. Mi annoiavo a ccuola, ie'i: piangevo! Pecchééé... volevo te!
Ditemi un po' voi come può una rimanere insensibile a tanto strazio.

Comunque dopo un blando tentativo di mandarla a scuola col muco verde, avvertendo che la sarei andata a prendere prima del sonnellino, tanto per mettermi la coscienza a posto, i recuperi traumatici di lei con gli occhi iniettati di sangue, i distruttivi addormentamenti pomeridiani ostacolati da gatti e improvvisi explois energetici di lei, mi son convinta che la meglio era tenerla a casa finché non le passava 'sto raffreddore, che almeno mi evitavo possibili bacchettate da maestre e genitori circa la circolazione di germi, e mi potevo adagiare entro il solco di orari più mollaccioni.
Il risultato è stato un disastroso spataccamento casalingo di entrambe, lei in pigiama fino a orari vergognosi, io spalmata sul materasso a ogni ora, a massaggiarmi la pancia dolorante.

Domanda: ma com'è che portarla al nido a me più che farmi riposare mi stressa?

Alzarmi al mattino passi, è svegliare e preparare lei che mi distrugge, inseguirla sotto al tavolo di cucina con un calzino mezzo infilato al piede e l'altro in bocca, tentare di districarle capelli impastati al miele e muesli, infilarle la maglietta mentre lei "disegna con la cannuccia" tenuta tra i denti in una sorta di drip-art lattea casalinga.
Lei la mattina ci ha i suoi rituali del risveglio: dai 15 ai 20 minuti a giocare nel letto infilando a turno i vari suoi pupazzi sotto le coperte e invitandomi ad assistere allo stupefacente spettacolo della vita:
- Mamma, guadda che panzone che ho io, con dentro Amleto! Tocca, mamma, il mio panzone! Vedi? Amleto deve anco'a nacce'e! Guadda, mamma, è nato Amleto!
- Mimi, vieni a fare colazione?
- No, mamma, c'ho i'ppanzone io! (Torna al punto 1).

Per riuscire a fare tutto in orario dovrei iniziare a svegliarla un'ora prima.
Da cui: per non soccombre quando, tra pochi mesi, ci sarà Noemma, urge organizzazione. Se con una vado in tilt, non oso pensare con due.

Ecco il quesito: ma come fanno gli altri genitori a portare i figli al nido in orario e poi ad essere a lavoro loro pure in orario?

E sì che non lavoro, non ho cani da portare a fare i bisogni al mattino, non devo guidare per 40 minuti in mezzo al traffico della Capitale, per dire: abito a 15 minuti di strada a piedi dal nido, volendo.
Eppure io di norma arrivo sul filo del rasoio dell'orario di entrata (e sì che il nido è aperto già dalle 7.30), la infilo nel pertugio del portone che si va chiudendo come Indiana Jones nel tempio maledetto, dopo aver derapato con la bicicletta sotto la pioggia scrosciate.
Ma anche quando riesco a portarla a un'ora decente (senza strafare, diciamo per le 9: orario rispettabilissimo) anticipando un po' sulle tabelle di marcia, non capisco come, sono sempre l'ultima genitrice a uscire dalla scuola, anche se non mi fermo mai a parlare con le maestre, non chiedo mai cosa c'è per pranzo, non chiacchero con le altre mamme, non (inserire varie ed eventuali attività di normale interazione sociale scolastica).
E' che siamo tarati: la puntualità, ne sono convinta, è un'eredità genetica. O ci nasci o te la scordi.
Guarda me, no: guarda Hasuna, e poi guarda Mimi. Condannata ad arrivare in ritardo a vita.

Ieri per esempio, pronte per il grande rientro dopo la "pausa raffreddore-svacco", mi ritrovo a infilarle le scarpe alle 9 suonate, mentre lei finisce di ingurgitare il suo latte e miele, cannuccia, drip-art; capelli non c'è tempo, pipì, nemmeno (la farà a scuola).
- Mamma facciamo il puzzle dei porcellini?
- No, Mimi, è tardi.
- Mamma, io voglio fa'e i puzzle dei porcellini!
- dai Mimi che è tardi!
- Mamma, io no ci voglio anda'e a ccuola... (Mh, questa mi suona nuova...)

Arriviamo davanti al portone che sento rintoccare le nove e mezza: chiuso.
Ce ne torniamo moge moge (io), trionfanti (lei) sotto una pioggerella beffarda e incipiente.
Avrei potuto suonare, implorare pietà. Ma suvvia, un minimo di dignità, rispetto, senso del pudore...

Quinto giorno di assenza, contando il dannato week end di mezzo: vuol dire un'ora di anticamera dal pediatra per il famoso certificato medico. Lui ne approfitta per visitarla e mi chiede se sto bene.
Io o Mimi? No, Mimi sta una favola, dice. Dice che io, se mai, non sembro proprio in formissima, dice che sono bianca e un po' gialla. Gli dico che sono incinta. Mi dice con leggero sarcasmo che l'aveva vagamente sospettato... Mi dice che dovrei riposarmi. Ah, ecco!

Ecco: ora mi sento ufficialmente autorizzata allo svacco. Me l'ha prescritto il pediatra di mia figlia.

Cioè, peggio di così è difficile: il frigo, porello, in uno stato da far pietà, reclama generi alimentari di prima necessità; i capelli saranno dieci giorni che non riesco ad andare oltre al proposito (onestissimo, per carità) di lavarmeli, la casa sembra un accampamento, perché chissà come mai quando si sparge la voce che aspetti un bambino un sacco di gente che deve svuotarsi la cantina pensa bene che forse ti potrà servire una paccata di Sapientino Scuola senza batterie e il gioco dell'oca di Ben Ten...

Mi arrampico su per le scale con le buste della spesa in una mano, nell'altra mano la mano di lei, che rompe perché vuol essere presa in braccio perché "tono ttanca di sali'e le scale" (Eh! immagina io!), e intanto penso: ah, ma domani vedrai se non ti ci porto, al nido!

Ecco perché non mi sento poi tanto in colpa per aver ceduto con tanta facilità alle rassicurazioni circa il pericolo di crollo del soffitto dell'asilo nido dove va mia figlia.
Abbiate pietà.

Mi si indurisce la panza la sera: dura come pietra. Non potete capire il fastidio.
Mai avute con Mimi contrazioni pre-termine, e la cosa mi preoccupa un poco. Non vorrei affrettare la venuta al mondo di Noemma, ecco.
Non sono pronta: non ce la potrei fare. Non ancora.
Ancora un po' di svacco, per piacere!
Pietà pietà!

mercoledì 16 gennaio 2013

Benritrovato signor Kandinsky.

Ci eravamo incontrati una prima volta su altri suoli, in terra iberica, e svariati anni ed ere biografiche fa. Ere biografiche intese come della sottoscritta, ché il signor Kandinsky all'epoca l'era già bello che defunto.
Rimasi fulminata dalla rivelazione, allora.
Ammetto che malgrado il mio stato di studente in Scienze dei Beni Culturali impegnata nel popolare progetto-studio Erasmus, gli anni di preparazione liceale in Storia dell'arte e i numerosi esami universitari già accumulati alle mie spalle, il fascino dell'astrattismo continuava a sfuggirmi, o forse semplicemente a non toccarmi minimamente. Ero inchiodata all'iconicità visiva.
Del resto è una cosa abbastanza comune, anche tra i laureandi e i laureati in Storia dell'arte che in seguito ebbi modo di conoscere.
Qui in Italia l'arte contemporanea non ce la insegnano come si dovrebbe.

Magari, oltre alle teorie astruse che trovi su alcuni manuali e sui saggi universitari su questo o quell'artista, corrente o avanguardia che ci condannano a digerire, sarebbe il caso che ci insegnassero a capirla, penetrarla, capirne gli intenti, le movenze, gli obiettivi profondi, calarci nello spirito di chi le diede vita e nel suo strenuo impegno nella ricerca, la tensione verso l'espressione e l'inesprimibile, e l'arte che fa da ponte tra le due cose. Sempre che sia una cosa che si possa insegnare a fare.
Ma no: si finisce per inaridire tutto nel "concetto", nella banale affermazione che "l'arte contemporanea è più concettuale che operativa". Mah. Che vorrà dire.

Ma torniamo a noi: a me e al signor Kandinsky, che all'epoca conoscevo bene o male solo attraverso i volumi di studio e le riproduzioni stampate delle sua opere formato libro di testo.
Avevo anche imparato cosa volesse dire "astrattismo": sì, va be', bla bla bla, liberare la forma, sganciarsi dalla figuratività, arte emozionale.
Ma ecco cosa accade, poi: ti ritrovi i un luogo, una galleria, all'interno di un "percorso", ti ritrovi a ripercorrere letteralmente i passi di quell'uomo, di quell'artista, alla ricerca della "sua" forma d'arte, in culo a tutte le convenzioni, alla spocchia dei critici sapientoni (immaginiamoci un Vittorio Sgarbi dei tempi) e degli abituali frequentatori dei saloni dell'arte europea; ti si parano davanti i dipinti, nella risucchiante vitalità delle loro proporzioni reali, della matericità dei loro colori sulla tela, ingoiata dagli spazi e delle dimensioni create da quelle linee intersecantesi, da quelle macchie di buio, da quelle esplosioni di luce, come zone di esistenza reale, e allora capisci che tutto quello che avevi messo da parte fino a quel momento nella tua personale scatola del sapere, non vale gran che, di fronte all'evidenza dell'esperienza visiva, che l'arte è lì, e non sui libri.
Così conobbi il signor Kandinsky, poiché durante la mia permanenza in Spagna ebbi modo di visitare un paio di mostre dei suoi dipinti, davvero ricche e ben allestite, e l'entusiasmo della mia gioventù da viaggiatrice in terra straniera corredò il tutto, di quell'incontro rimasero emozionanti ricordi, molto nitidi, oltre a un paio di poster e diverse stampe acquistati al book-store delle mostre.

Ci siamo rivisti ora, che lui è venuto a trovarmi nella mia città di vita, portando nella mia realtà un campione di quella che fu la sua, di vita, o almeno della parte della sua vita che rivolse al mondo, e al tempo dopo di lui, la sua arte. E io. Che non sono più la smaniosa studente fuori sede proiettata verso il proprio futuro, ma la mamma panzona, tutta concentrata sul proprio presente, che ogni tanto si adagia in qualche reminiscenza di passato prossimo.
Potevo perdermelo?
Beh, sarei anche stata capace, vista la mia rapidità di azione (la mostra rimarrà aperta ancora fino ai primi giorni di febbraio), se solo non avessi ricevuto in dono per il mio compleanno (oramai trascorso da diversi mesi), due biglietti per la mostra di Palazzo Blu:

Wassily Kandinsky. Dalla Russia all'Europa.

E' sempre lì che allestiscono annualmente, da qualche anno, percorsi espositivi sui principali protagonisti dell'arte del '900.
Dovevo riscattarmi, ché l'anno scorso il mio viaggio in Libia mi costò la perdita di Picasso, e la mia ultima velleità di mondanità culturale risaliva a quella mostra di Mirò a cui mi recai con una Mimi di pochi mesi appena, come raccontai qui.

E così si va, io e la Master, come sempre.
La pupa no che stavolta non me la sono portata, un po' per timore che non si tramutasse in strazio per entrambe, e un po' per così detto sano egoismo, ché quello volevo fosse a tutti gli effetti un momento "mio".


Che dire? E' stato un po' come ritrovare una vecchia conoscenza, in un certo senso. Ed ebbi l'impressione che il pellegrinare dell'artista, dalla capitale russa alle steppe siberiane, alle accademie di Monaco e ai salons di Parigi, non si sia arrestato con la sua morte, ma prosegua, inarrestabile, moltiplicandosi, e spandendo suggestioni ancora per noi indefinibili tra i suoi visitatori, comparse occasionali o vecchi affezionati frequentatori...

E lui comunque ha continuato a stupirmi.
Sì perché io questo aspetto fiabesco, folklorico e onirico assieme della sua produzione non me lo ricordavo affatto, ed è stato un po' come ricollocare tutti i tasselli al loro posto, ché uno si chiede a volte: ma questo qui com'è che è uscito a farsene dipinti astratti? Così, dal nulla, tanto per rompere con la tradizione della sua epoca?

E invece manco per sogno: la tradizione è nella sua arte, e la sua arte si colloca volutamente nel solco della tradizione della sua terra, rievoca le sue leggende, scava nella sua memoria popolare, recupera i suoi motivi iconici, e li trasporta in un presente dell'arte che ha cambiato destinatari e movente, che smania per rinnovarsi nelle sue forme e nei suoi mezzi di espressione, ma non può, non vuole sganciarsi dalle sue radici.

Mi sono innamorata di queste pitture su vetro che hanno l'autenticità e la suggestione di un racconto orale, udito per bocca di una vecchia contadina seduta davanti al samovar della sua umile izba, che tanto affascinò il pittore quando vi entrò, la prima volta.
Amo la grazia sospesa dell'Amazzone sui monti, l'atmosfera magica della Nuvola dorata, di quel paese arroccato che sembra voler scivolare giù dal pendio ripido della montagna, azzurra, stagliata nella luce, contro un cielo livido.


E poi mi son chiesta da dove venisse la forza di quella Macchia nera, che sembra attirare verso di sé lo sguardo di chi osserva, e ingoiare tutto l'allegro caos di colori e visioni circostanti nel buio di un sonno privo di luce. O è forse il contrario? Non è forse la realtà tangibile che l'artista aveva intenzione di racchiudere in quella voragine pulsante al centro del quadro, contro l'infinito immaginifico potenziale della mente umana?


E sempre più mi convinco che solo osservando, guardando, si può davvero "capire" quale sia l'intento, quale il messaggio dell'arte.
Solo così riesco a comprendere lo sforzo dell'artista per tradurre nel linguaggio pittorico le sensazioni che un brano musicale riesce a veicolare e a far erompere nell'animo umano senza l'ausilio di alcun contenuto narrativo. Tonalità cromatiche come quelle acustiche, pause di vuoto come silenzi, come in questa Composizione in bianco.
Come quando vi esaltate per una canzone di cui non capite le parole (magari in inglese, toh!) e quando finalmente riuscite a procurarvi il testo e a tradurlo, rimanete un po' delusi, e un tantino contrariati per la sua pochezza e per l'impoverimento delle suggestioni che quelle note prive di senso riuscivano a suscitare in voi prima.


Così il signor Kandinsky poneva al primo posto della sua personale scala di importanza di un'opera l'improvvisazione, che più dell'impressione (pensiamo ad un dipinto impressionista), e più ancora della composizione (pensiamo a un Raffaello) riesce a veicolare verso il destinatario il messaggio dell'autore, le suggestioni che egli aspira ad esprimere, al di là di qualsiasi indicazione soggettuale.

Ecco perché questo dipinto si chiama semplicemente Due ovali, ma a me suggerisce un senso di cosmico, di completezza, di inizio e di conclusione ancestrali, di unità tra gli elementi, il mondo sensibile, la realtà intangibile, le pulsioni sotterranee: tutto vortica insieme nell'azzurrità di un universo instabile e poliedrico, informe e poliforme come lo sono le suggestioni, i pensieri, i sogni, tanto lontano da quel mondo geometrico e analitico, scomponibile in visuali contrapposte dell'astrattismo cubista...

Ecco come vorrei spiegare questa arte a Mimi, senza pretendere di salire in cattedra, che non mi riesce perché so di avere immense lacune in merito, perché so di lasciarmi andare a sproloqui emozionali, più che basati sullo studio approfondito delle teorie pittoriche.
In fondo era ciò che faceva dire allora ai critici del movimento Der Blaue Reiter che questi artisti "deliravano con il pennello" più di quanto non facessero già nei loro scritti teorici.

E' che l'arte può servire anche a far delirare, non solo a far pensare.

Mi chiedo perché questa cosa non sia stata spiegata ai due gruppi di bimbetti di, forse 5-6 anni che abbiamo incrociato durante la nostra visita.
Sono rimasta molto colpita dall'aver trovato alla mostra gruppi di scolaresche così in erba, e siccome ero anche molto curiosa di vedere come le insegnanti presentassero loro l'opera del signor Kandinsky, mi sono fatta i fatti loro.
Ecco cosa ne ho tratto: le maestre continuamente intimavano ai bambini il silenzio, ché se no disturbavano gli altri visitatori. Manco si trattasse di questi appassionati intellettuali d'arte (gli altri visitatori intendo): per lo più se ne stavano tutti sbracati chi qua chi là sui divanetti, intenti ad ascoltare nei loro citofoni-audioguide.
Io per la verità sono rimasta assai più infastidita dalle ripetute ramanzine rancide delle maestre che dal chiacchiericcio eccitato dei bimbi, e così ho buttato lì un "Fanno più casino le maestre dei bambini", rivolto alla mia amica, che però mirava ad essere sentito dalla diretta interessata, che aveva appena sgridato la classe con una frase tipo: "Ma ché, non vi portano in giro i vostri genitori? Pare che non sapete come ci si comporta in pubblico. Qui non siete mica a casa vostra!"

E' vero: io non so cosa significhi tenere a bada una scolaresca di una ventina di bimbi così piccoli senza incorrere nelle lamentele dei presenti, ma sono ben memore di mortificazioni verbali analoghe ricevute a mia volta nel corso delle gite scolastiche della mia infanzia; a ben vedere queste ramanzine hanno più lo scopo di mostrare ad eventuali presenti come le accompagnatrici si profondano per il rispetto della disciplina dei loro assistiti, che di indirizzare davvero i piccoli visitatori all'attenzione e all'osservazione.
Ma allora, mi chiedo: perché non riservare alcune mattinate della mostra esclusivamente alle visite scolastiche? Potrebbe essere una parziale soluzione del dilemma.

Che poi non dev'essere semplice per un bambino così piccolo visitare una mostra come quella, capire il perché di quei dipinti senza senso apparente.
Ma se decidi di portarli, se lo fai, devi sforzarti di più.
Non puoi limitarti a dire, di fronte a ogni nuovo dipinto: "Allora, bambini, qui cosa ci vedete?"
Primo: se all'inizio può essere un buon approccio all'assenza di appigli figurativi, alla lunga il gioco diventa monotono e ripetitivo, e stanca (persino me, figuriamoci loro).
Secondo: non è affatto questo il senso di quei dipinti, cazzarola!
Vuoi spiegar loro che un quadro può anche voler rappresentare solo emozioni, sogni, sensazioni, e non per forza oggetti?
Perché credi che non possano capirlo?

Non è che io ce l'abbia con le maestre come categoria, per partito preso, ma mi incazzo quando mancano di rispetto ai bambini, quando li umiliano in pubblico.
Io credo che i bambini abbiano possibilità di accesso all'arte assai più facilmente di noi: sono più intuitivi, più liberi da preconcetti e nozioni acquisite. Basterebbe saper loro spiegare non ciò che hanno davanti, ma in che modo, con che spirito ciò che hanno davanti va guardato.
Ecco: ci tenevo a dirlo.

Nelle sedi del Palazzo Blu è ospitata in concomitanza della mostra a pagamento anche un'altra mostra, indirizzata ai più piccoli, appunto: Il signor Kandinsky era un pittore.

Meditavo di portarci Mimi... Chissà.


lunedì 14 gennaio 2013

La bambina che è in me.


Sto diventando noiosa, lo riconosco.
No, ma lo riconosco, eh. Riconoscetemi almeno l'onestà autocritica.
Noiosa e monotematica.
E dire che ho una mezza dozzina di interessanti (mah!) post sugli argomenti più disparati, e invece mi sto fossilizzando nel mio ruolo di genitrice e generatrice.
E' che ogni tanto me ne dimentico, o almeno potrebbe sembrare che sia così, ma in fondo in fondo, nel profondo più intimo di me, si cela il cuore di una bambina.
Già, già: nessuno di noi dovrebbe dimenticarsi del bambino che fu, e che in fondo continua a d essere, seppure trasmutato in versione adulta, ma in me si cela un'altra bambina, che non sono io, e nemmeno una parte di me, e nemmeno il residuo di ciò che fui.
Questa bambina sento che la sto trascurando un po' troppo, e un po' già mi sento un pochino in colpa, pure.
Mi manca la fantasia visiva, immaginativa, iconica: io proprio non ci riesco a visualizzarmela nella mente come molte affermano di riuscire a fare. E che è, ci vedono a raggi x? Io a dire la verità continuo a capirci poco pure di fronte allo schermo dell'ecografista. Diciamo che fingo, così, per non prolungare la patetica scena:
- Vede? Qui c'è il naso, con il labbro superiore. Nessuna anomalia (l'assistente annota). Vede le orbite oculari?
- Mh... sì.
- Qui c'è lo stomaco.... Ed ecco i piedini.
- Ooooh! I piedini!(Qualche esclamazione ogni tanto ci vuole, o crederà che io sia una madre proprio insensibile alla naturale commozione materna).
Anche a questa qui piace piazzarmeli nelle costole, come alla sorella, a quanto pare. Da rimanerci senza fiato (e non certo per la commozione).
Ma, devo dirvelo in tutta fiducia, sì va be', non ci ho capito una mazza dell'ultima eco; sì, è vero, sapere che il femore misuri 5 cm non mi significa gran che; e, sì, continuo a fare un po' di confusione tra la distanza biparietale e la circonferenza cranica (basta che non sia troppo piccola, né troppo grande, a me va bene), ma lei sta facendo un ottimo lavoro lì dentro, malgrado il mio categorico assenteismo emotivo, malgrado la mia cronica distrazione e il mio ostinato rifiutarmi di prenderla ancora in considerazione come individuo.
La cosa mi ha fatto una strana tenerezza.
Lei c'è, e sta facendo tutto (quasi) da sola, che io sia pronta o no.

Che tu sia pronta o no, cara madre, pare dirmi, io vado avanti, eh! Sono in posizione di lancio, mi sono voltata a testa in giù (me n'ero accorta comunque, c'ho le costole sensibili io), ho rispettato tutti i parametri di crescita, confermo la data precedentemente stabilita assieme, sono puntuale io, non arrivare all'ultimo impreparata, non dirmi che non ho rispettato gli accordi, non farmi sentire l'ospite incomodo che arriva in anticipo sulla tabella di marcia quando ancora stai affettando le cipolle per il sugo e non hai finito di asciugarti i capelli, prepara un posticino nel tuo cuore anche per me.
Tua figlia ci sta riuscendo meglio di te, ti rendi conto? E ha appena due anni (e mezzo, Noemma, due anni e mezzo).
E soprattutto, trovami un nome, te ne prego, io HO BISOGNO di un nome.
Ho bisogno che mi venga riconosciuta una mia identità. Ho bisogno che tu mi mandi nel mondo accompagnandomi con un augurio, attribuendo un significato al mio esistere, associando alla mia persona una tua volontà di fare di me qualcuno che è nei tuoi pensieri, di lasciarmi qualcosa di tuo, anche, che mai sarà scindibile dall'idea che ho di me stessa.
Sei piccola, Noemma, ma già la sai lunga. Hai ragione, non mi sto comportando bene con te.
E' che la vita... le persona a volte...
Oh, ti prego, risparmiami la predica per quando sarò un'adolescente recalcitrante e rinfacciona. Io non pretendo niente di astruso, sai?
Hai ragione, Noemma... volevo solo dirti: io in realtà un nome ce l'ho già per te. Lo tengo custodito ben bene nei miei pensieri, non ho voglia di mostrarlo nemmeno a tuo padre, per paura che me lo possa rovinare, con un commento, un'alzata di spalle, un aggrottamento di fronte. Lo tengo nascosto come tengo te, lontana dai commenti, dalle ingerenze altrui, dai secondo me, dai no-ti-prego, da domande e giudizi. Perché in realtà stavolta me la voglio giocare io.
Vorrei che tu fossi mia già da subito, vorrei lasciare tutto il resto del mondo un po' di lato, ad aspettarci, senza azzardarsi a metter bocca, senza insegnarmi come si fa a non farti piangere, quante volte al giorno devi mangiare, come è meglio che io ti tenga, quali scelte siano le più giuste per te, come il tuo nome dovrà suonare all'orecchio di chi non ti conosce, di chi non ti ha atteso, di chi non ha pensato disperatamente ad un futuro migliore per te, di chi non ha pianto a volte in silenzio al pensiero di non riuscire ad amarti a sufficienza.
Mi sei piaciuta, oggi sul monitor.
Ma smetti di darmi pedate sulle costole?

sabato 12 gennaio 2013

Se partire è un po' morire, tornare... che agonia!

Ritorno. Pare di tornare alle cose di sempre con una mente nuova, più fresca, più scattante, con una nuova energia.
Ti pare di tornare con un bagaglio di esperienze e consapevolezza, calma interiore e lucidità d'azione infinitamente più grandi di quando non sei partita, anche se sei stata via appena dieci giorni e hai ciondolato per casa di tua madre, quella stessa casa in cui hai vissuto dieci anni della tua vita da adolescente, diffondendo fazzoletti moccolosi e batteri e reggendoti la panza espansa almeno fino al raggiungimento della prima poltrona disponibile prima di sprofondarci senza soluzione di continuità per successive svariate unità di tempo.
In fondo ti sei ritemprata, hai preso le giuste distanze dai pensieri di sempre, recuperato le forze, ricevuto incoraggiamenti e incentivi: sei pronta.

Ritorno. Sistemi le ultime incombenze lasciate in sospeso, ti premuri di saldare i vari buffi lasciati in giro, di venire a capo dei grovigli burocratici messi da parte prima della partenza.
Riavvii la pupa al nido, stavolta senza indugiare, senza tentennamenti inutili su orari e riflessioni sulla stanchezza settimanale di lei: l'andazzo tenuto durante le feste sarebbe insostenibile per te, ora. Meglio adeguarci ai ritmi biologici imposti dal nido, malgrado siano così poco coincidenti con quelli nostri, ma probabilmente più salutari, e poi in fondo, che sia un problema delle maestre metterla a letto all'una e mezza, quando a me tira fuori le richieste più fantasiose all'ora della nanna e si finisce di addormentarla dopo due ore dall'inizio della routine addormentatoria non prima delle 4 di pomeriggio.

Ritorni e come sempre ritrovi l'albero da smontare, ultimo vessillo resistente al fagocitamento inesorabile del tempo che macina via festività e ricorrenze, residuo di quella fittizia opulenza festiva di cui ogni anno rinnoviamo l'ostentazione nelle nostre case, per sentirci un pochino più caldo il cuore quando ci pare di non essere proprio soddisfatti della nostra vita, come se a Natale dovessimo arrivarci sempre nello stato d'animo più propenso, più pieno, più grato e appagato che ci sia. E lui sta lì a ricordarti tutto questo, l'albero, addobbato di palline di plastica da supermercato e fili luccicanti di nylon, e lucine luminose discrete come patacche d'oro su qualche petto villoso. Subdolamente, implicitamente, sta lì a rimembranza della fine, e tu non sai cosa daresti una volta per poter tornare a casa dalle feste di Natale e non trovartelo lì, tutto sbilenco come lo avevi lasciato, da disfare, e un pochino ti chiedi anche perché in fondo l'idea di disfarlo ti metta quel po' di tristezza che ti impedisce puntualmente di por fine alle sue e alle tue sofferenze.
L'anno scorso me lo trovai ancora lì addirittura a marzo, di ritorno dalla nostra permanenza invernale in terra libica: un imperdonabile anacronismo, un intollerabile affronto al calendario, cui feci in fretta a porre rimedio. No, cioè: a marzo. Vi rendete conto?

Quest'anno però mi sono alleata con Mimi, ho chiesto la sua collaborazione e il suo conforto, anche perchè temevo che, se per caso disgraziatamente tornando un dì da scuola bel bella non l'avesse più trovato, me l'avrebbe rinfacciato almeno fino a Natale prossimo.
E' fatta così, che non tollera che le cose cambino senza la sua supervisione.
"Mamma, pecché l'hai levato? Mamma, rimettilo!"
Con voce rotta dal magone.
"Ma cosa, Mimi, questo?"
Riferivasi al vetusto e polveroso tris di faretti che pendeva ormai da un paio d'anni inerte sopra il nostro letto, inservibile perchè privo di cavo elettrico, ma anche prima non è che risolvesse il problema dell'illuminazione da notte, visto che emetteva una fioca luce male indirizzata, utile solo a creare linee d'ombra che rendevano impossibile la lettura o qualsiasi altra attività notturna (intendo tipo sudoku, niente di hard eh!).
"Mimi ma non funziona, che lo teniamo a fare?"
"Mamma, rimettilo, peffavo'e rimettilo a posto. Pove'ino"
"Dai Mimi, ne compriamo uno più bello..."
E per la verità ci sto pensando davvero, a mettermi a sistemare casa.
Era il mio proposito per dopo il ritorno, anche se per ora non sono andata oltre i progetti e le fantasticherie. A voler fare le cose in grande potrei voler cambiare persino i sanitari del bagno, ma al concreto dei fatti, dovremo individuare precise strategie d'azione, che per ora indirizzerò sullo snellimento della mole di oggettistica domestica tramite l'eliminazione progressiva e graduale di ogni ingombro inutile.
Quindi via l'abete.
Ho coinvolto lei, dicevo, e la cosa è stata indolore. La prima volta che le ho proposto di disfare l'albero mi ha risposto di no, che lo voleva tenere ancora, il suo bell'alberello, così Natale lo vedeva.
"Mimi, ma Natale è passato. Babbo Natale torna tra un anno."
Dopo qualche giorno credo si sia stufata anche lei, e ha acconsentito allo smantellamento.
E così, dopo più di una settimana, le procedure di rimpatrio possono dirsi ultimate.
La mente arriva semrpe con uno scarto rispetto al corpo, mi dice mia madre. Ed è vero.
Non starei qui a scrivere un post sul ritorno. Che noia!

Ma piove di santa ragione, Mimi dorme che manco i miao reiterati di Panzumen ne hanno avuto ragione, fuori è buio e gennaio è un mese interminabile. Io penso a quanto poco tempo mi rimanga per potermi ancora permettere una vita parzialmente votata al cazzeggio e alla stesura illogica delle mie memorie che non interessano a nessuno, prima che la nuova vita tanto attesa e temuta venga fuori dalle mie budella a riempirmi i giorni di sé, e un pochino mi crogiolo in questo ultimo limbo di vita dimessa, di equilibri raggiunti, di concessioni strappate alla routine.
Come una visita a una mostra con un'amica, come la promessa di portare lei "Al mudeo di Maianna" (prima o poi ce la porto eh, promesso!), come la lettura simultanea alternata e inconcludente di svariati libri iniziati in contemporanea, come una sera a cena da amici, gran lusso per noi, anche se si dà il caso che gli amici in questione abitino appena due piani sotto di noi, e che la serata si sia conclusa (per noi) appena alle 11 di sera, orario più che sufficiente a stremare una pupa che ha trascorso un'ora buona a ballare selvaggiamente in circolo aizzata dalla musica di chitarre e tamburelli. Una pupa al top del top, che era una meraviglia e metteva allegria solo a guardarla.
Una pupa con cui ora è diventato piacevole persino intraprendere un viaggio in treno di quattro ore.
Una pupa che si aggira leziosa in rosso per la stazione ferroviaria stringendo il suo pipistrello di peluche, ammirando castelli fatati nei poster pubblicitari affissi alle vetrine, che prende il suo posto in carrozza ed esclama ad ogni fermata, a partire da Roma Trastevere: "Mamma, tiamo a'ivati! Finalmente!" suscitando l'ilarità dell'intero vagone.
Una pupa che mi abbraccia la pancia e mi chiede se mi fa male, mi accarezza e mi consola, mi dice che lei mi protegge e intraprende lunghe conversazioni con l'inquilina di dentro, spiegandole che lei è la sua sorellina grande, che non deve avere paura, che lei la sta aspettando, e quando nasci... Noemma?

Anche i calendari, come l'albero: che rabbia!




Mamma, tono un folletto! 
Non sono brava ad autofotografarmi la pancia: usate un po' d'immaginazione...

martedì 8 gennaio 2013

La cosa più bella del 2012 (secondo me).

Gennaio


Febbraio


Marzo

 


Aprile


Maggio

 

Giugno


Luglio


Agosto


Settembre


Ottobre


Novembre


Dicembre


Anche se arrivo in ritardo di una settimana buona, auguro a chiunque passi di qui un buon anno.
Non credo realmente che ogni nuovo anno che inizia possa "portare" qualcosa di buono o di cattivo, o almeno non più di qualsiasi altro lasso di tempo considerato arbitrariamente. Non credo in generale che il tempo "porti" con sé qualcosa, se non la possibilità di viverlo, a prescindere dai colpi di fortuna o di sfortuna, dai successi e dagli insuccessi, dagli obiettivi raggiunti o dai sogni abbandonati.
Ciò che però "lascia" dietro di sé il tempo è la consapevolezza di averlo vissuto e messo a frutto nei rapporti, nei legami, in ciò che abbiamo dato di noi, e ricevuto.
Un augurio di vita dunque a tutti.
E' stato faticoso riprendere a scrivere. Sembra sempre che un nuovo inizio comporti una formula "a effetto", si cerca il modo migliore per esordire, senza finire nei soliti propositi e bilanci di fine-inizio di cui francamente ho pieni i... sono piuttosto satura.
E così, ecco qua: rotto il ghiaccio.
In una parola sola, bilanci e controbilanci: lei.
Per me questo 2013 sarà soprattutto sinonimo di una nuova vita che comincia.
A me stessa auguro solamente di riuscire ad esserne all'altezza. Di lei. Di loro.
Ben ritrovati.