giovedì 31 marzo 2011

Una stagione: la primavera #1

Poichè in genere la primavera viene associata a prati fioriti e alberi carichi di nuove gemme, vi presenterò oggi il mio punto di vista personalissimo su questa stagione appena entrata.

In primavera posso finalmente sfruttare la terrazza come campo di giochi della pupa, che ancora non gattona, quindi non c'è il rischio che si butti giù dalle scale...

A lei piace molto, stare lì sotto il cielo, in mezzo alle piante e ai gatti che ogni tanto passano per di lì...

Il trenino dell'amore.
 Per quanto riguarda i gatti, la primavera purtroppo ha effetti deleteri sul povero Panzumen,  perennemente arrapato già di suo...

In primavera Panzumen evade dalla sua casalinga prigionia invernale, e si gode un po' di sole sulle tegole calde, guardando il mondo sottostante...

Dietro le sbarre: fuori.

In primavera ogni angolo di giardino, tettoia o cornicione ospita il sollazzo di qualche ozioso felino domestico.
Mondi felini
Se guardi bene tra le righe dei paesaggi residenziali, potrai trovarli lì, nel loro angolo privato di relax..

E, sì, diciamolo: in primavera ha messo le gemme anche il nostro albicocco. Speriamo che quest'anno ricominci a dare frutti, dopo la devastante potatura...
La speranza non muore mai...

Questo post partecipa alla rubrica "Una stagione: la primavera" di Kosenrufu Mama.

mercoledì 30 marzo 2011

Tendinite e altre storie...

Questa mano enorme che vedete fotografata è in effetti la mia mano enorme. Non a caso mio fratello Totto mi prendeva in giro per le dimensioni delle mie mani, conformi del resto a quelle dei miei piedi, il quale fratello faceva riferimento in genere a un cartone animato dell'epoca, tratto da noto fumetto della Marvel: gli X-Men, oggetto anche, più di recente, di mediocre lungometraggio cinematografico. Insomma in questo fumetto-cartone, c'era un personaggio, noto Bestia, stimato medico genetista dalle ferine sembianze, assunte in seguito a mutazione genetica (gli X-men sono mutanti NdR), poichè inizialmente figurava come persona ordinaria, ad eccezion fatta per le dimensioni "abnormi" di mani e piedi, appunto, dotate inoltre di particolari capacità prensili. Ecco: io ero bestia, vedete un po' perchè.
Le mie mani enormi nel corso del tempo sono diventati un po' un mio status symbol. Non sono poi così appariscenti, e hanno il vantaggio di assottigliare notevolmente le dimensioni del mio polso (eccezionale illusione ottica).

Ma, ahimè, come dice il proverbio: mano grande, polso debole, e se non esiste il proverbio, me lo invento ora, ad hoc, tanto in Italia mi dicono che si può fare pure con le leggi.

Dunque i miei polsi vantano a oggi: una frattura per parte, la prima all'età di sei anni, in seguito a rovinosa caduta da un'amaca, la seconda a 25, in seguito a rovinosa caduta con i roller-blade (colpa di un dosso), il tunnel carpale, che fa sì che mi formicoli in continuazione il braccio destro ogni volta che rimango per più di dieci minuti ferma in una posizione (come per esempio quando impugno il cucchiaio di gomma della pupa per imboccarla, operazione che richiede in media dal quarto d'ora alla mezz'ora abbondante...), una cisti cartilaginea che va e viene, che mi trascino dai tempi in cui mettevo a dura prova le mie giunture sollevando pile invereconde di piatti da bistecca (sindrome del polso della cameriera), e ora, dulcis in fundo, meraviglia delle meraviglie, (tadàààà) una fantastica tendinite!

Questa tendinite me la trascino ormai da più di due settimane.
Inizialmente pensavo si trattasse di contusione seguita al mio maldestro tentativo di afferrare la pupa che precipitava dal tavolo (episodio di cui vio ho già accennato qui).
Poi di giorno in giorno il dolore cresceva, anzicché scemare, fino a impedirmi di compiere alcuni elementari movimenti.
Dovevo aprire una bottiglia? Atroci fitte.
Sbucciare una mela? Lacrime agli occhi manco fosse una cipolla.
Fare il bidé? Ho imparato a usare la sinistra, come Musulmani e Indù (lo sapevate?).

Quindi tento di porvi rimedio così:
-Hasuna, mi fai un masssaggio al polso? Però fai piano, eh, che mi fa malissimo... Ahi! No, lì no! Piano ho detto! Ahi, ma mi massacri! OK basta, ti ho detto di fare piano, mi stai macellando!
Quella notte sentivo il braccio indolenzito fino al gomito come se mi avessero preso a legnate e pestato ben bene.
Il giorno dopo dolori lancinanti fino alla spalla.

Allo scoccare delle terza settimana (si dice così, no?) mi decido a prendere provvedimenti.
Passo in farmacia:
- Mi fa male il polso: che può essere?
Dà un'occhiata alla pupa nel marsupio, come se stesse identificando un criminale.
- E' lei.
- Come "lei"?
- E' una tendinite che viene molto spesso alle madri. Ho un'amica che ha lo stesso problema: dipende da come prendi la bambina.
- Ok. Che posso fare?
- Ti dò una fascia elastica per tenerlo fermo.
- Grande, eh! Che io ho le mani grandi. Extra-large se c'è.
- Ti dò una media: deve essere stretta se no non serve a niente. Aspetta: misuriamo il polso per essere più sicuri. Va bene una mdia.
(Sì ma io i polsi li ho fini, le mani grandi. Ve l'ho detto o no?)
Infatti quella fascia elastica mi strizzava tutte le dita, che dopo due minuti diventavano paonazze e gonfie per il ristagno dei liquidi e iniziavano a pulsarmi dolorosamente.
E non parliamo della tortura che era infilarla e sfilarla almeno 10 volte l'ora, ogni volta, cioè, che avevo a che fare con acqua/pappa/vomitini/creme per il culo.
Risultato: il mio tendine è uscito allo scoperto. Ormai riuscivo a vederne la linea gonfia che correva lungo il mio avambraccio, dal pollice al gomito. Inutile dire che il dolore era, se possibile, quadrulpicato.

Ma perchè non sei andata dal dottore? Mi chiederete.
Per un sacco di ottime ragioni.
  1. Perchè sono pigra.
  2. Perchè gli orari della mia dottoressa non sono troppo compatibili con quelli della pupa.
  3. Perchè ogni volta che mi ci reco perdo una giornata intera in sala d'attesa a litigare con agguerrite vecchiette sul diritto di precedenza dovuto ai portatori di invalidità a qualsiasi percentuale, informatori farmaceutici, che passano uno ogni due pazienti, e furboni che si portano i bambini appresso solo per saltare la fila, senza contare quelli che: "io devo farmi fare solo una ricetta", e si imbucano, per poi restare dentro mezz'ora, mentre da fuori li senti che: "Oh, carissima! Quanto tempo! E Giovanna come sta? E Piero? E Andrea?". Devo decidermi a cambiarle dottoressa.
  4. Perchè tanto già lo sapevo che mi avrebbe compilato un'impegnativa per un'ecografia, prescritto un antidolorifico e congedato in due minuti e mezzo (non sono mica una paziente storica, io: cosa pretendo, di rimanere dentro due ore a ciacolare?)
E così ho ripiegato sul santo Google, che in quattro e quattr'otto mi ha prescritto:
  • steccare il braccio
  • pomata antinfiammatoria
  • evitare movimenti invalidanti (come per esempio il sollevamento pupa, ma come si fa? Io devo praticarlo un numero di volte variabile dalle 20 alle 40 al dì!)
  • eventualmente impacchi di ghiaccio per non più di 10 minuti al giorno.
Perciò ho riesumato da non so neanche dove la mia polsiera, cimelio delle mie sortite coi pattini (acquistata con grande lungimiranza dopo essermi rotta il polso cadendo scioccamente), ho delegato a Master l'acquisto della pomata, e ho elaborato piani di riserva per ovviare all'inutilizzo del braccio infermo. Come per esempio mettermi dalla parte opposta della carrozzina quando addormento la pupa, che, ricordo, nel suo scivolare verso l'oblio del sonno, ha bisogno di ancorarsi alla mia mano da smaneggiare, operazione che ultimamente, lungi dal procurarmi sollievo, era fonte di infinite sofferenze, soprattutto perchè la mia amorevole creatura, sangue del mio sangue, quando è molto nervosa ha l'abitudine di afferrarmi le dita e di storcermele con malagrazia. Con la sinistra ci mette un po' di più a dormire, ma il mio polso è al sicuro.
E io sto esercitando l'emisfero destro del mio cervello alla collaborazione (fosse per lui, delegherebbe tutto al sinistro: vatti a fidare degli emisferi!).

Va be', dopo questo interessante aggiornamento, non mi rimane più tempo per altre storie, che mi riservo di propinarvi più in là...
Siccome in questi giorni di torpore mentale e fisico sono in vena di foto, l'altro giorno che razzolavo sul letto con la pupa presa dalle sue costruzioni gommose, ho realizzato una serie di interessantissimi scatti, tipo questo, e mi sembra il minimo renderli noti al grande pubblico, prima di cestinarli.

Ma prima di concludere, come in ogni storia che si rispetti, ci vuole la morale (o amorale?).

Dunque, la morale è:
Non ti gloriare dei tuoi polsi fini
prima di avere avuto bambini:
quando mamma diverrai
tutto sul polso scaricherai,
l'onere della maternità
tutta sul tendine tuo graverà.
No, dico: qualcuno ha visto da qualche parte il mio intelletto?

lunedì 28 marzo 2011

Di domenica in domenica

Arieccomi qua.
Siccome questa torrenziale pioggerella di primavera ci ha costretto l'intera giornata a casa, come ormai non succedeva da parecchio, e siccome mi ero riproposta tempo fa di tenere una sorta di rubrica sui luoghi da visitare nei dintorni di Pisa, colgo l'occasione di questo riposo forzato per rimettere un po' di ordine tra le foto e i ricordi delle ultime settimane, e condividerle con voi.
Certo, la come sempre ottimista Suster, al momento di inaugurare una rubrica che nelle sue migliori intenzioni avrebbe dovuto essere settimanale, non teneva conto di una certa quantità significativa di fattori, tra cui il fatto che per adattare le foto alla pubblicazione on line (con tanto di logo Pisa&Love, fantastico come tutto il resto d'altro canto su questo blog e nella mia sfavillante vita) la sottoscriutta ci impieghi un intero pomeriggio, traducibile in tre sonnellini medi della pupa, ossia, per voi profani, circa 3 ore e mezza distribuite nel corso della giornata con in mezzo le ore in cui lei è vigile, in cui sono per forza di cose impossibilitata a svolgere qualsivoglia attività non direttamente rivolta alla pupa. E lasciamo stare che non ho ancora finito, ma appena iniziato a scrivere.

Non tenevo poi conto delle sempre imprevedibili varianti legate alle molteplici incombenze mammesche della mia nuova vita, che prevede un'incognita prima non contemplata, l'incognita più incognita di tutte, sfuggente ad ogni pronostico o previsione: l'umore cangiante della bambina in questione, che spesso e volentieri manda a pu...mmarola qualsiasi programma o proggetto diario o a cadenza periodica che mi propongo di espletare.
Ma bando ai preamboli: sono qui oggi per illustrarvi le fantastiche domeniche fuori sede della new-born family, composta da Suster, ovvero la madre, pupa, ovvero la figlia, e Hasuna, ovvero il padre della figlia.
Siete pronti? Ok, si parte:
Prima domenica: visita ad amici.
Trattasi di mia relativamente vecchia amica Gianna, ex aspirante conoscitrice della lingua araba, oggi trasformatasi in convinta fricchettona anche un po' circense, vive col suo uomo nella casa delle favole, a metà tra Hansel e Gretel e Là sui monti con Annette, in quel d'Agnano... voi lo sapete dov'è Agnano? Provate a immaginare, oppure guardate su Google Map, come abbiamo fatto noi per capire dove fosse, anche se poi abbiamo usato il navigatore.

Posto incantevole, e cane che ci accoglie sulla soglia così...


 Un po' di cielo sopra la testa...

...e una zuppa violacea servita sul tavolo apparecchiato fuori, davanti all'uscio della deliziosa dimora,

mentre la pupa se la dormiva, avvolta in un coloratissimo telo etnico, e cullata dallo sciabordio del vicino ruscello.




Seconda domenica: Stile Suster.

Memore di reminescenze manualistiche, residuo del mio vano tentativo di passare l'esame della Provincia per l'abilitazione a guida turistica, propongo di andare a passare la giornata a Vicopisano, pittoresco borgo medievale a 20 Km da Pisa, che sorge sulle pendici del colle sormontato dalla Rocca del Brunelleschi (costruita negli anni '30 del Quattrocento, dopo che il castello e il borgo, importante avamposto pisano alla confluenza di due fiumi, erano caduti in mano a Firenze).
Ma non mi dilungherò oltre, a tema di diventare noiosissima.

Qui siamo on the road per Vicopisano, ma non chiedetemi in che località si collochi il paesaggio qui ritratto, nè che chiesa sia mai questa qui sotto: ricordatevi che quell'esame da guida turistica l'ho fallito miseramente...


 Questa qui che si staglia sullo sperone roccioso invece è la Rocca di Caprona, altro importante punto nevralgico di controllo del territorio circostante, al tempo delle lotte tra Pisa e Firenze per imporre il proprio dominio su queste terre...
Lo confesso: ho scattato la foto attraverso il finestrino dell'auto.
Il riflesso mi tradisce.
Mi piaceva però questo sovrapporsi verticale di strutture vecchie e nuove, panni stesi e comignoli, culminanti con la torre.
- Guarda, Hasuna, che bella la torre da qui!
- A me non biacciono le cose costruite dall'uomo: brefirisco guardare i falchi.
- Ma che c'entra l'uomo... è la storia che lascia la sua impronta nel paesaggio! Sono i secoli che ci guardano dall'alto!
- Boh, a me mi bare una torre...

Ecco.

Questo invece è per dimostrarvi che in fondo siamo due idioti coglionazzi, e la cosa preoccupante è che siamo pure genitori...

Ed ecco finalmente Vicopisano, con i suoi vicoli: i vicoli di Vico...


...tutti rigorosamente in salita...


...o in discesa: dipende dal punto di vista!
 Noi volevamo arrivare alla Rocca.

Lassù...


 E per far questo giriamo a lungo su noi stessi...


  E alla fine arriviamo!


Ma...

...era chiusa!

Con incredibile tempismo arriviamo a visitarla giusto la settimana prima che le visite riaprano per la stagione calda.

 Questa foto perchè se no io non ci sono mai.
La dedico a tutti quelli che non ci credono, che non vado MAI dal parrucchiere!



Nu poco de primavera...
 E nu poco d'indicazioni strradali, così capite dove eravamo.




Questo mi piace...




















Qui si vede tutto...






Qui faceva freddo...










Qui ci ho fatto la cartolina
 E qui finisce la nostra seconda domenica. Vi è piaciuta?

Terza domenica: Stile Hasuna.
Quando a decidere è Hasuna,  non chiedetemi dove caspita andiamo a infognarci, perchè non lo so.
Lui gira e rigira per stradine sterrate finchè non trova un posto di suo gradimento, in genere dimenticato da Dio e dagli uomini.
Io al massimo guardo fuori e a un certo punto dico: "Fermo fermo fermo! ho visto un fagiano!"
Così accosta, scendo e vado a fotografare il volatile.

 Dicasi "fagiano" in gergo idiomatico, anche persona non troppo sveglia. Vi siete mai chieseti perchè?
Perchè il fagiano è, in effetti, un po' "fagiano", altrimenti non sarei riuscita a immortalarlo io, con la mia discrezione e il mio tatto, che a momenti non mi ribaltavo nel fosso, e lui sempre lì, come un "fagiano". Mica era scappato. Roba che se avessi voluto cenare a fagiano e avessi avuto un fucile al posto della reflex...

Eccoci arrivati a destinazione.
Il tempo non era dei migliori questa domenica.




E questo è il massimo dell'architettura che sono riuscita a individuare.

Non che non abbia un suo fascino...






Gioco: trova l'Atos.
 Infinitamente grande e...

...minuscole realtà.
  La pupa razzola e divora manciate di terriccio e aghi di pino, senza che la mamma possa fare nulla per impedirlo...
Il babbo intanto ha acceso la brace e messo su la ciccia, da bravo beduino.

L'acquazzone è arrivato a metterci fretta nel rientro, e la pupa anche, che non aveva ancora preso il suo biberon (non me l'ero portato pronto, nella convinzione che avremmo trovato un bar dove farmi scaldare l'acqua per diluire il latte in polvere... non immaginando che saremmo finiti nello sprofondo!).
L'ora legale ci ha scombussolati, e ci ha scombussolato soprattutto la pupa.
Non sapendo più quando farla mangiare, a che ora dormire, che ora fosse... alla fine ha saltato un pasto ed è rimasta sveglia tutto il giorno! Brava mamma.

Rimanete con noi per le nostre prossime avventure!

sabato 26 marzo 2011

Il dottor Z.

Il dottor Z., medico pediatra specializzato in nipiologia, è il dottore della pupa.
Questa settimana siamo tornate a fare la visita di routine dopo più di due mesi dall'ultima, per aver disdetto e rimandato due volte l'appuntamento, ma lui si è limitato solo a una fugace osservazione circa il nostro "puntuale" presentarci in ritardo. Amo il dottor Z. per questo sua malleabilità sulle scadenze.
Io sono una ritardataria cronica, ma non certo perchè non ce la metta tutta per arrivare puntuale, o perchè non me ne freghi niente della puntualità. Tutt'altro: vivo in un perenne stato di ansia riguardo a date e orari da rispettare, peccato che poi immancabilmente finisco per valicare i termini che mi sono preposta e gli orari che mi sono data. Anche stavolta siamo riuscite ad uscire di casa con l'amplissimo margine di anticipo di un'ora, e premetto che lo studio del dottor Z. si trova a circa dieci minuti di strada a piedi da casa. Dato che ero riuscita fino a quel momento a rispettare la tabella di marcia impostami, mettendo la pupa a dormire prima del solito, con conseguiente risveglio dopo meno di un'ora, a che pro rimanere in casa a fare innervosire lei e me?
Visto che il sole splendeva in cielo ci siamo concesse una puntata ai giardini e ce ne siamo venute via in tempo per arrivare in orario dal dottore.
Peccato che lungo la strada incrocio un'amica che mi intrattiene in chiacchere impegnative per una buona decina di minuti, ma riesco a congedarla lo stesso in tempo utile per arrivare dal dottor Z. sul filo del vassoio... ehm: rasoio!
Mi avvio dunque, a passo svelto e un po' ansimante, quando... Oh, no! Ho dimenticato di prendere la cartellina pediatrica della pupa!
Tornando a casa per recuperare l'indispensabile cartellina (e lasciamo perdere le formalità: mollo lei nel passeggino a piangere disperata mentre salgo di corsa le scale di casa a tre a tre e ridiscendo volando sbandierando in aria la dannata cartellina) perdo tutto il tempo guadagnato fino a quel momento, e arrivo allo studio con ben 20 minuti di ritardo, paonazza in viso per la corsa e la vergogna. Poi siccome mi affaccio nello studio e mi pare che lui sia temporaneamente uscito, mi fermo pure ad aspettare in sala d'attesa. E invece lui era solo uscito sul terrazzino a prendere una boccata d'aria, perchè la temperatura in quel poliambulatorio sfiora tutto l'anno i 40°C.
Insomma, il ritardo finale ammontava a circa una mezz'ora, ma evito di tentare di giustificarmi col dottore raccontandogli  le mie peripezie, anche perchè lui si mette alacremente al lavoro per recuperare il tempo perduto.
Il dottor Z. non è nero, corpulento, e non ride scioccamente ad ogni battuta che fa, come quello che ho messo in foto per introdurre simpaticamente il post. Ha invece due baffetti brizzolati, un paio di occhiali quadrati ma non troppo all'apice del naso e potrebbe assomigliare un poco a Geppetto, ma più professionale.
Il dottor Z. è un curioso miscuglio di qualità contrapposte: affabilità e burberità, laconicità e logorroicità, serietà e ironia, pignoleria e approssimazione, criticismo e accondiscendenza, severità e indulgenza. A noi piace così.
Non affetta complicità con me e confidenza con la bambina, non ha mai tirato fuori lecca lecca o giochini per tenerla buona, non si è mai perso in smancerie, non ha mai fatto complimenti inutili alla bimba, ma si è sempre solo limitato a constatarne i progressi sedando anche i miei slanci materni di orgoglio quando gli sfuggiva un apprezzamento positivo, e mi ha sempre detto pane al pane vino al vino, anche se le sue posizioni su determinati argomenti potevano risultare piuttosto scomode per un genitore. Mai chiedere al dottor Z. delucidazioni su questo o quel cibo/prodotto/farmaco, perchè rischiereste di farvi fare un corso accelerato di 40 minuti sulla composizione molecolare di ogni singolo eccipiente, sulle qualità organolettiche e sulla storia farmacologica e messa in commercio di ogni variante dell'oggetto in questione.

Ma veniamo alla nostra visita-lampo, che poi tanto lampo non è stata, perchè il dottor Z. una volta che comincia va fino in fondo alle cose.
Diciamo che le novità principali questo mese erano due: una mi ha fatto un poco male all'anima come mamma, l'altra ha frustrato la mia sicurezza nelle mie doti di genitrice.

Pupa stesa sul lettino per prendere le misure per la prima volta da quando è nata inizia a tirare fuori un pianto di gola, stizzoso e pieno di rancore. E' pure vero che quel giorno le giravano parecchio, doveva avere fame già da un po' e in più era stata abbandonata da me nel passeggino, quando ero corsa a prendere la cartellina dimenticata in casa (oh, non sono del tutto rincoglionita: non è che l'ho mollata in strada, bensì in una sorta di giardino interno al nostro "stabile", se la cosa può costituire attenuante, assieme al fatto che il tempo dell'abbandono non ha superato i 4 minuti e mezzo). Insomma, incavolata nera, la pupa stavolta non ci sta a farsi pesare e misurare semisvestita su quel lettino, e io mi sento di scusarmi col dottor Z.: "Eh, ultimamente è un po' nervosa..."
Al che, il dottore apre una lunga parentesi che non chiuderà che dopo un buon quarto d'ora, a spiegarmi che i bambini a quell'età attraversano quella che in gergo è chiamata la "sindrome abbandonica dell'ottavo mese", che consiste nell'acquisita consapevolezza di essere individui separati dalla mamma e che fa sentire loro l'allontanamento materno come un abbandono, e che il dolore che provano in questi casi non va sottovalutato e non va considerato un capriccio, come molte madri sono solite fare, e che è proprio in questo periodo che si determina il futuro carattere dell'individuo, che rischia di crescere privo di fiducia in se stesso e nell'altro se privato dell'appoggio essenziale della madre, e non bisogna MAI dire "è bene che impari a stare da solo" oppure "deve abituarsi a stare lontano dalla mamma" perchè quello è uno stato di angoscia reale e non simulato, che necessita di tanta attenzione  e presenza e affetto, e carezze e parole rassicuranti e bla bla bla, io nel frattempo mi sentivo già un piccolo verme strisciante e mille sensi di colpa mi attanagliavano le viscere e la gola, per tutte le volte che, esasperata da quei pianti da abbandono, me l'ero cavata con un "dai su, non fare i capricci, non puoi mica stare sempre con mamma! sarai un po' viziata?"
E questa è la prima cosa, quella che mi ha fatto un po'male al cuore, malgrado il mio rifuggire da qualsiasi sentimentalismo, ma già l'ho detto altrove che la maternità ha in parte cambiato questo lato di me.

Quindi, care mamme, rilancio qui l'appello del dottor Z., che con me è stato spietato, ma...aveva ragione! I bambini che scoprono la terribile realtà della vita in tenerissima età, e cioè che
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
(Salvatore Quasimodo)
hanno bisogno solo di sentirsi: rassicurati, accuditi, amati e non abbandonati.

Ho messo in atto a partire da quel pomeriggio stesso i consigli del dottor Z.: cosa fare per fronteggiare questa crisi abbandonica? Usare le mani, accarezzare, toccare, sorreggere, calmare. Il bambino deve sentire che le mani del genitore hanno il potere di infondergli serenità e di proteggerlo.
Sembra una grande banalità, ma invece: ha funzionato!
Con i miei poteri taumaturgici da due giorni e mezzo sto riscontrando una grandissima potenzialità del mio tocco sull'addormentamento della piccola, perchè da quel pomeriggio sto passando dall'addormentamento stravaccata sulla mia pancia, a quello in culla, con la mia mano appoggiata su di lei a farle da ancora nel suo veleggiare verso il mondo dei sogni.

Oppure: io cucino e lei seduta sulla coperta a terra inizia a frignare perchè la prenda in braccio. Io mi avvicino, l'accarezzo, la palpeggio e la stringo, lei si calma e poi ricomincio a fare quello che stavo facendo.

Dottor Z. santo e subito.

Vi sembro stupida? Sì, è vero, era un consiglio abbastanza banale, e ci sarei potuta anche arrivare da sola, ma a volte (è tanto difficile da capire?) anche una madre ha bisogno di non sentirsi sola, di un consiglio che venga dato disinteressatamente, diretto al bene e non alla critica gratuita, come uno spiraglio che si apre quando le difficoltà di ogni singolo momento della giornata sembrano insormontabili e senza possibilità di soluzione, e ti destreggi tra tutti i consigli a vanvera ricevuti cercando di capire quale sia il modo migliore di comportarti per non allevare i futuri disadattati della prossima epoca storica.
Io amo il dottor Z. per questo spiraglio che mi ha aperto in un momento in cui più che mai mi sembrava di dovermi sobbarcare questa responsabilità da sola, e sola, sola, sola, più sola che mai affrontare ogni singolo interrogativo di ogni dannata giornata trascorsa a fare monologhi con una bambina infante di 8 mesi, e poi mi chiedevo come mai tutto mi sembrasse nero, in questa sfavillante primavera che fa rinascere in tutti la gioia di vivere.

Seconda novità: orgoglio ferito.
Avete presente l'orgoglio col quale annunciavo al mondo che la pupa smania per tirarsi in piedi e col quale descrivevo con entusiasmo come le piacesse fare la camminata del pinguino sui miei piedi?
Beh, sbagliavo.
Il dottor Z. si è dilungato in una lunga seduta informativa sugli ultimi studi neurologici dello sviluppo infantile neuronale, che pare attribuiscano un'importanza fondamentale al periodo in cui il bambino gattona, poichè è solo e soltanto in questa fase che si formano alcune connessioni cerebrali, quelle responsabili dell'apprendimento.
In poche parole: esisterebbe una connessione tra il gattonare, o meno, e lo sviluppo della dislessia nei bambini.
Io 'sta cosa l'avevo già sentita, ma l'avevo presa per una leggenda metropolitana.
In ogni caso: che gattoni, strisci, si dondoli a quattro zampe, si rotoli, o faccia la foca, non è importante, basta che non venga aiutata a stare in piedi. Conclude il dottor Z.
E io che dovevo fare? Ho confessato il misfatto, e ora mi è stato proibito nella maniera più assoluta di assecondare le richiesta della pupa di essere aiutata a stare in posizione verticale, almeno fino a quando non sarà lei a tirarsi su da sola aggrappandosi ai mobili.
Colpita e affondata, Suster.
Un'ultima cosa, dottore! Mmmm... non so come dirglielo: ma glie li posso dare i mandarini?
E secondo voi cosa mi ha risposto? No, è ovvio.
Ah! E i biscotti nel latte glie li devo mettere, perchè sa, mia madre insiste con questa storia...
Cerco di aggiungere mentre mi spinge fuori dallo studio.
No, niente biscotti fino all'anno, e comunque NON i plasmon! (perfetto!)
Ah, e la pastina all'uovo la posso mettere nella minestrinaaaaaaaaaa....
Urlo mentre due energumeni mi afferrano per le braccia e mi trascinano via.
No, non è vero: se ve lo state chiedendo questa cosa non è mai successa, ma la sensazione era quella. Il mio tempo a disposizione era scaduto. E comunque niente pastina all'uovo, ti pare?
Sbagliato, sbagliato e sbagliato.
Questo mese non ne ho azzeccata una.
Fortuna che la pupa cresce impeccabilmente, sulla sua curva di crescita numero 50 (si dirà così? Boh!), con la sua testa leggermente più grossa della norma, i suoi riflessi nella norma, le sue crisi abbandoniche nella norma, nessun malanno stagionale agli atti, nessuna allegia riscontrata, nessun'intolleranza, nessun deficit di alcun genere.

Se riesco ad assecondarla, ce la dovremmo fare...

venerdì 25 marzo 2011

Presa di coscienza al supermercato

Tutto è cominciato per colpa di quelle padelle col fondo in ceramica, alla COOP.
Belle queste padelle! Non sarà il caso di buttarle ormai quelle nostre in teflon con tutto lo strato antiaderente grattato via da anni e anni di utilizzo indiscriminato di forchette e cucchiai di metallo ad opera di chiunque si sia trovato per accidente a passare per casa?
Ma sì, le prendo: tanto costano solo 13 euro. No, aspetta: 13 € per i soci COOP, e per gli sfigati come me? Non c'è nemmeno scritto il prezzo. Forse che io non ho diritto a possedere una padella col fondo in ceramica? Basta. E' ora di fare quella dannata tessera COOP. Se l'avessi fatta prima, a quest'ora chissà quante padelle avrei! Sempre per il fatto che bisogna sborsare 25 €, e che io arrivo a fare la spesa con gli spiccioli contati, compresi i 50 centesimi che mi servono per il carrello.
Dunque mi reco al bancone reception per diventare socia COOP.
- Riempia questo modulo. Mi serve un suo documento, il codice fiscale e 25 € in contanti.
Sempre simpaticissime le commesse della COOP.
- Professione?
- Ehm... No, sono... disoccupata, diciamo, per adesso, in cerca di occupazione, non proprio in questo momento... (e indico la pupa nel seggiolino del carrello)
- Casalinga?
- (Ma m----tta Eva!) Sì, va bene casalinga...
- Titolo di studio?
- L-A-U-R-E-A S-P-E-C-I-A-L-I-S-T-I-C-A (scandisco): cioè di secondo livello (specifico. Ma lei non sembra impressionata).
- Mi serve il suo cognome da sposata, signora.
(Sposata??? SIGNORA?????? Ma porc...)
Passano tre lunghissimi secondi, durante i quali lei forse si sta chiedendo se sono un po' tarda, o se, data l'età avanzata, forse non ci sento bene.
Va be': su questo punto cedo. Non posso mica mettermi a discutere su tutto. Le dò il mio pseudo-cognome da "sposata" (ma deve essere così scontato che uno per avere un figlio si sposi? Ma non glie l'hanno mai raccontata a questa qui la storia dell'ape che va sul fiore?). Faccio lo spelling anche qui, perchè tanto, due su tre, lo sbagliano. A parte che dico "g" di gatto e "h" di Oh mio dio, dico pure "i" di Empoli, mannaggia ad Hasuna che mi attacca la sua dislessia da italiano, a questo punto sì che avrà pensato che ero un po' ebete, malgrado la laurea specialistica di secondo livello.
Ma comunque, trasformatami in una perfetta casalinga coniugata e pure analfabeta, me ne esco trionfante come socia dalla COOP, con la mia bella tessera provvisoria nel portafogli.
- Aspetti, signora: la aiuto con le buste!
Il solito buon samaritano. Va be', dai che mi fa comodo, che ci ho la pupa nel marsupio e devo riportare il carrello e slegare la bici.
- Dove ha la macchina?
(Macchina?)
- No, no, metta pure qua grazie.
- Ma va a piedi con tutta quella spesa e la bambina?
- No: ho la bicicletta.
- E come fa a portare tutto?
- Semplice: metto questo nel cestino, la cassa dell'acqua dietro nel portapacchi, la bimba nel marsupio, le due buste attaccate al manubrio (in gamba la casalinga, eh?).
- Ah! Per fortuna che non è una spesa tanto grossa!
- No, quando devo comprare tanta roba mi porto lo zaino da campeggio.
Ride.
Ma non era una battuta!

mercoledì 23 marzo 2011

Colei a cui non lascereste MAI vostro figlio


Sì, sono io. Sono quella con cui non lascereste vostro figlio/a da solo nemmeno per 5 minuti.
Eppure posso vantare una discreta carriera come baby sitter, che, in considerazione della penuria di argomenti, non manco di segnalare nei miei curricula lavorativi.
Che tristezza, Suster, e poi ti lamenti che non trovi lavoro! Già.
Dunque uno dei primi lavori che ho svolta quando sono arrivata a Pisa è stato quello: la baby sitter. All'epoca avevo 20 anni e assai poca esperienza in fatto di pannolini e affini.
Il mio bambino, quando ho cominciato a lavorare con lui, aveva 2 anni appena compiuti e rispondeva al nome di Gigio. Sì, proprio come il famoso topo che ha animato la nostra infanzia televisiva, e prima della nostra, quella dei nostri genitori, e probabilmente dei nostri avi. Quel sorcio immortale.
Del resto io ho sempre avuto a che fare con nomi importanti: i primi bambini con cui ho prestato servizio quale Mary Poppins dei giorni nostri alla tenera età di 17 anni, figli di amici di famiglia, si chiamavano infatti Giovanni e Giacomo. Suppongo che se invece di due gemelli ne fossero nati tre, il terzo sarebbe stato pelato e si sarebbe chiamato Aldo.
Ma torniamo al nostro Gigio. Con un nome così non poteva trattarsi certo di un bambino del tutto normale.
E infatti.
Possiamo dire che io l'abbia visto crescere, poiché sono rimasta con lui fino al suo 7° anno d'età compiuto, con le debite interruzioni del caso.
Gigio era molto simpatico e amoroso nei miei confronti, per carità, ma aveva il difetto di aver sviluppato una senilità precoce, causata secondo me da genitori fortemente inibitori, e la conseguenza di ciò era il fatto che il Gigio in questione finiva spesso per comportarsi in maniera assai più adulta della baby sitter stessa, di 18 anni più vecchia.
- Gigio, che bello! Hai un gioco nuovo!  Che castello bellissimo! Dai, facciamo che io ero l'esercito dei cavalieri neri e tu i bianchi?
- No, che fai? Non si gioca così! Ferma! Stai mettendo tutto in disordine! Questo non va così! Quello non si mette lì. Ora basta: mettiamo il castello sul tavolo e giochiamo con un altra cosa.

Oppure:
- Facciamo la lotta con i mostri: io ero il drago fortissimo che sputa il fuoco e tu eri questo qui.
- Eh, ma non vale: perché io devo prendere questo pupazzo bruttissimo e tu prendi il drago gigante? Così è normale che vinci te. Allora io prendevo anche il dinosauro verde.
- NO! Il dinosauro verde sta nella squadra dei draghi!
- E va bene, allora io mi prendo questo topo con la faccia da scemo, ma faccio che lui aveva un potere speciale che diventava invisibile e entravo nel vostro nascondiglio di notte e vi rubavo il drago!
- Noooooooooo! Il topo non era invisibile!
- Certo che era invisibile! Il pupazzo è mio e decido io i poteri che ha. Ma scusa, devi vincere per forza tu? Allora io non ci gioco più con te. Se mi dai i pupazzi più brutti, e poi devo pure perdere, allora gioca da solo!

Credeteci: è successo davvero.
Credo che però lui con me si divertisse almeno un po', anzi: di più! Dopo tutto ero l'unica "bambina" che frequentava, prima che lo mandassero a scuola.

Con Gigio mi piaceva un sacco disegnare. Cioè: io disegnavo, e lui mi diceva fai questo fai quello, ora fai una casetta, ora fai un bambino ora fai una mamma. In assoluto, credo sia stato l'unico bambino che io abbia mai conosciuto che non ti strappasse il pennarello di mano ogni volta che ci si metteva a fare un disegno insieme. Io ci ho provato a far disegnare anche lui, ma credo che il giovane ragazzo non si sentisse particolarmente portato per l'espressione artistica, perché mi rispondeva sempre: "No, io non sono bravo come te. Disegna tu e io ti dico cosa fare". Aveva la stoffa del leader, lui.

Non disegnava, però a due anni riconosceva già Ciampi quando lo vedeva in televisione, e il Papa, la cui vista lo riempiva di entusiasmo (ma era ancora Woitila, sarebbe stato ben più preoccupante se si fosse entusiasmato del ghigno di Ratzinger!), e aveva un bellissimo mappamondo fisico-politico che si illuminava su cui sapeva individuare l'Italia. Ah! E guardava vagonate di documentari sin dalla più tenera età.

Gigio era un poco mammone, come tutti i bambini maschi suppongo, almeno in Italia, dove a sentire i nostri ministri pare che partoriamo e alleviamo eserciti di bamboccioni. Tutti i suoi giochi, le sue storie, i suoi disegni, le sue canzoni, in qualche modo finivano per vertere su un unico argomento: la mamma. Uno dei suoi giochi preferiti erano i "limali", ossia gli animali. Ne aveva  tanti da riempire due o tre zoo, e ne sarebbe anche rimasto qualcuno fuori. Con questi limali lui amava fare delle "sceneggiate", ossia inventare storie in cui il copione era in linea di massima sempre lo stesso, e non si potevano fare varianti: questa è la mamma cavalla, questo è il puledrino. Un giorno il puledrino va nel bosco e si perde, chiama la mamma e piange. Qualcuno va a salvarlo e torna dalla mamma. Cambiando la specie di riferimento il risultato rimane uguale: mamma leone e leoncino, mamma orsa e orsetto, mamma tigre e tigrotto. A parte che la trama fa pena, ma perché mai ripetere questa sceneggiata all'infinito? Forse il povero Gigio tentava attraverso la messa in scena delle sue più radicate paure di abbandono materno, di praticare una sorta di esorcismo, un po' come facevano gli antichi Greci con la tragedia.
Inutile dire che a me il gioco della sceneggiata annoiava a morte e non perdevo occasione per improvvisare diversivi e colpi di scena.
- Facciamo che mamma elefante veniva catturata dal drago e l'elefantino doveva andarla a salvare.
- Facciamo che leoncino smarrito incontrava Pumbaa e Timon e andava a vivere con loro nell'oasi.
- Facciamo che orsetto saliva sul trenino e andava a trovare i suoi parenti al polo nord.
Niente. Nessuna variante poteva stuzzicare l'interesse di lui, tutto preso da quei reiterati salvataggi lacrimosi e melensi.

Quando era bel tempo, dovevo trascinare Gigio ai giardini, perché così voleva la mamma, che mi lasciava scritto poi a che ora tornare e quanti minuti di tv poteva guardare. Se fosse stato per lui, Gigio sarebbe rimasto tutto il giorno chiuso in casa a guardare i DVD del Re Leone 1 2 3, e l'idea di uscire non lo solleticava neanche lontanamente.
Diciamo che se avessi potuto esimermi da quelle penose gite ai giardini, lo avrei fatto più che volentieri. Avrei potuto dire, ad esempio: "Ascoltami bene, Gigio: tu non vuoi andare ai giardini ma rimanere qui a guardare Il Re Leone 3. Io non voglio andare ai giardini ma rimanere qui a mangiarmi i vostri Pan di Stelle e le vostre Gocciole (sempre che ce ne siano a sufficienaza nel pacco per poter poi occultare il misfatto). Facciamo che si sigla un accordo e non si dice niente a Papaldo (che sarebbe poi papà Aldo)?".
Ma per quanto irresponsabile e incosciente fossi all'epoca, sapevo bene quanto potevo fidarmi della parola di un bambino di 3, 4 o 5 anni. Renderlo mio complice in un complotto contro la mamma era troppo anche per me.
E così ogni giorno la sofferenza dei giardini era inflitta a entrambi.

Gigio non amava molto giocare con i suoi coetanei. Per convincerlo ad uscire ero costretta ogni volta a traslocare un certo numero di giocattoli da casa ai giardini e poi ritorno. Peccato che una volta lì, quando iniziavamo a tirare fuori i nostri 270 "limali" dalla mia capiente borsa, immancabilmente uno sciame di bimbi si radunava intorno a noi come vespe sulla marmellata, e allora sì che erano cavoli!
- No, fermo! Questo gioco è mio! Lascia il mio leone! Non potete giocare con i miei limali! NO! Si perdono! Papaaldo non vuole! Ridammi il mio cavallo! Quel bambino ha preso il mio lifante! Andiamo via non voglio più stare ai giardini!

Bimbi asociali di nuova generazione...

Una volta eravamo ai giardini in piena crisi di panico. La mamma quel giorno era uscita con noi e poi ci aveva mollato lì, e questo aveva scatenato infiniti pianti che io a mala pena ero riuscita a sedare sciorinando come al solito il mio sterminato repertorio di sigle tv dei cartoni animati della mia infanzia passata per un buon 50% davanti al piccolo schermo.
Lui ascoltava per quanto non potesse avere la benchè minima idea dell'erudito riferimento cui corrispondeva ogni nuova canzoncina.
- Un'altra!
E un'altra ne tiravo fuori dal cilindro della mia memoria canora.
-Aspetta aspetta, come faceva quella? Ah, sì.
E attaccavo a cantare Ciobin. Ciobin: non so se avete presente. Trattavasi di piccolo extraterrestre gommoso e fungiforme che era precipitato sulla terra non si sa bene come ed era da allora perennemente in cerca delle mamma.
Scelta infelice, perché dopo aver cantato con diligenza tutta la sigla con impeccabile fedeltà al testo originale, arrivo all'epilogo, che recita così: "Goccia di stella, la mamma mia dov'è?"
- Perchè non c'è la sua mamma? Dov'è la mia mamma? Buaaaaaaaaaaaaaaaaah! Voglio mammaaaaa!
E così finì l'idillio.

Suster con la psicologia infantile è un disastro.
Un'altra volta gli cantavo "Cuccuruccucù paloma", la canzone di Battiato, ignara che anche qui vi potessero essere elementi tali da provocare un trauma.
Insomma la canzone a un certo punto fa: "La barba col rasoio elettrico non la faccio piùùùùù!"
E lui mi fa:
- Perchè non la fa più la barba?
- Boh, Gigio, che ne so! Forse perché era triste.
- E perché era triste?
- Perchè la sua donna l'aveva lasciato.
Dico io, candidamente.
- E se n'era andata via?
- Sì, credo di sì...
- Anche mamma e papà si lasciano? Io non voglio che mamma va via! Buaaaaaaaa!
Porca miseria! Ma ero io a non capirci niente di bimbi o era lui ad avere qualche problema di insicurezza legato all'abbandono genitoriale?

Gigio... Bei tempi!
Ora è alto quasi due metri e quando lo incontro mi saluta come un adulto, mi chiede la bimba come sta, è molto educato. Pure troppo per la sua età.
Pare non aver riportato danni permanenti dal tempo trascorso in mia compagnia.
Ha anzi rimpianto a lungo le tigri che gli disegnavo poiché questa fu la prima cosa che mi disse quando tornai dal mio Erasmus a Madrid:
- Lo sai che ora ho tre baby sitter? Tu, Alessia e Sandra. Ma loro non le sanno fare le tigri. Le fanno bruttissime.
Peccato che io poi questa Alessia l'ho pure conosciuta per altre vie, e quando scoprimmo di avere Gigio in comune mi confessò di avermi odiato visceralmente perché lui non mancava di ricordarle ogni giorno che le tigri che gli disegnavo io erano molto più belle (ah ah!).
Sarà stato per le tigri che la mamma di Gigio mi riprese con sè congedando simpaticamente Alessia e Sandra, o perché sin da quando la lira aveva lasciato il posto al dannato sfigato euro le mie tariffe non avevano tenuto dietro all'inflazione, continuando io a venir pagata 5 euro l'ora per i secoli dei secoli e pure amen? Chissà, chissà.

Comunque eccomi qua. La miglior baby sitter sul mercato, ora, udite udite e inorridite, mamme: è diventata a sua volta mamma! Oh poveri noi! Oh povera creatura! Dove andremo a finire? Chiamate gli assistenti sociali! Chiamate tata Lucia!
Ma no! Su, che son cresciuta nel frattempo!
Solo una volta che ero un po' presa a scrivere cretinate qui sul blog la mia piccola è stata inghiottita dal suo enorme seggiolone privo di imbottitura, precipitando in terra sul sedere. Ma insomma, son cose che capitano!

Ah, e poi c'è stata quella volta che mi è volata giù dal tavolo di testa nel tentativo di inseguire la bottiglia di plastica accartocciata che le avevo dato per tenerla occupata, e io allora le sono andata dietro di gran tuffo nel tentativo di acchiapparla in caduta libera, se non che, ahimé, inciampai nelle ciabatte e anche il mio tuffo si è trasformato in caduta libera. L'ho acchiappata solo a livello pavimento, atterrando sulle ginocchia e procurandomi due grassi lividi, ma sono riuscita almeno a evitare che si fracassasse la testa sulle piastrelle della cucina...
Cose che capitano.

E poi c'è stata quella volta che lei era seduta a terra sul suo tappeto/trapunta rossa e io sono sbucata dal corridoio per farle cucù e lei si è spaventata, è sobbalzata all'indietro, ha perso l'equilibrio e si è cappottata sul pavimento, sbattendo la nuca con un secco "tonc".
Però, ragazzi, sono cose che capitano!

O come quell'altra volta che io ero tutta presa dal farle un servizio fotografico, e a verificare le impostazioni della reflex, tanto da non accorgermi che il mio soggetto intanto stava tentando il suicidio...
Cose che capitano... oppure no?

domenica 20 marzo 2011

No, oggi vado scalza.

- No: oggi vado scalza!
Rispondeva lanciando le scarpe buone nell'angolo più recondito della sua stanza, con un calcio. E via.
Giù per le scale di corsa e poi fuori dalla porta di casa, che sbatteva dietro di lei, per non perder tempo ad accompagnarla con la mano, mentre gridava un poco convinto "Scusa, ma'!", e le giungeva sovrapposta alla sua, la voce di lei da dentro, che già non sentiva più, ma che sapeva gridare qualcosa come: "La porta! non sbattere la porta!". E via.

Sua madre rimaneva a guardarla per un po' da una finestra del piano terra, seminascosta dalla tenda di pizzo, ma subito se ne tornava alle sue faccende scuotendo un poco la testa. In fondo meglio così: meglio non consumarle troppo le scarpe buone della domenica.
Lei era già corsa via, senza guardarsi indietro mai.
Giù per le vie lastricate del paese, sul liscio selciato, evitando i rigagnoli che correvano ai lati della strada, e su per le gradinate irregolari, fiancheggiando le facciate delle case, sull'ammattonato rosso della piazza principale.
E poi giù per i sentieri sconnessi più o meno accidentati, a grandi falcate come uno stambecco tra le sue rocce, scivolava come acqua di un torrente nel suo letto di pietre, si sentiva acqua a tratti e a tratti fuoco guizzante. Sentiva il suolo sotto i piedi restituirle la spinta delle sue gambe.
Correva e correva, i suoi piedi scalzi calpestavano ciottoli e ghiaia, affondavano della rena fina del ruscello e poi nell'acqua gelida di sorgente, sentivano le vibrazioni del terreno.
Evitavano il ramo spinoso di un rovo abbattuto a terra da un gruppo di bambini in cerca di more ancora acerbe, saltavano una pozzanghera,  residuo del temporale della sera prima. Ora il sole splendeva con tutte le sue forze, lanciando in giro i suoi raggi a colpire le foglie nuove degli alberi ancora gocciolanti di pioggia, che rifrangevano la luce scomponendola in una miriade di colori.
E intanto lei correva. Giù, per il sentiero sterrato: i suoi piedi erano avvezzi a terreni ben più accidentati, e non avvertiva quasi il fastidio del brecciolino sotto le piante. Solo ogni tanto le accadeva di sdrucciolare un poco in frenata, quando si trovava davanti improvvisamente un ostacolo inaspettato: un uomo con un asino dietro una curva, una coppia di anziane donne che si attardavano tornando dalla messa.
Correva e correva respirando quell'aria fresca e leggera che le bruciava nei polmoni e la faceva sentire viva, come i suoi piedi, che intanto accarezzavano ancora il terreno, toccandolo appena, quasi volando, e lei sentiva solleticarle tra le dita l'erba tenera appena spuntata, e pungerle le caviglie l'erba secca, alta d'estate. Ancora tagliava per un campo e sprofondava nelle zolle di terra morbida, poi su per un prato aperto, a schivare le cacche delle mucche. Quelle delle pecore erano più difficili da evitare, ma loro adesso erano più su, sui pascoli alti, e non c'era pericolo. I suoi piedi sentivano la terra, la tastavano palmo a palmo, la riconoscevano e l'assecondavano.
La terra calda come le ceneri di un falò, fredda come la condensa gelata al mattino presto, liscia come i sassi rotondi levigati dallo scorrere del fiume e della pioggia, ruvida come un campo non ancora arato, soffice come lo strato di foglie morte dei boschi alla fine dell'inverno, dura come la terra battuta delle piste di montagna dove passano i muli coi loro carichi di legna, umida come il muschio sulle pietre del ruscello, asciutta come il fieno lasciato ad asciugare nella stagione calda, viva come i lombrichi e gli insetti che ospita, come le piante che nutre, come i semi che cova nel suo grembo, viva come si sentiva lei a calpestarla, quella madre multiforme e infinita, che accoglieva ogni suo passo restituendole lo slancio necessario alla sua corsa.
Correva così da quando era bambina, e la bella stagione le restituiva quella libertà di sentirsi la terra sotto i piedi. Le sue corse la riportavano sempre ai soliti luoghi, dove lui la aspettava per giocare insieme e correre ancora.
Ma quell'anno una nuova gioia e una nuova impazienza le riempiva il petto ansimante già del tanto correre, ed era stato quel bacio, dato e ricevuto, atteso e inatteso, che trasformava all'improvviso quell'amicizia infantile in qualcosa di sconosciuto e nuovo, spaventoso e straordinario. Quella primavera aveva tredici anni. E così correva da lui, volava, e si sentiva viva, libera e leggera.

L'anno seguente era andata a studiare in città, ospite a casa di sua sorella, aveva messo le scarpe ai piedi e non le aveva tolte più. Tornava per le feste, e aveva smesso di correre. Non era più una bambina.

Era cresciuta ancora, quella bambina, aveva fatto l'università e aveva ora un bel lavoro, che la appagava, aveva un discreto successo sociale, aveva avuto alcuni uomini, e quell'amore ingenuo tra i sassi e gli alberi quasi non lo ricordava più.

Aveva tante scarpe. Le piacevano le scarpe: ne aveva tante, per ogni occasione, per ogni giorno, anzi, di più: per ogni momento della giornata.
Ne aveva basse per uscire a passeggiare nel parco col suo cane, un po' più alte, per uscire in città con le amiche, ne aveva altissime, per slanciarsi verso l'alto e farsi ammirare dagli uomini quando usciva a ballare la sera.
Aveva delle scarpe da ginnastica, per andare a fare footing la domenica mattina se c'era bel tempo, aveva quelle per la palestra, anche se non ci andava quasi mai, aveva quelle per la danza, anche se aveva smesso di frequentarla anni prima, per mancanza di tempo.
Ne aveva di tutti i colori; aveva tante paia di ballerine, da abbinare con jean's e gonne corte, pantaloni attillati e collant; ne aveva di spiritose, di serie, di ufficiali e di eleganti. Ne comprava un nuovo paio ogni volta che era invitata a un matrimonio o a una cerimonia importante, perché quelle che aveva non andavano mai bene con i vestiti che sceglieva per l'occasione.
Aveva anche degli scarponi da montagna, che aveva acquistato quando ancora stava insieme al suo ultimo ragazzo, che amava portarla in giro a fare escursioni, e si fingeva esperto, quando lei ne sapeva assai più di lui, di montagna, ma lo assecondava.
Aveva tante paia di stivali per l'inverno, e anche per l'estate, molto alla moda, che le fasciavano la gamba fino al ginocchio.
Aveva delle scarpe con gli occhi tristi, come quelle che sua madre le comprava da bambina, rosse, ma adesso erano una raffinatezza retrò.
Poi aveva tantissime scarpe da usare d'estate, sandali dorati, con perline, con pietre, con la fibbia, senza fibbia, con il laccio alla caviglia, con la zeppa alta, raso terra, aperte dietro, aperte davanti, con l'infradito, con i brillantini, con le paillettes. Molte di queste non le aveva nemmeno mai messe. Ma... non si sa mai.
Poteva mettere una scarpa diversa per ogni situazione, impersonare un'infinità di donne differenti, darsi arie da gran diva, guardando i maschi dall'alto in basso, giocare a fare la signora elegante di città, o la brava ragazza acqua e sapone, la femme fatale accattivante e misteriosa, sui suoi arditissimi tacchi a spillo. Ogni scarpa era un mondo a sé, e non le bastavano mai. Ne avrebbe volute altre e altre e altre ancora. Aveva un'intero armadio solo per le sue scarpe e ogni mattina amava fermarvisi a lungo davanti, e scegliere con calma, che tipo di donna sarebbe stata quel giorno.
Non toccava più la terra ora, la dominava, e l'addomesticava, misurandola a passi decisi e pacati.

Poi quella sera la telefonata di sua madre: "Non indovinerai mai chi è venuto a trovarci oggi! Mi ha chiesto di te, gli ho dato il tuo numero: ha detto che andava in città e voleva passare a salutarti. Ho fatto male?"

Quella sera ripensava a tante cose lontane, e poi più vicine. Ad una seconda telefonata seguita a quella di sua madre, ad uno scambio di battute, a una voce che stentava a riconoscere, alle risate al telefono, a un appuntamento preso, a una sensazione che non provava più da tanto tempo.

Aprì l'armadio dove teneva le sue innumerevoli scarpe: lui sarebbe arrivato a momenti e lei non aveva ancora scelto quale indossare.

- No: oggi vado scalza!

Questo post partecipa al contest di Nina: "L'amore non deve essere un segreto."

sabato 19 marzo 2011

Non chiamatela pupa

Allora, anche se le maestre ci hanno sempre detto di non iniziare mai con questa parola, io sono finalmente libera dalle costrizioni scolastiche e non ho obblighi deontologici da rispettare, potrei persino permettermi qualche strafalcione ortografico, tanto l'unica ad essere lesa sarebbe la mia credibilità quale scrittrice dilettante che racconta nel suo piccolo insulso spazio personale tutto ciò che le passa per la testa di raccontare. Quindi, dunque, perciò, e così.
Allora, dicevo, dato che ieri decorreva l'ottavo mesiversario di me e pupa quali madre e figlia in rodaggio, vale a dire, l'ottavo pupa-day, forse avrei dovuto celebrarlo in maniera più degna qui, come finora vi ho abituato a vedermi fare.
Ma (e qui ci va un'altra bacchettata sintattica) non sono mai stata portata per la continuità, l'uniformità, il rispetto dei termini, la sistematicità e l'adozione di standard comportamentali. Mi riservo però di rimediare quanto prima alla mancanza, e di mantener fede alle promesse fatte più a me stessa che a chi capita di qui e mi legge sovente, che in fondo può sopravvivere anche senza essere informato puntualmente e periodicamente sulle ultime novità dello sviluppo psicomotorio e sociale di mia figlia, che continua incessante e costante, lui sì, malgrado le distrazioni materne, come del resto si addice allo sviluppo di tutti i bimbi dell'età della pupa, e anche oltre.
Eccola quindi sulla terza altalena della sua vita, le prime due mancai di immortalarle, e questo significa che non sono ancora del tutto stata inghiottita dalla spirale senza ritorno del rincoglionimento da madre fissata con le prime volte, anche le più insignificanti, della vita del proprio figlio (la prima pupù sul vasino, uh che amore!, la prima parolaccia in pubblico, lacrimuccia!, la prima corsa all'ospedale con la testa rotta, bei tempi!).
Però Suster, che in quanto a congiunzioni non scherza, deve ammettere a se stessa e a voi fratelli che ha molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni. Ammette di aver detto e ridetto e pensato e ripensato, e anelato in fondo all'anima, assieme a cieli immensi e immenso amore, anche la deprecabilissima frase: "Non vedo l'ora che cresca!". E anche quell'altra, forse pure più deprecabile: "Non rimpiangerò mai questi momenti!", e ora è giunta l'ora di fare due conti con la propria coscienza di madre. Sì perché Suster ora finalmente sta iniziando davvero a divertirsi, e ora sì che ci ha preso gusto e vorrebbe davvero chiedere una tregua al tempo, che rallenti, o che si fermi ora, ma ora eh, prima che il prossimo dente inizi a farci dannare di giorno e di notte e io mi scordi di nuovo le estasi dell'amore materno.
Si chiede, la nostra Suster, anche se ci sia un modo per saltarli a piè pari, quei terribili 4-5 mesi che precedono la trasformazione del neonato in bambino che interagisce in maniera gratificante, quella della mamma da esaurita totale con ben poco di materno a una che forse qualche speranza di restare viva e sana di mente ce l'ha, e quella del rapporto tra i due da "ho voluto la bicicletta e mo' pedalo" a "com'è bello passeggiar con pupa".
Inizia anche, seppure con infinite cautele e debite mani avanti, a considerare l'eventualità di poter un giorno ripetere l'esperimento, ma per ora non parliamone.
E già, perché i progressi della pupa sono sotto gli occhi di tutti, e, come dicevo, uno li dà anche abbastanza per scontati, ma quelli della mamma, nessuno ci pensa?

La pupa ormai va sull'altalena, gente! E' vero: in quell'altalena ce ne entrerebbero quattro di pupe, e lei ci sta tutta accasciata in avanti come una scimmietta di pezza, ma come ci si diverte!

La pupa ora fa ciao con la manina, anche se ancora non riesce proprio ad azzeccare la tempistica, e forse non mette nemmeno tanto in relazione il fare ciao con il concetto di salutare qualcuno, che non è poi un concetto tanto facile da acchiappare.

E la pupa ora inizia a fare esperimenti con le sillabe, le mette insieme a casaccio e oltre a dire "patata", una volta per caso, ieri ha detto anche "zeta" e "palla" (prendetele sempre con beneficio d'inventario), e poi, meraviglia delle meraviglie, collega le parole ai concetti, per quanto il suo vocabolario non sia certo tra i più ricchi in circolazione.
Dunque la pupa ha iniziato con "ba ba", che inizialmente indicava il verso delle pecore: trattasi delle pecorelle della sua giostrina, che la mamma sin dalla sua primissima infanzia ha fatto girare sulla sua capoccia a suon di be-be cantati sulla colonna sonora della Piccola Serenata Notturna di Mozart (oh, dicono che l'ascolto di Mozart stimoli l'accrescimento intellettivo dei neonati: io ci ho provato).
Poi un bel giorno la pupa mi guarda e dice canticchiando "Ba! Ba ba! Ba ba ba!". La mamma rimane un po' perplessa, poi incredula si guarda intorno, poi piano piano realizza la richiesta della pargola, e infine esegue la sua performance canora cantandole a cappella be be be mentre rotea in aria l'allegra giostrina di pecorelle variopinte.
Da lì in poi è stato tutto un susseguirsi di "ba ba": i cani erano "ba ba", le quintalate di pecore peluches che lei ha scoperto sulla mensola della camera della mia adolescenza (ho avuto a lungo un'insana passione per l'oggettistica ovina, assecondata e incoraggiata da amici e parenti con regali rispondenti al genere e alla specie) è stata salutata da lei con entusiastiche emissioni di esultanti ed eccitati "Ba ba ba ba!" accompagnati da dimenamenti di gambe e braccia. Ora "ba ba" è qualsiasi oggetto di sembianze zoomorfe, meglio se morbido e coccoloso, che si trovi a passare per caso o per necessità all'interno del suo campo visivo. Come se non bastasse anche i bimbi al parco sono stati ribattezzati "ba ba".
In poche parole, mentre "Mammammammamma!" rimane il termine delegato all'espressione di sentimenti di disperazione e angoscia, quali abbandono materno, " Ba ba" rappresenta tutto ciò che le piace e che la emoziona. Ingiustizie semantiche.

La pupa ormai fa lunghi viaggi in treno senza scomporsi, guarda dal finestrino, apprezza i paesaggi e ascolta la mamma che le canta le canzoni della sua infanzia per farla stare buona.
La pupa ha le sue preferenza in fatto di musica e le palesa senza complimenti.

La pupa vorrebbe alzarsi in piedi, ma da sola non ce la fa, vorrebbe potersi muovere, ma ancora ci sta lavorando sopra, alle dinamiche del gattonare. La pupa rosica quando vede gli altri bambini scorrazzarle intorno a velocità per lei impensabili, e si arrabbia molto.

La pupa ama fare la camminata del pinguino sui piedi della mamma e si sente molto brava in questo, si guarda intorno soddisfatta e fissa gli astanti negli occhi, come a reclamare un applauso.

La pupa ha imparato a strizzare gli oggetti per vagliare il loro grado di resistenza e morbidezza.

La pupa si guarda orgogliosa e concentrata la mano che si apre e si chiude e ne studia il funzionamento.


La mamma da parte sua ha imparato un sacco di cose:

Ha imparato a non crearsi aspettative di alcun genere, che conviene ed è più intelligente prendere le cose per come vengono, che poi come vengono nessuno lo sa.

Ha imparato ad avere pazienza, a vivere ai ritmi dettati dalla necessità, a saper rinunciare alla necessità di riempire per forza di azioni superflue ogni singolo istante del suo tempo.

Ha imparato che una giornata può considerarsi ben riuscita anche senza dover per forza espletare a incombenze sociali pratiche o burocratiche, se si riesce a portarla a termine senza turbarne i delicati equilibri umorali che la accompagnano.

Ha imparato a rinunciare agli obblighi inutili, quali regali di compleanno, visite di circostanza e presenzialità dovute, e a dare priorità all'essenziale.

Ha imparato in meno di un anno a organizzare e a pianificare il suo tempo e le sue azioni meglio di quanto non sia riuscita a fare nei primi 28 anni di sua esistenza.

Ha imparato ad accettare i propri limiti e a ridimensionare le proprie esigenze personali.
Ha accettato anche di non essere in grado di concentrarsi contemporaneamente su più di una questione per volta, di limitare le proprie attività ai momenti in cui lei dorme, di rimandare la lettura di un libro dall'inizio alla fine a quando le sue energie glie lo consentiranno, ossia a data da destinarsi.

Ha imparato a declinare con garbo gli inviti, a limitare con fermezza le visite ai momenti giusti, dando assoluta priorità alla tempistica di sonnellini e pappe, a troncare le telefonate infinite in caso di esigenze pupesche urgenti con richiesta immediata di intervento in loco.

Ha imparato a tenere testa e a stemperare per quanto le riesce i propri sbalzi di umore in funzione di una sua necessaria presenza e prontezza di spirito costante e a far appello a tutte le sue energie fisiche e mentali anche quando non ne avrebbe proprio voglia.

Ha imparato a fare a meno delle giornate di recupero affaticamento fisico e degli attardati risvegli almeno una volta a settimana, del poltrire a letto e dell'"oggi non ho voglia di fare niente".

Ha imparato in parte a fregarsene anche delle aspettative altrui, del come ti vedono gli altri, del "questo non si addice alla mia attuale condizione" e a non peritarsi di fare le cose a modo suo con o senza pupa.

Ha appreso ed elaborato tutta una serie di escamotage per facilitarsi le normali operazioni di sopravvvivenza quotidiana.

Ha imparato a non rispondere sempre alla domanda: "Come va?" con la frase "Insomma, sono un po' stanca".

Ha imparato che se i tuoi programmi della giornata vanno a farsi friggere causa maltempo, pazienza. Che se i tuoi programmi della giornata vanno a farsi friggere causa inspiegabile e immotivato attacco letargico diurno della pupa, tanto meglio. Che se i tuoi programmi della giornata vanno a farsi friggere causa mancanza di energie materne, meglio capirlo in tempo e desistere o potresti pagarla molto cara.

Ha imparato che meglio non fare programmi.

Ha imparato a fare attenzione ai particolari e alle sfumature.

Ha imparato che prima o poi le cose vanno meglio, che è inutile fasciarsi la testa prima di romperla e che è deleterio dare ascolto a chiunque abbia voglia di dar fiato alla bocca.

Ha imparato a non dar peso a certi commenti, ma guarda e passa.

Ha imparato a non pensare troppo al futuro, che in qualche modo si farà.

Ha trovato delle alternative di realizzazione e ha imparato ad essere felice così.

Ha imparato anche a infilare una magliettina senza che la testa della pupa vi rimanga incastrata dentro per mezz'ora... mezz'ora di pianti disperati! (Il segreto è infilarla prima dietro e poi davanti, cioè partendo dalla nuca. Sfilarla invece prima davanti e poi dietro, cioè partendo dalla faccia. Lo sapevate già? Beh, io no.)

Magari ogni tanto, come in questo caso, le sembra di aver perso la verve goliardica che la contraddistingue e l'immagine di quella che non deve chiedere MAI.
Ma forse, anche quando scrive queste pappardelle molto Dawson's Creek è segno tutto sommato che impara a fregarsene.
O sarà che ha iniziato oramai la sua lenta e inesorabile nonchè irreversibile metamorfosi da demente totale con velleità da fricchettona a madre in progress pronta a commuoversi a ogni nuovo delizioso ruttino, meglio se accompagnato da rigurgito!

venerdì 18 marzo 2011

Intanto il popolo libico

Questo è Hasuna con la bandiera libica della resistenza, ossia la bandiera ufficiale del Paese prima dell'avvento al potere del Colonnello Mohammar Gheddafi.
Lui ha una faccia da serial killer, del resto non ha nemmeno dovuto sforzarsi tanto per impersonare la parte del guerrigliero ostile al regime, perchè in questo momento è tutto un cipiglio continuo, con rari momenti brevi di distensione delle rughe della fronte quando gioca con la bimba.
La bandiera è artigianale, come si addice alle bandiere da battaglia: è stata commissionata in occasione di una manifestazione giovanile a favore del popolo libico, passata abbastanza inosservata, ed è stata eseguita con maestria dalla nostra artistica amica Bri. Ora campeggia nella Macelleria, dopo esser stata sventolata durante la suddetta manifestazione (sto parlando sempre della bandiera, non della sua artefice).
Penso che una bandiera simile sia una cosa bellissima perchè quello che rappresenta non è tanto un'identità, un'appartenenza, una vana ostentazione di orgoglio nazionale. Questa bandiera rappresenta un ideale, una lotta, un'opposizione attiva, un "vai via: non ti vogliamo più", e un "resisteremo fino alla morte. Facci pure fuori tutti, ma non aspettarti che ti lasceremo passare tanto facilmente".
Non se n'è sentito parlare tanto ultimamente dai nostri tg, ma nel frattempo è passato un mese da quando in Libia sono esplose le manifestazioni di protesta, cui sono seguite quasi subito le feroci repressioni del governo. Nel frattempo niente si è fermato: nel frattempo le bombe hanno continuato a piovere su obiettivi militari, ma anche sui centri abitati, nel frattempo le truppe governative hanno portato avanti la loro repressione della rivolta, ma hanno anche seminato il terrore tra la popolazione civile. Nel frattempo un'intera città, Zawia (questo sì, è stato detto) è stata riconquistata dal Colonnello a prezzo di una terribile carneficina, le abitazioni rase al suolo, la gente presa casa per casa, come precedentemente annunciato, e non si sa neanche bene quanti morti, poichè una volta occupata la città, o quel che ne restava, i corpi e le sepolture sono state tolte di mezzo in fretta e furia, perchè si potesse poi negare qualsiasi cosa. Le truppe governative hanno continuato ad avanzare, aiutate anche dal fatto che avevano dalla loro flotte di aerei che provvedevano a fiaccare a furia di bombardamenti le velleità di resistenza dei così detti ribelli.
Se in un primo tempo sembrava che Gheddafi fosse sul punto di capitolare, cosa che aveva spinto persino i nostri titubanti e più che cauti ministri a sbilanciarsi leggermente a favore della direzione in cui il vento della rivolta sembrava trascinare, ecco che ora sembra riprendere in mano il controllo della situazione, riconquistare terreno e consensi. Ed ecco che i nostri tg iniziano a trovare assai poco interessante continuare a parlare della Libia, oppure diffondono notizie solo parzialmente vere, del resto la crisi giapponese offre il pretesto ottimale per dimenticarci di situazioni che si trascinano ormai da un mese, e che quindi non costituiscono più elemento di novità e interesse.
Posso dire che, sebbene non me ne faccio un vanto, io la situazione in Libia ho continuato a seguirla giorno per giorno, perchè quando Hasuna è in casa, lui rimane appiccicato minuto per minuto ai servizi che trasmettono a riguardo i canali arabi (Al-Jazeera o Al-Arabiya), con l'apprensione che potete ben immaginare per chi partecipa di quelle notizie sapendo che quando si parla di scontri si sta parlando dei tuoi connazionali che combattono, quando si parla di bombe, si sta parlando della tua città devastata, quando si parla di morti, si potrebbe trattare dei tuoi familiari. E come al solito non hai modo di verificare perchè le comunicazioni sono interrotte. Quindi siamo sintonizzati sulle notizie dalla Libia praticamente tutte le sere da quando lui torna a casa fino a quando si va a dormire.

Poi sono mancata per tre giorni, durante i quali sono stata a Roma a casa di mia madre, ed ecco che non ci ho capito più niente.
Il 16 marzo, guardando il telegiornale della sera su La7 apprendo che l'esercito di Gheddafi ha riconquistato tutte le città ribelli e punta verso Benghasi. La notizia arriva in coda al tg, ma proprio all'ultimo, perchè prima trovano più urgente riferire altre ben più rilevanti notizie, come quella che la Lega si rifiuta di cantare l'Inno di Mameli.
Mi prende un colpo, perchè so che tra quelle città occupate di cui si parla c'è Misurata, dove sono tutti i parenti e la famiglia di Hasuna.
Poi sento lui e mi dice che non è vero: che Misurata resiste ancora, che quelle notizie le diffonde il regime, per dimostrare di avere il controllo della situazione e scoraggiare l'intervento estero.
Perchè dunque, mi chiedo, i tg italiani hanno abbracciato e diffuso la versione del regime?
L'Italia arriva in coda alle condanne pronunciate da tutti i Paesi dell'Unione Europea e degli Stati Uniti, tentenna fino all'ultimo, poi finalmente dichiara che Gheddafi "non è più un interlocutore valido", poi ci ripensa, si è esposta troppo, e ora pare che l'ONU non voglia intervenire. Dunque silenzio stampa. Quindi tutti abbandoneranno gli insorti? Il mondo gli volta le spalle? Sono destinati alla sconfitta e il dittatore criminale resterà al suo posto?
Stanotte le Nazioni Unite hanno votato il sì per la No Fly Zone. Ci hanno messo appena un mese, ma almeno questa è fatta. Peccato che il signor Gheddafi se ne freghi, e continui a bombardare.
Manco a dirlo l'Italia si è affrettata a mettere le sua basi aeree a disposizione delle operazioni militari: come sempre quando una decisione è presa da altri si accoda, e fa pure voci come se il suo ruolo nel prenderle fosse stato detrminante.
Ora le mie conclusioni: non è che voglio essere polemica a tutti i costi. Ho gioito per la decisione di stanotte all'ONU, non ci speravo nemmeno. Certo, se magari riuscissero anche a farla rispettare questa tanto sofferta No Fly Zone sarebbe meglio! Cosa aspettano? Che il signor Colonnello abbia il tempo di sterminare per bene il suo popolo? Credo che in alcuni frangenti la tempestività d'intervento sia fondamentale perchè questo possa avere un senso.
Amo il mio Paese, per quanto non vado fiera di molte cose. Nella fattispecie l'Italia ha dimostrato una volta di più di non saper prendere una decisione chiara in merito ad eventi urgenti e gravi, di non sapersi schierare prima di aver constatato quale fazione sia favorita dagli eventi, di non basare le proprie decisioni sulla valutazione di principi che dovrebbero animarne la linea di condotta, quali il rispetto dei diritti umani, la difesa della libertà e della democrazia, ma esclusivamente sui vantaggi o gli eventuali svantaggi conseguiti. Forse è così che si tratta di politica internazionale, e io sono un'ingenua idealista, ma sputtanarsi come hanno fatto i nostri governanti in questa occasione non reca certo onore al Paese. Parliamo del governo, ma dubito che i rappresentanti della nostra opposizione, tanto diligenti del criticare e deprecare sempre e comunque qualsiasi affermazione o posizione del suddetto governo, avrebbero adottato una condotta migliore trovandosi in questo stesso frangente, per quanto il beneficio del dubbio si concede sempre.
Nell'anno dei festeggiamenti del 150° anniversario dell'unità della nostra Nazione, festeggiamenti che sono divenuti oggetto di infinite quanto oziose discussioni, perchè è proprio di questo Paese alzare polveroni sul nulla e perdersi in un bicchier d'acqua invece di fronti a questioni ben più concrete, il nostro Paese evita di prendere posizione quando a combattere per la propria libertà e per la propria indipendenza è un altro popolo, un popolo che è legato al nostro da vicende storiche tristi, che sarebbe prefribile dimenticare, un popolo che i nostri governanti hanno voluto considerare alleato finchè è convenuto, un popolo che ha dimostrato di essere giovane e attivo, consapevole della propria forza, coraggioso e fermo nei propri ideali fino ad affrontare infinite sofferenze nel corso di un lunghissimo mese di abbandono a se stesso.
Mi sento un pochino orgogliosa di questo popolo che non è il mio, ma al quale comunque mi vedo in qualche modo legata, perchè ci ho visto l'entusiasmo della rivoluzione capace di resistere e sfidare la forza bruta della dittatura. L'orgoglio di sventolare una bandiera che ci si è scelta, da contrapporre all'odiato drappo verde del regime. E un pochino lo invidio, questo popolo, dalla prospettiva di un mondo che invecchia, il nostro, stanco di rivoluzioni passate e perse, di sistemi che si sono ricostituiti, di diritti violati impunemente e di totale perdita di consapevolezza, chiusi nelle nostre case senza essere cinti d'assedio, davanti ai teleschermi che ci raccontano quello che gli pare.

P.S.
A proposito di bandiere: ho trovato un'interessante pagina che spiega per benino le varie evoluzioni della bandiera libica. Direi che in poco più di un secolo la Libia ne ha viste di tutti i colori! (Ah ah ah!)