lunedì 9 gennaio 2012

Libia und liebe.

Ecco come rinominerei questo blog, forse, se mi dovessi un giorno trasferire il Libia, senza mutarne, in un certo senso, lo spirito minchione.
Era solo un'ipotesi scevra da reali basi, eh!
Ma visto che sta approssimandosi la nostra preannunciata e controversa partenza per quei lidi, pensavo di poter temporaneamente assumere questa dicitura, nel congedarmi, nuovamente, da voi.
Detesto quando i saluti si protraggono oltre il segno della decenza.
Quando dopo accorati discorsi e addii il treno non si decide a lasciare la stazione e tu stai lì, al finestrino, come una scema, a fissare quelli che, sulla banchina, hanno smesso da un pezzo di farti ciao con la mano e aspettano imbarazzati il momento di potersene tornare alle faccende di loro ordinaria amministrazione, archiviata la cartella "saluti".
Ma è così che va, quasi sempre.

Dopo avervi reso partecipi (in parte) delle mie tribolazioni, siamo infine giunti al punto.
Per fortuna, recita la pubblicità, che c'è l'Unità di Crisi della Farnesina, ma nel mio caso, per fortuna che ho un fratello che sa sempre indicarmi quale sia la mossa giusta da fare.
Per fortuna che c'è l'Unità di Crisi della Farnesina, e Ergino!
Tranquillizzatami sul fronte disordini, mi sono messa in contatto telefonicamente anche con l'ambasciata italiana a Tripoli, alla modica cifra di 20 €, ma non ne rimpiango un centesimo.

Non volendo aggiungere altro sul viaggio che stiamo per intraprendere, il mio pensiero va all'altro mio viaggio, all'altra Libia che conobbi, di cui da tempo avrei voluto parlare qua.
Non l'ho mai fatto, con rammarico me ne accorgo ora, che aspettare ancora significherebbe non poterlo fare più.
Ma per evitare che i ricordi vecchi vengano spazzati via e resi vani da quelli nuovi, vorrei, come ultimo atto di congedo, lasciarvene qui una traccia.

Traccia del nostro lungo viaggio, da una parte all'altra del vastissimo Paese, in più tappe, cambiando spesso modalità e mezzo di locomozione, cambiando idea, cambiando programma, sprovveduti e incauti, senza reale consapevolezza di ciò che avremmo incontrato, non è stato facile. Non è stato proprio come ce lo figuravamo in partenza.
Ma forse anche meglio.

Fotografie scannerizzate, dalla mia vecchia reflex analogica mi aiutano a focalizzare momenti.
La nostra tenda piantata in mezzo al nulla, sulla costa del golfo di Sirt, la terra rossa, lo stato d'animo baldanzoso e spaccone dei primi giorni. L'eteronazionalità del nostro gruppo, la sensazione di avere infinito spazio e tempo da gestire davanti a noi, che presto sarebbe stata frustrata dalla realtà, dai controlli multipli e tignosi, dai fermi, dalle multe, dalle tabelle di marcia insostenibili, dal ritrovarci a vagare per lande semidesertiche senza sapere dove fermarci né dove arrivare, e in fondo, nel profondo est, fare dietro front e ripercorrere a ritroso gli 800 km macinati per tornare a riveder le stelle...




Il ricordo di quell'anziano guardiano che a Qasar Libia ci accolse con un té prima di condurci nelle viscere di un passato che non avresti immaginato così tangibile, disperso in quella landa di nulla,  un'antichità che ci regala brandelli della sua arte, testimone della decadenza imminente del classico, ma anche della vitalità contaminata e innovativa tipica delle zone di provincia...


Gli incantevoli profili delle sue città archeologiche, Shahat (l'antica Cirene) declinante verso il mare, erme decapitate dai secoli, piazzate lì, in mezzo al paesaggio incolto di rovine e sterpaglie, senza più ragione di essere.


 E poi il nostro affascinante incontro con la berbera Kabaw, e i suoi granai-fortezza, il ragazzo che ci ospitò a casa sua senza sapere chi fossimo, che ci parlò la lingua berbera e che ci fece conoscere il dolore di chi è privato della libertà di esprimere la propria cultura in casa propria.
Ricordi anche assai meno poetici, dell'intossicazione che ci provocò quell'andata on the road a base di kbab e shaorma piccanti, e le conseguenze nefaste per i gabinetti del nostro ospite...






Ah: le foto in bianco-nero non sono un vezzo da fotografa esperta. sbagliai solo ad acquistare i rullini allo spaccio. Ecco perchè costavano tanto poco...
Devo dire che il risultato di tale errore non mi spiacque affatto (anche se non saprete mai il colore dei granai di Kabaw).

...o del teatro di Leptis Magna!


Scoprire tesori insperati sepolti tra chilometri quadrati di deserto: il perpetuarsi di tradizioni, la padronanza della tecnica, la cultura nelle mani, il lavoro incessante, in piena estate per l'inverno che verrà, altri ritmi da quelli che conoscevamo noi, la bellezza dell'età annidata tra i solchi di una fisionomia...


Il mercato di Tripoli e i suoi colori, la sua sovrabbondanza, i suoi odori, ovunque.




E infine l'immenso deserto, che noi chiamiamo Sahara, senza sapere che in realtà lo stiamo chiamando semplicemente Deserto...



Del deserto ricordo la sensazione di infinito, di libertà mai provata prima, di pace, di paura, quando lo scrutavi di notte, cercando la linea dell'orizzonte e vedevi solo buio, infinito di fronte a te, un po' come quando, di notte, guardi il mare, dal traghetto, e capisci di non essere niente.
E il cielo stellato, sopra, come non lo avrei mai più visto, in nessun altro luogo, immenso, anche lui, profondo, parlante quasi.

Impossessarci dello spazio, e sapere che non l'avremmo mai posseduto tutto, le sagome dei tuoi amici perse nella vastità di un orizzonte ininterrotto.




Wadi Matkandush. L'emozione di trovare anche qui, tracce del passaggio di civiltà remote, remotissime, di cui forse non avevi mai sentito parlare, ma capaci di concepire l'arte.



L'abbandono rovinoso della città fantasma Germa, edificata col fango, un tempo avamposto di una potente civiltà nomade, la stessa per la quale la presunzione romana dovette arretrare, barricandosi dietro l'alibi "Hic sunt leones".
Dai Garamanti, all'idiozia del colonialismo italico, di cui rimane qui traccia beffarda, di una cava in mezzo al deserto, presto abbandonata: risorse irrisorie, che non valsero certo le ragioni di un'invasione militare. I pozzi di petrolio avevano ancora da venire...


E infine la meraviglia delle oasi.


...prima del ritorno alla civiltà.

Allora sapevo che non avrei più avuto tante occasioni per vedere ancora un cammello su un pick-up...
La foto ci stava!


Qui eravamo a Tawarga, una delle ultime tappe di una vacanza agli sgoccioli, intensa, irripetibile.
Chissà cosa ci aspetta, ora.

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domenica 8 gennaio 2012

Alberi della memoria.

Le nostre vacanze romane volgono ormai al termine, in ogni caso.
Questo ponte della Befana che per chi lavora ha significato un colpo di coda delle ferie, per noi è stato solo un prolungamento, apprezzato.
Nel fine settimana ci siamo moltiplicati, e la casa di mia madre si è riempita di figli e gatti (per sua somma gioia), visite di amici in vista del prossimo congedo e amici di figli birrai, intenti a birreggiare in garage. A volte rimango ammirata dalla tollerante pazienza di mia madre di fronte alle invadenze di noi pargoli cresciutelli... soprattutto quando considero con quale sollievo abbia salutato l'avvento dell'era post-gatti e di come invece di buon grado abbia accettato che casa sua divenisse ricovero temporaneo per i nostri.
Comunque, approfittando di un tepore più autunnale che invernale, come del resto confermano le tenaci foglie dorate ancora saldamente ancorate ai loro rami di origine, ci concediamo l'ennesima passeggiata mattutina nel piccolo giardino condominiale antistante, dove a dispetto dei colori autunnali l'erba sottostante già lascia spuntare qua e là le prime pratoline, che la pupa raccoglie a tappeto. Come dire: da una mezza stagione all'altra.
Mi stupisco sempre di come gli alberi siano in grado di modificare i luoghi.
Ripenso al post di un'amica blogger, e ai suoi auguri di "tanti alberi".
Qui, in questo piccolo pezzo di terra, ce ne sono soprattutto tre, alla cui presenza si lega il mio ricordo.

Quercia
Che conobbi querciolo, e ricordo esile fuscello arboreo che non avresti stimato capace resistere una stagione.
Ma io di arboricultura non me ne intendo, si vede che mi manca la pazienza di aspettare.
E ripenso alla "Storia di una quercia":
"Chi mi ha dato il luogo penserà anche al tempo"
A Natale abbiamo preso l'abitudine da qualche anno di scambiarci memorie. Un modo per costruirci insieme una memoria familiare comune, forse, un terreno fertile per accogliere nuove energie vergini (nuovi virgulti, dovrei forse dire per completare la metafora). Un racconto, una lettera, una serie di foto, memoria da tramandare, da rendere oggettiva, per dare spessore a quella individuale.

Pino
Che conobbi pinolo, dentro un vaso, su un terrazzo all'ottavo piano, e che poi trapiantammo qui, col cambio casa. Di dieci, tre superstiti, ma non diresti mai che erano quei semi, quel tronco che oggi la pupa abbraccia, accarezzandone la corteccia, su cui accosta l'orecchio per udirne la voce...

Resti della mimosa
Che ricordo frondosa e odorosa: una sparata di giallo davanti alla finestra della nostra cucina, in primavera, poi un grottesco mezzo cadavere: rinsecchita per la metà, si vede che qualcuno ne aveva recise le radici da un lato... forse. Fatto sta che poi l'abbatterono, ed ora la pupa vi fa palestra di esercizio dei suoi diritti naturali al selvaggio, allo sporcarsi, al contatto col mondo naturale.

Ulivo.
Che forse confondo con un altro piccolo ulivo, che tenevamo in vaso, davanti al cancello del giardino, ma di cui ricordo soprattutto il sapore delle olive sotto sale, di cui mia madre rifornisce ogni anno cospicuamente le nostre dispense e quelle di parenti e conoscenti. E di cui lei va ghiotta!

Alberi. Nel loro lento, paziente, ciclo vitale, il tempo sembra assai più evidente che nel nostro. Perché loro appaiono immobili, e la loro memoria assai più duratura, contenuta nel loro stesso esistere.
La nostra, invece, sfuma nell'indefinito, e confonde immagini e sovrappone momenti, e tralascia periodi che ritiene poco significativi. Forse è perché perdiamo il contatto con le nostre radici, e non sempre sappiamo approfittare dei momenti di quiete per rigenerare in noi nuova linfa vitale.
Qui tempi morti non sembrano esistere.
E in sé custodiscono memorie di più vite.

E ancora mi stupisco di come gli alberi siano in grado di modificare i luoghi.

venerdì 6 gennaio 2012

Cara Suster ti scrivo.

Cara Suster,
ti scrivo così mi distraggo un po'.
E magari distraggo un po' anche te.
Sai, ripensavo a quel tuo post sui capodanni passati, sulla necessità di sdrammatizzare.
Solo che poi te ne sei uscita con quell'altro, quello che ambiziosamente hai intitolato "Il grande passo" e che nelle tue migliori intenzioni avrebbe sancito una tua finalmente decisa presa di posizione sull'annosa questione "viaggio in Libia oppure no". E invece, ecco che dopo aver espressamente chiesto ai tuoi lettori di incoraggiarti e rassicurarti, ti sei quasi spaventata della quantità di risposte positive date a cuor leggero e dall'entusiasmo altrui per la tua prossima partenza, e in men che non si dica hai fatto dietro front. Forse che nel chiedere agli altri appoggio ti aspettavi magari che arrivassero inviti alla prudenza?
Guarda, non si fa così. Non ti sei rivelata molto coerente, tanto per cominciare, e nemmeno attendibile. Ci hai perso in credibilità.
Quindi ora, da lettrice quale sono, rivendico i miei diritti a un'informazione chiara,e  ti chiedo pertanto di evitare in futuro di affiggere manifesti che preannuncino eventi sensazionali della tua vita privata, per poi ritrattare subito dopo. Mi sorge il dubbio che sia una strategia di scooping... (neologismo?)
Ma non voglio insinuare che ci fossero sotto tali bieche intenzioni da parte tua. Ti concederò il beneficio del dubbio.
Credo solamente che dovresti reagire un tantino meno emotivamente e più razionalmente ai fatti che ti accadono, e abituarti a prender risoluzioni chiare e motivate, senza tentennare all'infinito, pentendoti di continuo dell'ultima presa.
Ponitelo come obiettivo per il nuovo anno, magari, che è tanto di moda porsi degli obiettivi in questi casi.

Comunque ti scrivevo in primo luogo perché mi era venuta voglia di partecipare al tuo minicontest con un mio ricordo di capodanno.
Così, magari ti aiuto a sdrammatizzare anche la tua attuale situazione.

Ti ricordi il capodanno del 2000?
Ah, quante aspettative!
Quello fu senz'altro uno dei più tragici passati insieme (c'eri anche tu, ricordi?).
Se dovessimo annotare su un grafico la relazione esistente tra aspettative ed esiti tragici, noteremmo che questi ultimi sono in misura direttamente ed esponenzialmente proporzionali alle prime.
Ma comunque: avevamo deciso di andare al mega concerto dell'ultimo dell'anno, se posso rinfrescarti la memoria. Quello che si teneva sempre in piazza del Popolo e che vedeva quell'anno, come principale attrazione della serata la performance di Ligabue, che, vabbé, sempre meglio di Lunapop.
Si andò in tre, tre amiche, e prevedevamo, dopo la mezzanotte e i debiti festeggiamenti in piazza, di ritirarci per concludere in bellezza la serata, in un locale lì su via Nazionale o giù di lì, quello triste, che esponeva fuori l'armatura... Ti ricordi come si chiamava? Io no. Chissà poi se esiste ancora.
Ti ricordi poi come andò?
Grande, colossale massacro. Bottiglie che volavano, petardi che esplodevano da qualche parte tra la folla suscitando brevi ma intense ondate di panico, che generavano moti alterni della marea umana in varie direzioni, per opporsi alle quali, occorreva non abbassare mai la guardia, tenere i muscoli ben tesi, e le gambe ben piazzate in terra, le mani strettamente ancorate a quelle delle amiche, per non perderci nel mare di gente.
Che poi, va be' che a capodanno i cellulari non prendono mai, soprattutto in mezzo a  tutta quella concentrazione di anime e di rimbalzi satellitari, ma tu all'epoca nemmeno ne possedevi ancora uno. Cioè: io.
Ricordi la paura che una botta ben assestata al fondo della tua bottiglia di birra potesse farti saltar d'un colpo gli incisivi mentre ti abbeveravi alla sordida e tiepidiccia fonte di ambrato nettare, in quella selva di braccia e gomiti esultanti?
Ricordi la puzza di spumante esploso prima del dovuto e birra rappresi addosso ai tuoi abiti fumanti di condensa umana che ti appestavano già ben prima della mezzanotte e quella degli aliti alcoolici dei tuoi compagni di festeggiamento (emeriti sconosciuti) a distanze che raramente avresti potuto sperimentare più così ravvicinate?

Per farla breve, ci siamo disperse. E' successo tutto allo scoccar del nuovo millennio. Gran casino. Impossibile arrestare o anche solo opporsi alle travolgenti correnti umane contrarie e inarrestabili.
Quando, dopo un'oretta, la situazione cominciò a diradarsi, e tu eri riuscita a portarti ai margini della piazza, dove un'umanità sofferente e in lacrime si faceva soccorrere dai volontari della Croce Rossa e ambulanze varie, hai preso atto, con scorno, che non vi eravate date una punta in caso di smarrimento, e dopo aver atteso in vano per un'altra oretta le due amiche disperse aguzzando la vista nel marasma fumante e barcollante, hai preso una delle poche risoluzioni sensate della tua vita: ti sei diretta al pub dove avevate programmato di concludere insieme la serata, credendo che anche le altre due avessero formulato un simile, ragionevole, pensiero.
Ricordi quanto tempo hai impiegato a percorrere quel relativamente breve tragitto?
Ricordi quante ore hai poi atteso fuori dal pub al freddo dopo aver inutilmente chiesto più e più volte alla cameriera se aveva ricevuto notizie delle tue sciagurate compagne di ventura?
E che poi sul far del mattino ti sei rassegnata a fermare i passanti per strada implorando che ti prestassero il cellulare per fare una chiamata e come disperatamente poi cercassi di contattare tua sorella Gunchina perché venisse a raccattarti?
Fortuna che, alla fine, sei riuscita a rintracciarla. Non era il millennium bug, era solo un piccolo ingorgo di linee.

Insomma, ecco. Questo è stato il mio ricordo tragicomico.
Da cui l'ammonimento: mantieni i contatti, mantieni la lucidità, non vergognarti mai a chiedere aiuto, anche implorando, se è il caso.
Mi fai partecipare o lo consideriamo un semplice fuori concorso?

Spero che la tua dissociazione psichica si risolva presto in una felice riunificazione delle parti.
Quindi, non costringermi a scriverti più.
Imbuco questa mia o va bene se te la pubblico qui?
Tanto chi vuoi che la legga...

mercoledì 4 gennaio 2012

Il grande passo.

Ok, credo che sia giunto il momento di prendere coscienza.
Penso che non averne parlato finora che per accenni sibillini e vaghi sia stata solo l'ultima manifestazione dell'implicito rifiuto del mio cosciente alla presa d'atto che lo stiamo per fare davvero.
Come la nostra cronica mancanza di scadenze, l'incertezza fino all'ultima ora, il partiremo-non partiremo che si è protratto fino all'ultimissimo giorno, procrastinando ogni decisione a un poi imprecisato, quando le cose saranno più chiare, quando avremo le risposte, quando saremo pronti. Allora sarà il momento di prendere coscienza, di calarci nel ruolo di viaggiatori, fare armi e bagagli e affrontare lo spauracchio, l'incognita del viaggio.
Ma fino ad allora, come convincerla, la tua coscienza, di ciò? Come metterla alle strette e costringerla a fare i conti con l'immediato salto nel buio?
Perchè è così che lo sento, ora, ed ammetto che per una certa porzione è paura dell'ignoto, per un'altra è un'incredibile senso di liberazione, sollievo, come un dente da levare, che se non lo fai rimane lì, e anche se a volte puoi non pensarci, ecco che il dolore rispunta a rovinarti tutti i momenti più dolci, i sacrosanti piaceri del palato.

Insomma, lo dico? Perchè anche il dirlo ora rende questa immediatezza un po' più immediata, più concreta, ed io ho bisogno di prepararmi mentalmente, ché non ci sto dentro alla consapevolezza del viaggiatore, e un poco invidio quando leggo di quelle viaggiatrici indefesse per le quali ogni nuovo partire non si carica di altro che dell'emozione del nuovo, e per le quali tutti i preparativi e le incombenze ad esso correlati non si riducono che a poche semplici, trascurabili, faccende di routine.

Andremo in Libia.
Ecco, ce l'ho fatta.
Abbiamo ottenuto i biglietti dall'ambasciata, ultima colossale fatica. Abbiamo ottenuto i visti sui passaporti, miei e di pupa. Abbiamo, prima, ottenuto il passaporto di pupa. Abbiamo risolto l'annoso problema delle fototessere di pupa, alla quale la cabina fotografica procurava inarginabili accessi di pianto disperato. Abbiamo atteso, per essere sicuri che la situazione si fosse veramente tranquillizzata, ristabilita, che i rischi fossero ridotti al minimo, e nonostante tutto non riesco a cacciar via quel sentore d'ansia e paura che qualcosa di brutto possa accadere, non tanto a me, quanto a lei, lei che non può decidere, lei che dipende in tutto e per tutto da me, da noi, dalle nostre scelte anche per lei.

E poi mi dico: ma su, devo smetterla, di farmi paranoie senza avere nemmeno cognizione di causa. Magari non c'è davvero alcun rischio reale, e devo, una volta per tutte, sfatare queste paure irrazionali, andare, con la dovuta prudenza, è ovvio, ma insomma, non è mica che partiamo per la guerra.
No, dice l'altra, partiamo solo per un paese che era in guerra fino a tre mesi fa. E le mine? E le armi? E se fosse tutto intossicato dal plutonio? Un paese distrutto, devastato, reduce da massacri... che ci vai a fare?
Poi la doccia fredda delle ultime notizie di disordini a Tripoli... eccheccazzo! Di nuovo?
Dicono che sono episodi isolati. Ma proprio ora che ci eravamo finalmente decisi, ecco che non sono più tanto sicura.

Ci avevo provato, anche a perdermi il passaporto.
Non che l'abbia fatto di proposito, ma non ho letto Freud invano. E alla fine, cerca che ti ricerca, è saltato fuori, non senza lunghe ore di angosciose indagini e "adesso chi glie lo dice ad Hasuna, che era così felice di essere finalmente riuscito ad ottenere i visti!" Tutto a puttane? Perché la casa di nonna ingoia gli oggetti, e raramente li restituisce al legittimo proprietario. E invece no: stavolta l'ha risputato fuori...

Insomma, per farla breve: partiremo (partiremo?!). Lunedì o, al più tardi martedì, perchè dalle cose libiche c'è bisogno che ci fai l'abitudine, non puoi pretendere l'esattezza assoluta, non puoi far conto di poterti fare proprio tutti i conti a priori. Ma già è qualcosa che non si debba partire domani, come era previsto inizialmente, così, su due piedi, quando sono dieci giorni che telefoniamo e ci dicono richiamate domani, domani, lunedì, martedì, venerdì... il colmo sarebbe stato saperlo oggi per domani, con un giorno di preavviso.
Perché io ancora non mi sento proprio "pronta".

E così, care amiche, questo per dire che siamo finalmente in procinto, attrezzati per il grande salto, ognuno con le sue ansie e angosce individuali, io, lui, ma desiderosi anche di mettere finalmente la parola fine a questo lungo, infinito, tira e molla.
E per dirvi che probabilmente starò lontana dall'Italia e dal blog per un tempo lunghetto. Ché ci tengo, io, ai commiati.

Però magari, se riesco, vi mando una cartolina da laggiù, eh! E cerco un regalo per la vincitrice del minicontest di capodanno.

A proposito: visto che parto, vi propongo un sondaggio (vedi a lato).
Aiutatemi a scegliere se preferite che lo stupido minicontest "Chi ben comincia" termini già domenica, prima della nostra partenza, o a fine gennaio, al nostro ritorno. Perché in mezzo io non ci sarò.
Sarà pure una fesseria, ma ho bisogno di sdrammatizzare.

E ditemi, per favore, che sono scema a preoccuparmi tanto e che andrà tutto benone, che la pupa giocherà con i suoi zii e conoscerà la nonna libica, e mangeremo cuscus e non ci intossicheremo, e non ci stresseremo, e staremo al caldo mentre voi, qui, ancora nel bel mezzo dell'inverno del vostro scontento... Ecco: fatemi vedere i lati per i quali la mia condizione possa sembrare invidiabile, e non un atto di incoscienza, perchè, credetemi, sono mesi che mi ci arrovello, e che ne discutiamo, e ora non ne posso proprio più.

martedì 3 gennaio 2012

Chi ben comincia.

Allora, ricominciamo.
Il mio post di benvenuto a questo nuovo anno è stato piuttosto... come definirlo? Autistico?
Sì, be', un po'. Vi ho raccontato il mio scoppiettante primo dell'anno, ma mi son dimenticata di augurare a tutti voi che passate di qua, tutto il bene che ordinariamente si augura ad ogni nuovo inizio.
E' solo che gli auguri oramai arrivano in tante e tanta salse che non si sa più cosa dire per non allinearsi e sembrare scontati e banali, e poi: bla bla bla, felicità, forza, coraggio, affrontare le novità di ogni nuovo giorno... Non che non ve le auguri di tutto cuore, ma quello che davvero vi auguro è di ridere a crepapelle, di ridere tanto, di riuscire sempre a trovare l'aspetto leggero della vita, e di riuscire a minimizzare, a non prendervi troppo sul serio, qualsiasi sfiga vi possa mai intercorrere, che tanto, si sa, gli auguri servono a poco, eventi storti si presenteranno all'appello, mischiati a quelli felici, e l'unica è non soffocarsi nei grugniti e versare bile, sommergersi nell'astio, consumarsi nel livore, rodersi di stizza, logorarsi di rancore e languire nell'autocommiserazione.
A questo proposito ho avuto un'idea che definire geniale sarebbe quanto meno riduttivo.
Ripensavo all'altra sera, la sera del 31, che guardavamo quella parvenza di fuochi dalla finestra, io e Gunchina, mia sorella, e riandavamo con la mente ad anni passati.

- Gunchì, ti ricordi (ah ah ah!) quel capodanno che (Ahahahahaha) siamo andate (Wahahahahaha!) a quella festa...
- Ah, sì! Che tristezza! Ahahahahahaha!

E via così, tra una risata  e l'altra, a rivangare quella storia, che finché son viva, rimarrà forse uno degli episodi più esilaranti relativi ai miei capodanni.
Ma se aspettiamo ai tempi di esposizione di noi due, che, intanto, tra una frase e l'altra, non riusciamo a soffocare le risate, non si finisce più.
Ve la racconto io, come andò.
Si era, mi pare, nell'entrante 2001... ma potrei sbagliare.
Siccome, come al solito, l'ansia e l'oppressione del "dover far qualcosa" per l'ultimo dell'anno aveva iniziato a tormentarmi da settimane, assumendo la forma dei soliti sondaggi che sul far di dicembre iniziano a pioverti addosso da più e più parti, avevo infine deciso di accodarmi a mia sorella, e a una di lei amica (ma pure amica comune), che per non sputtanare qui chiamerò Alessia...
Alessia dunque, ci aveva propugnato la possibilità di imbucarci in una fantastica festa di amici suoi simpaticissimi che trovavasi un pochino fuori Roma, ma dove non riuscirei a dirvelo, ora... credo verso Albano, ma nemmeno allora mi pare che la location ci fosse troppo chiara, visto il tribolare che ci costò arrivare fin lì, nel buio pesto di una notte con pochi lumi, su di una strada provinciale a due corsie decisamente sprovvista di illuminazione.
E così ci imbarchiamo, in macchina in cinque: io, Gunchina, l'allora suo ragazzo, Alessia, e l'allora mia amica assidua M., amicizia poi naufragata.
Poiché trovare questa casa persa nella campagna romana fu un percorso lungo e accidentato, e credevamo già che avremmo trascorso la mezzanotte in quell'abitacolo, spersi in qualche dove nell'agro romano, la solerte Alessia manteneva un costante e incessante contatto telefonico con la sua amica, nell'intento disperato di guidarci fino a lei.
- Barbara, allora, siamo all'altezza di...
- Barbara, ma dove dobbiamo andare? No, quello l'abbiamo già superato da un pezzo! Ah, dobbiamo tornare indietro?
- Barbara ci siamo quasi, aspettaci all'ingresso del giardino.
- Barbara, ecco, ti vedo!
Questa Barbara trovavasi nel ruolo di fidanzata di vecchia data dell'amico organizzatore della festa, nonché amica essa stessa (un'amicizia che comprendeva l'intera coppia) della nostra navigatrice Alessia.
- Barbara, ragà, è proprio simpatica, ora vedrete... Barbara, ciaoooo!
Dice lei scendendo dall'auto e sbracciandosi per farsi vedere.
Quando infine, parcheggiati e scesi, ci infiliamo in casa, si svolge la seguente scena:
- Barbara! Come stai? Quanto tempo! Finalmente ci si rivede! Ma... ti sei tagliata i capelli?
- Ehm, no: ho cercato di dirtelo... io non sono la Barbara che hai conosciuto tu. Sono un'altra Barbara...
- Ma.. tu sei la ragazza di... (scusate, il nome di lui proprio non ricordo) Sei Barbara, no?
- Mi chiamo Barbara, ma sono UN'ALTRA Barbara...
- Ma scusa, Barbara, non ti ricordi di me? Ci siamo conosciute a...

Insomma, lei non si dava proprio per vinta.
Trasciniamo via Alessia in completo stato confusionale.
Certo che la coincidenza è stata pazzesca. Che il tipo, lì, dico, abbia avuto una di seguito all'altra due ragazze di nome Barbara, e che soprattutto non si fosse premurato di avvertire del cambio della guardia.
Questo dunque il nostro ingresso trionfale.

La situazione degenerò presto e si capì subito che era critica.
Riassumibile così: noi rinchiusi in una casa sperduta non si sa bene dove nel buio di una campagna altrimenti deserta, ospiti per equivoco di gente che nessuno conosceva, in compagnia di un'altra ventina di persone che ricordo essere tutti sulla quarantina (ma potrebbe anche darsi che la mia giovane età me li facesse vedere più vecchi di quanto in realtà non fossero), tutti affossati su una sedia o una poltrona, con qualcosa in mano da bere o mangiare, un generale clima di affettata allegria, dimessa tristezza, mutismi e silenzi imbarazzanti, nell'attesa di intavolare un maxi torneo di giochi da tavola a squadre. Impossibile scappar via prima della mezzanotte: ci siamo adeguati alla generale festosità regnante intorno a noi, abbiamo giocato a mimi e Trivial, scambiandoci occhiate eloquenti e disperate, abbiamo sorseggiato un fragolino frizzante da nausea, abbiamo atteso lo scoccar dell'ora x per uscircene in giardino a sparare quattro fuochi e buttar lì una scusa per svignarcela.
Mentre Alessia continuava a farfugliare tra sé: "Barbara? Ma come? Abbiamo parlato al telefono per ore... Io pensavo... ero sicura... Barbara..."
Non fu facile per lei riprendersi.

Ecco, io oggi, a distanza di più di 10 anni, posso dirmi felice di quella serata, perché se non l'avessi passata in quella maniera assurda, ora non avrei quell'esilarante ricordo da condividere, ridacchiando, anzi, sganasciandoci, con mia sorella Gunchina.
In effetti i ricordi migliori da rievocare in compagnia, non sono quelli delle serate perfette, delle vacanze perfette e riuscitissime, organizzate in maniera impeccabile e prive di imprevisti e situazioni paradossali, ma proprio quelli a metà tra il tragico e il comico, anche se inizialmente pare prevalga il tragico, per poi sciogliersi nella memoria nel comico puro.

Allora vi chiedo: sdrammatizziamo 'sta cosa della serata fantastica, della festa riuscita a meraviglia.
Volevo proporvi una specie di outing: avete voglia di raccontarmi il più tragicomico dei vostri capodanni?
Dai, che lo so che ce l'avete anche voi, la storiella nel cassetto.
Secondo me sono le migliori, quelle che lasciano il segno, peccato che, come il vino buono, richiedano tempo per poter essere apprezzate.
E siccome questa cosa dei giveaway secondo me dà anche un poco di assuefazione, facciamo così: lasciate un commento a questo post, o, se vi pare, scrivetene pure uno voi sull'argomento "Chi ben comincia".
Il racconto che riterrò più meritevole verrà da me premiato con un premio adeguato, che però non chiedetemi ora di rivelare, perché non lo so.

Un brindisi a chi ben comincia!
Ma anche a chi comincia male, e recupera poi.

Cin cin!





lunedì 2 gennaio 2012

La piccola gattara (ovvero: come le fissazioni dei genitori possono plagiare una giovane mente)

Ognuno ha il proprio destino scritto nelle stelle.
Ovvero: se hai la disgrazia di nascere da una madre maniacalmente, ossessivamente e continuativamente circondata da piccoli felini domestici, beh... il tuo destino è segnato.
Questa che stiamo per raccontarvi è la storia di una piccola gattara*.

La sventurata bambina, in tenerissima età, fu abbandonata dagli sciagurati genitori su di un materasso, e adottata da una colonia di gatti domestici che su quel materasso risiedeva stabilmente.
Fu così che crebbe nella convinzione di essere una di loro...


Non aveva sonaglini come tutti gli altri bimbi della sua età, ma solo code da afferrare e tirare con vigore, che però, ahimè, non producevano alcun delicato tintinnio, ma solo miagolii sguaiati e minacciosi al suo indirizzo.
Ma lei non se ne crucciava.



Possedeva, altresì, un grazioso peluches, da cui non si staccava mai: lo imboccava, lo abbracciava, lo scuoteva, lo ninnava cantando "Ni-oh! Ni-oh!", insomma, si comportava con lui come la maggior parte delle bambine "normali" sono solite fare con la bambola preferita.
Il suo nome era Gà, ma poi, col tempo divenne anche Gatto.

Col tempo la piccola gattara imparò a conversare con disinvoltura con i piccoli felini. Conosceva a perfezione la sintassi di quella lingua fatta di "Nain!" e, più tardi, di "miao" e "mià!".


Non sapremmo dire però come e quanto i felini la comprendessero realmente e quanto l'assecondassero...

Ovunque la conducesse il suo girovagare, la sua prima preoccupazione e il suo primo pensiero, era di scovare e raggiungere in quel luogo, la popolazione felina ivi presente. E ci riusciva sempre.


Ma malgrado il suo carattere avventuroso, la bambina manifestò ben presto una chiara predilezione per le lettere, non indietreggiando di fronte alla lettura di testi anche decisamente impegnativi...



Letture in cui trovava di poter riscontrare bizzarri e curiosi paralleli con la sua vita reale, come l'inspiegabile riferimento in chiusura di volume alla coppia dei suoi Mentori giovanili: Zorro e Panzumen!


Tutto questo però prima di incontrare lui, il suo VERO amore...


AMLETO!
 
 Si erano conosciuti un Natale, nel lontano 2011, e fu amore a prima vista: da allora non ci fu più storia per nessuno.
"Ambléto!" Chiamava la bambina per le scale, cercando il suo gatto.
"Ampléto!" Esclamava rimirandolo mentre si rigirava tra le mani la sua immagine stampata.
"Apléto!" Gioiva esultante vedendolo spuntare dal retro di ogni nuova pagina...

E la mamma leggeva... leggeva... e rileggeva, senza tregua, le avventure del gatto Amleto, giusto castigo per chi non sa ponderare le conseguenze nefaste delle proprie sconsiderate azioni...

*Nota (da Wiktionary): Gattara, person (female) who feeds stray cats.
Non so perchè la definizione sia solo in inglese, comunque la trovo alquanto riduttiva.
La gattara non è solo colei che si occupa di nutrire i gatti randagi. Gattara è qualcosa a metà tra una filosofia di vita e una patologia psicotica. Conoscevo di quelle gattare davvero da internare e in cuor mio ho sempre temuto di finire tipo la gattara de I Simpson.
Comunque trovo riduttivo anche il considerare le gattare solo al femminile. Mio padre era una gattara. Non sto scherzando: era iscritto al registro ufficiale delle gattare del Comune di Roma. Non saprei a questo punto se considerarla una tara genetica...

Roba da gatti, la rubrica del martedì.

domenica 1 gennaio 2012

Pausa di riflessione.



Un pochino mi sforzo di scrivere questo post anche se non ho ben chiara l'idea di "cosa" scrivere.
Mi sforzo perché non voglio lasciar languire troppo a lungo questo mio archivio di pensieri e di annotazioni, e di sproloqui e di emerite... sciocchezzuole.
Mi sforzo perché so che tra non molto potrei essere impossibilitata per un tempo indefinito ad accedere a queste mie pagine virtuali, e sarebbe il caso che sfruttassi questi ultimi giorni di relativo relax e libertà per dedicarmici come ordinariamente vorrei fare senza per altro riuscirci.
Mi sforzo perché cerco di attutire il rammarico di non esser riuscita a metter mano a quei post che da tempo mi riprometto di scrivere, che da tempo ho tutti in mente, che rimando, da tempo, aspettando il momento di potermici applicare con calma e presenza, ma niente, rimarranno in cantiere finché non mi saranno venuti pure loro a noia e finché non avrò perso interesse a dar loro una forma reale, a dar loro vita.

Sarà il metabolismo rallentato da tanti eccessi alimentari, dalla digestione impegnativa di una quantità continua e cospicua di dolci assortiti, pregni di uvette e frutta secca.
Sarà la stasi domestica di giornate che si susseguono tutte più o mano uguali l'una all'altra, scandite solo dal sonnellino pomeridiano della pupa e dai pasti, sempre eccedenti.
E così ritaglio tempo tra una pausa familiare e l'altra. Sento la pupa che, al piano di sopra, gioca con la nonna, la vedo mentalmente avvicinare una conchiglia all'orecchio e usarla come un telefono:
"Pottooo! Nonnaaa! Benee!"
La vedo come se l'avessi davanti agli occhi cacciarsi in testa le tende della portafinestra, lavorate all'uncinetto da una zia lontana, e invitare la nonna a cercarla, invocando lei per prima il proprio nome, col suo inconfondibile idioma: "Aminneeee!" Per poi spuntare fuori all'improvviso con un sorriso briccone stampato in viso, come se avesse realizzato chissà quale inimmaginabile scherzo, e ogni tanto la senti ridacchiare anche divertita da sotto quel drappo, compiacendosi della propria presunta invisibilità.

Scrivo perché in fondo sento l'urgenza di siglare in qualche modo una fine e un inizio, per quanto sappia e senta assai più forte la continuità delle feste, di questi nostri momenti passati in famiglia, in un limbo di non-fare, non-inizio di nulla di nuovo, in realtà, e mi sia potuta anche crogiolare nel lusso di non festeggiare, se non a modo mio.
La sera del 31 dicembre 2011 Suster ha iniziato l'opera di addormentamento pupa verso le 10, mentre in tv Herby, il Maggiolino tutto matto deliziava i suoi compagni di bagordi, sorella e cognato, con le sue irresistibili imprese, tanto per dare una nota di svecchiamento anche ai palinsesti televisivi.
E' riemersa a riveder le stelle, e i presunti fuochi, giusto giusto alla mezzanotte meno 5 minuti, piuttosto rincoglionita causa inevitabile suo addormentamento, per empatia, con la bambina che aveva intenzione di addormentare.
Dallo sprofondo della Valle dell'Aniene, nebbiosa pianura acquitrinosa su cui affaccia la casa di nonna, i fuochi di benvenuto al nuovo anno, ci apparivano come lontani puntolini luminosi all'orizzonte, la cui visuale era per la metà ostacolata da matasse confuse e aggrovigliate di boscaglia ramificata e priva di fogliame, ma ci siamo accontentati anche di quel minimalista spettacolo pirotecnico.
Mia madre, che aveva ceduto al sonno assai prima della mezzanotte, ci aveva lasciato sul tavolo una bottiglia di spumante, rigorosamente a temperatura ambiente, e un panettone da inaugurare, ma nessuno di noi tre si è sentito nello spirito e nella disposizione gastrica di consumare quell'ennesimo omaggio al cibo. Ci siamo limitati a giustiziare i pasticcini del pranzo e a brindare entro bizzarri e massicci calici dallo stelo tozzo e fantasioso con due dita di vino frizzante, che avanzava sempre dal pranzo.
Lasciatami sola loro, telefonata di rito ad Hasuna, che è già rientrato alla base, non ho trovato di meglio da fare che buttarmi un po' nel mondo virtuale dei miei contatti blog, con la strana sensazione di aggirarmi per stanze vuote e la consapevolezza che trovarmi lì a girovagare a notte inoltrata per un universo virtuale, quando tutti si aspetterebbero di saperti in compagnia di amici o parenti in carne e ossa, un bicchiere in mano a scambiarsi baci e buoni auguri, fosse cosa altamente deprecabile e anche un tantino vergognosa, forse persino un poco triste, per quanto la sola idea di potermi invece trovare, in quello stesso istante, reduce da un'altra cena luculliana a celebrare rituali che da sempre mi hanno profondamente annoiato, solo per adeguarsi alla generale psicosi da festeggiamento, mi risultasse per la verità assai più triste e meno desiderabile.
Ma se un senso può avere per me vedere ancora una volta iniziare da capo il conteggio dei giorni e dei mesi, in successione nota, di un nuovo calendario, credo che tale senso sia più facile da ricercare nel raccoglimento di una contemplazione solitaria, nel cuore di una notte in cui il sonno ti è ormai scivolato via dagli occhi, e fuori senti ancora rimbombare gli ultimi scoppi dei festeggiamenti tardivi, piuttosto che nel chiasso di un'allegra brigata di gente che non si incontra che per queste occasioni.
Non dico che ciò debba esser valido per tutti.
Lo è per me.
In realtà il tempo non ha cesure, non ci sono bufere o squilli di trombe al principio di un nuovo mese o anno, e persino a quello di un nuovo secolo siamo soltanto noi uomini a suonare e sparare.
Così mi apostrofa, quasi in risposta ai miei percorsi mentali, un libro, ad un'ora imprecisata di notte inoltrata, tra il 2011 e il 2012, e mi chiedo perché mai tante volte si senta il bisogno di rimarcare queste cesure fittizie facendo più chiasso possibile.
Forse perché gli anni non ci scivolino via senza che ce ne accorgiamo?
Forse per convincerci che, basta, da questo momento in poi, BUM, si ricomincia, piazza pulita, niente come prima, aria di cambiamento, esattamente da ora: BUM! Lasciamoci alle spalle errori, insoddisfazioni, attriti, delusioni, inadeguatezze, sensi di colpa, crisi, guerre e cataclismi, e pensiamo positivo: sì, va be', sarà difficile, non lo neghiamo, questo l'ha detto anche il Capo dello Stato,  ma ce la possiamo fare.