domenica 24 marzo 2013

Scontri generazionali.


Sarà il sentore che qualcosa nell'aria sta cambiando, e non hai ancora ben chiaro cosa: nuovi arrivi, nuovi ritmi, mobili nuovi, e il tentativo maldestro di mandarti al nido senza di me... che ha fruttato, mi hanno riferito, pianto disperato fino al vomito...

Sarà pure che di tuo ce li hai 'sti periodi di nervosismo estremo che tutto è no, e se puoi contraddire in qualche modo lo fai, opposizionista della peggior specie con intervalli di frenetica attività ludico-distruttiva,  fautrice di smaronamenti materni vari e gravi attacchi di stress felino...

Vogliamo giustificarti, almeno in parte?
Sarà che 'sto catarro non ti dà tregua, e non riesci a dormire due ore filate senza farti una buona mezz'ora di tosse che sovente degenera pure in svomitazzate varie su lenzuola e pigiamini... e quando uno perde il sonno, in questo ti capisco eh, possiamo anche fargli passare liscia qualche scenata da pazza furiosa...

Sarà pure un pochetto che è arrivata la nonna a casa, e tu, paraculetta che altro non sei, hai capito benissimo come approfittartene, ché quando ti pare è "Nonna! Nonna!" e quando ti pare è "Mamma! Mamma!", e hai capito benissimo che esistono sottili linee di confine oltre le quali non posso andare per non interferire con il vostro rapporto, pena gravi crisi diplomatiche interne, che la vicenda dei Marò a confronto è acqua di rose...

Sarà pure un po' di tutto ciò messo insieme, come suggeriscono i miei consulenti pedagogici a distanza (leggi: zia Gunchina).

Sarà pure, ma...
Ciò non toglie che in questi giorni sei indiscutibilmente una gran rompiballe, e visto che almeno tu per ora non leggerai queste righe, qui lo posso anche scrivere: a volte mi stai profondamente sulle palle, sappilo!

Tipo quando dopo ogni pipì devo rinfilarti mutande e pantaloni e te ne scappi nuda come ti generai in giro per casa e devo andarti a recuperare sotto il tavolo con la panza che mi struscia a terra.

Tipo quando ti divincoli come un'anguilla mentre tento disperatamente di centrarti la testa con l'apposita apertura della canottiera.

Tipo quando perdo mezz'ora buona a tentare di sgarbugliare quella massa di stoppa che hai sulla sommità del capo e che ci ostiniamo a chiamare capelli e quando finalmente (NB: sempre inseguendoti nel frattempo per casa mentre tu corri dietro a Panzumen o dissemini tovaglie in giro) riesco a sbrogliarne fuori qualche ciocca, ti saltano i cinque minuti e in un raptus isterico ti cacci le mani in testa e vanifichi tutto il mio operato al grido di: "Non le voglio le codine!"

Tipo anche quando ti devo ripetere in tutti i modi e fino allo sfinimento di non seviziare i gatti, che alla fine mi auguro che quelli perdano la pazienza e ti castighino a dovere a suon di unghiate, ma nel frattempo temo per l'incolumità dei tuoi bulbi oculari, ché non sei nemmeno tanto sveglia  e dritta come credi di essere, e piazzi loro sempre il viso ad altezza zampa unghiuta, che se io ti dico "non tirare la coda a Panno", tu stringi più forte, che se quello emette penosi gemiti di dolore e panico, tu ridi e ti ci sdrai sopra, che se Zorro se la dorme tranquillo in qualche angolo remoto della casa tu lo soffochi con il piumone...

Tipo quando ti diverti a fare i dispetti, anche autolesionisti, e ti cacci in bocca qualsiasi schifezza, dalle bustine di cellophane ai croccantini dei gatti, dai frammenti delle sorpresine Kinder non adatti a bambini di età inferiore ai 36 mesi  ai sassetti che stacchi dalla suola delle tue scarpe...

Tipo quando ci metto due ore a farti dormire, e dopo storie varie e canzoncine a manetta mi pigli pure per il culo e mi piazzi le ginocchia nello sterno, o mi infili un piede tra le cosce, e un dito nel naso, e mi lecchi la mano, finché non sclero, e quando finalmente riesco a narcotizzarti e riemergo esausta dalla camera pronta a godermi almeno un'oretta e mezza di libertà pomeridiana, dopo mezz'ora sei già di nuovo sveglia e pronta a rompere la palle come prima e più di prima...

Tipo quando è ora di cena e ti impunti che vuoi fare il bagnetto, facciamo il bagno e dici che vuoi ballare, dobbiamo uscire e vuoi vedele Lobin Hood, ci prepariamo per la nanna e alzi la lagna che vuoi andare sull'olopattino...
E se ti devo mettere il pigiama vuoi la maglietta, e dopo 70 pagine di fiabe in filastrocca frigni che volevi tre libri. Dopo i libri vuoi la canzone della palla (per inciso: quale accidenti sia ancora non l'ho capito), e dopo cerchi il "pupazzo di neve" e dopo vuoi l'acqua e ti autoprovochi la tosse, e dopo dici che non vuoi fare la nanna: vuoi fare la colazione...

Tipo quando ho preso un appuntamento premurandomi di fissare un'ora abbastanza in là da riuscire a fare tutto malgrado il tuo ostruzionismo ostinato, e mi fai arrivare lo stesso in ritardo di mezz'ora perché: i calzini no, e le scarpe le metti alla rovescia, e la giacca la devi mettere tu ma ti incarti con la cerniera e te la prendi con non si sa chi, e quella rosa non la vuoi, vuoi quella blu che è ancora bagnata, e la faccia non te la fai lavare, e la colazione non la vuoi fare ma poi quando finalmente sei vestita e (in qualche modo) pulita, ti viene in mente che vorresti proprio mangiare uno yogurt...

Tipo quando ti sto appresso una mattinata intera, tra giostre e raccolta di fiori a tappeto ai giardini impantanati, e poi torniamo a casa e ti pianti sulle scale e vuoi stare imblaccio, e ti ricordi che non volevi andare con la macchina ma con la bichicletta, e che non volevi andare alle giostre del mercato ma a quelle glandi, e il fiore giallo è caduto dalle scale e pretendi che io scenda due piani a raccogliertelo...

Tipo quando la minestra non la mangi, e mi chiedi la pasta con le zucchine, però poi quando te la faccio la sputi nel bicchiere e dici che vuoi la stracchino sul pane, per poi spalmartelo sulla maglietta, mi fai sbucciare il mandarino e poi te lo infili a spicchi nei calzini, e mi sfinisci perché me lo mangi io, che notoriamente non sopporto gli agrumi...

Tipo quando sto cucinando e tu intanto mi scappi in terrazzo e giù per le scale. Scalza, mentre piove, e devo correre a raccattarti sullo zerbino degli inquilini del primo piano con il soffritto di cipolla che mi si carbonizza nella padella e caricarti su di peso mentre mi gridi "Blutta! Vai via! Sei blutta e scleanzata!"

Va bene tutto, mia cara piccola piantagrane, ma sappi che rimpiangerai questi giorni quando mamma non sarà più tutta quanta per te, e non avrà le energie e il tempo per giocare con te con il didò, e per leggerti dieci libri al giorno, e per fare il puzzle di Biancaneva e per fare le passeggiate i bichicletta...

Magari una parte di te lo ha già intuito ed esprime così la sua indignazione e ribellione?
Forse questa prospettiva dovrebbe o potrebbe straziare la mia fragile coscienza di madre, ma no, al momento sto solo tentando di reprimere l'impulso a strozzarti.

In ogni caso: non mi esasperare o lo sai che fine ti faccio fare?


Ci metto un attimo, eh!

lunedì 18 marzo 2013

No panic!


Ogni volta che mi assento dallo scrivere su queste pagine per più di un giorno e mezzo, penso sempre: adesso tutti quelli che mi seguono crederanno che ho partorito, o che lo sto facendo! Quindi mi viene la smania di aprire un nuovo post e di rassicurare tutti, che, no no: no panic! Tutto ancora tace.
Un po' egocentrico come pensiero, lo riconosco, anche perché immagino che l'unica che si stia facendo divorare l'anima giorno dopo giorno dall'ansia sia solo io.
E' vero, sono un tantinello ansiosa alla presa di coscienza che, oh, davvero oramai siamo agli sgoccioli, e giacché necessito condividere quest'ansia con il mondo intero, sappiate che a oggi siamo precisamente a meno una settimana, che è come dire: potrei anche partorire domani, volendo o nolendo...
Manca una settimana e ancora non ho preso appuntamento per il tracciato.
Manca una settimana e ancora deve venire l'operaio a rifare l'intonaco fracico in camera.
Manca una settimana ed ho finalmente acquistato un fantastico armadio al mercatino dell'usato che ho pagato, tra acquisto, trasporto e montaggio, all'in circa quanto avrei pagato un equivalente prodotto nuovo di pacca da Mondo Convenienza, e pure azzurro, come lo voleva Mimi, che ora invece dovrà accontentarsi di un rimediatissimo marrone-legno. Ma non importa: coinvolgere amici vari in scarrozzamenti automobilistici fuori porta con Mimi che se la dorme due ora secche nel seggiolino mentre io rovisto tra robavecchiume altrui appizzandoci interi sabati pomeriggio, per quanto stuzzicante e stimolante, è pur sempre un'attività che alla fine deve trovare un approdo in qualcosa, a meno che tu non abbia iniziato a mettervi mano almeno con un due-tre mesi di anticipo, e questo, l'avrete capito, non è certo il mio caso.

Quindi mi accontento e godo, anche se per la verità mi chiedo cosa mai mi sia venuto in mente di farmi arrivare l'armadio a  casa proprio nel bel mezzo del mio soffertissimo count-down. Eh sì, perché giovedì saremmo a meno 4 giorni, e nelle mie peggiori previsioni mi vedo lì che smanio a cronometrare contrazioni mentre i due incaricati trasportatori se la litigheranno con ante e cassetti che non ne vogliono sapere di andare al loro posto, e a voler sguinzagliare poi del tutto la mia fervida e catastrofica immaginazione, mi ci vedo, lì a congedarli sull'uscio rassicurandoli che, no no, sto benissimo non vi preoccupat... ops! Me la sono fatta sotto! La bambina, intendo.
No panic: cose che capitano, un attimo che raccatto il cordone, faccio una telefonatina al 118 e avverto il nido che oggi magari mando un'amica a recuperare Mimi, ché tanto il padre non risponde mai al telefono e figurati se lo fa oggi, che minimo minimo gli sarà arrivato un ordine straordinario di 24 agnelli e starà lì a squartarseli a colpi di mannaia dimentico del mondo circostante...
Ecco, questo accade nelle mie peggiori previsioni, cui forse dovrei iniziare a mettere un freno, visto che, guarda un po', ultimamente hanno una fastidiosa tendenza ad avverarsi, almeno in parte eh!

Ultimamente i miei sogni mi rimandano con insistenza l'immagine di me che mi reco all'ospedale in macchina in mezzo a un traffico esasperante, e penso che se la bimba dovesse nascere mentre guido, almeno finisce sul pedale del freno, e non sul''acceleratore, quindi tutto ok (povera psiche mia).
Stanotte il mio consueto e movimentato dormiveglia continuo che in genere si protrae circa dalle due in poi ha visto tramutarsi in nefasto insieme di visioni oniriche alcuni pensieri infelici che l'ansia mi ha suggerito nel mio immediato stato di discesa nel sonno. Mi sono svegliata di merda, passando dall'orrore di tragici pronostici, al grigio uniforme di un'ennesima giornata di secchiate d'acqua e depression mood.

Però.

Però un'insperato due giorni di sole e bel tempo mi ha permesso di lavare-asciugare una caterva di vestitini variamente rimediati e finora inscatolati alla rinfusa, dagli 0 ai 18 mesi: un delirio di taglie e stagioni che per il 50 % non riuscirò probabilmente a far inzertare, e che mi ha costretto ad immolare tre intere mattinate alla pratica continua dello stendere e ritirare, piegare e, udite udite, persino stirare (quando mi pigliano certi raptus non c'è niente da fare), e infine di stipare il tutto, ordinato per taglie e stagioni in una decina di scatole da guardaroba (sempre in attesa del famoso armadio marrone), una volta esaurito lo spazio in quella che ormai amichevolmente chiamo semplicemente per nome di battesimo: Malm, la cassettiera dei tuoi sogni.
Non avete idea di quanti di quei minuscoli vestitini riescano ad entrare in quelle accidenti di scatole da guardaroba. ogni volta che credevo da aver finito ne spuntava fuori un'altra. Davvero un delirio. Un delirio per lo più a tinte rosa pastello, ma pur sempre un delirio.

Però sono abbastanza soddisfatta di me, intanto perché ce la siamo finalmente risolta con la storia del nome, malgrado dobbiamo farci ancora l'abitudine, sia all'averlo finalmente scelto, sia al nome stesso, che con democraticissima imposizione, non so come l'ho tirato fuori da qualche interstizio malato dei miei lombi cerebrali; roba che oggi nel rispondere alla maestra Adriana che mi chiedeva se avessimo finalmente dato un nome alla creatura, ho vissuto una sorta di esperienza extracorporale, e mentre il mio apparato fonatorio pronunciava quelle cinque lettere in fila, il mio io cosciente si interrogava: "Lo sai, vero, che d'ora in avanti dovrai vederti sempre quelle facce davanti ogni volta che comunicherai a un qualunque estraneo il nome di tua figlia?" Sì? beh: chissenefrega, rispondeva il mio io subcorticale, quell'idiota di un sottosviluppato, tanto ci sono abituata. Ancora ricordo quella dolce vecchina che mi interrogò sulla strada per Montemagno, mentre io scutuliavo in carrozzina una pupa di un mese e poco più su e giù per l'erta sassosa che conduceva alla famosa casa-mulino delle nostre prime vacanze insieme, una pupa se mi consentite quasi sempre incazzata nera, non so se per lo scutuliamento o per le coliche o per la contrarietà dell'esser stata messa al mondo da cotanta incapace di madre. la dolce vecchina, dicevo, che mi chiese il nome, anche allora, della creatura, e io che, arrossendo fino alle radici pilifere della mia cespa di capelli, rispondevo, e sentivo a mia volta rispondermi: "I... I... AS... MINE? Oh, signore! E che nome è?" Manco le avessi detto che la frugola chiamavasi Satanassa!

Ecco, ecco che è tornato anche quel "che nome è?" e allora prendo atto che cominciano ufficialmente i miei dejà-vu da gravida-partoriente-puerpera, quelli che avrei volentieri rinchiuso nel più profondo degli anfratti della mia memoria, ma che ho volontariamente e deliberatamente deciso di ripercorrere...
E insomma: mica facile trovare un compromesso, cosa vi credete. Metter d'accordo capra e cavoli senza ferire e sconvolgere le fragili aspettative di nessuno, nemmeno del primo pinco pallino che finge una solidale curiosità per i fatti tuoi, e si aspetta risposte come Giulia, Sofia, Emma, Viola, Greta (che ultimamente sono i nomi più in voga, a quanto pare, ed è obbligo che ci si chiami almeno una neonata su due... senza offesa per nessuno, eh! Ricordate che sono quella che rifila alle sue figlie nomi da Anticristo!)...
...e invece si sente rispondere: RANIA. Strabuzza gli occhi, la maestra Adriana, se lo fa ripetere, una, due, tre volte. Tenta di storpiarlo in vari modi per renderlo più di suo gusto, ma alla fine capitola: "Oh, deh! Ma che nome è?"
Colpita e affondata. E avanti così! Pensare che ero tanto orgogliosa della mia scelta... e va be'.
Si abituerà (la bambina, agli strabuzzamenti oculari).

Ma comunque invece Mimi l'ha presa bene, eh: "No! Non si chiama codì! Si chiama NO-E-MMA! Mamma, e 'ccuda, non ti piace Noemma?"

Mentre pare che la suocera abbia gradito, anche se si è azzardata a suggerire anche lei qualcosa: "Mh, sì, carino Rania, ma che ne pensate di Randa? Anche quello è un bel nome, no?" Cara innocente suocera, se tu sapessi! Il figlio è stato costretto a dirle che in italiano non suona proprio bene, perchè... perchè... Randa significa "piedi" (la verità era indicibile, c'è da dire però che nella cultura islamica i piedi sono considerati parti del corpo piuttosto impure).

La mia solita amichetta, per suo conto, mi fa giustamente notare che Rania, scritto con la "I" al T9 del cellulare vien fuori "PANIC", mentre con la "Y" dà un simpaticissimo "PANZA", il che ancora per poco ma mi sembra quanto di più appropriato alla mia attuale situazione addominale.
Per il panic preferisco aspettare almeno l'avvento della prima contrazione, poi vi fo sapere, eh!

mercoledì 13 marzo 2013

Tu che.


Tu che credi di sapere così bene quel che vuoi, e che non perdi occasione per rimarcarlo di fronte alle ingerenze altrui all'interno del tuo campo d'azione.
Tu che rendi la vita impossibile alle maestre, che ogni giorno a turno mi raccontano di qualche tua esplosione di collera nei loro confronti, per aver osato violare il tuo spazio sacro, i tuoi cerimoniali di vestizione, le tue dimostrazioni di autonomia; tu che non ti lasci corrompere dalla promessa di caramelle, raggirare da manovre diversive, distrarre da tentativi di dribblaggio... ma vai fino in fondo, anche se poi non sai tu stessa come uscirne fuori, intrappolata tra l'orgoglio di non cedere e l'evidente assenza di una valida causa per la quale batterti.
Tu che sei già in grado di analizzare e riflettere da sola sui tuoi comportamenti, che sei sorprendentemente consapevole dei tuoi meccanismi emotivi, e a freddo sai discuterne e individuare da sola i tuoi errori.
A te vorrei poter spiegare che la cosa più difficile nella vita non è accettare gli altri e i loro difetti, quanto accettare i propri e imparare ad ammetterli per superarli, mettendo di lato l'orgoglio; che perdonare gli errori altrui non è impresa tanto dura quanto perdonare i propri; che la sofferenza maggiore te la procureranno non tanto i torti subiti, le ingiustizie patite e i tradimenti ricevuti, quanto il ricordo di quei torti, di quelle ingiustizie e  di quei tradimenti che tu avrai attuato a danno altrui.

Tu che mi stupisci con la tua eccezionale sensibilità emotiva, che sai intuire gli stati d'animo ed esserne condizionata, che riesci ad intercettare i miei momenti di crisi e a metterli a nudo, lasciandomi senza difese e guarnizioni.
Tu che trabocchi di emozioni, e che smani dalla necessità di comunicarle, esprimerle, tu che riesci a tradurre verbalmente certe tue irrefrenabili eruzioni emotive, senza inibizioni né reticenze, e lo fai come e meglio di me, adulta, che rimango intrappolata nella difficoltà di dare una forma alle mie pulsioni più inconfessabili, dal pudore di manifestare i miei affetti più primordiali.
Tu che non hai problemi a dirmi che sei innamorata di me e che mi fai sorridere con inaspettate proposte di matrimonio ("Mamma, mi vuoi sposale?"); tu che applicando alla lettera la logica ferrea imparata al nido, affermi senza alcuna riserva che io te e Buia siamo fidanzati, perché è questo che sono due o più persone che si vogliono bene; tu che quando ti trovi in mezzo ad una compagnia che apprezzi non sai contenere la gioia che provi e allarghi le braccia come a contenere tutti i presenti ed esclami "Che bello che siamo tutti insieme!"
Tu che quando una situazione ti piace e ti fa sentire a tuo agio, balli di felicità, tu che sai ancora chiedere: "Mamma, pel favole, mi dai una carezza?" o "Ti posso dale un bacino?" e mi sento morire quando mi prendi la mano e dici di non preoccuparmi, ché ci pensi tu.
Tu che ti senti già forte abbastanza da poter proteggere qualcuno che ami, che hai sempre il "celotto" per guarire ogni tristezza, espressa o inespressa, o malamente celata da parte mia, tu che ripeti di essere "glande", e credi che l'esserlo sia sinonimo di una conquista di status.
A te vorrei far capire quanto eccezionale sia il tuo status di piccola, quanto la tua forza risieda nella tua apparente assenza di difese, che di fatto lascia senza difese chi con te si confronta.
A te vorrei dire di non perdere mai del tutto questa tua forza-bambina, di non lasciare che questa tua immediatezza nel sentire e nel trasmettere venga soverchiata e sopraffatta da etichette, e vuoti clichés comportamentali, che il darsi del tutto non è sinonimo di debolezza, ma di grande coraggio e onestà. Che la cosa più frustrante non è tanto il non sentirsi capiti, quanto il non sentirsi più in grado di comunicare, il non sapersi più in grado di "sentire".

Tu che non ti concedi sempre e subito a tutti, ma sei selettiva, e scontrosa, e hai i tuoi tempi di reazione non sempre in sintonia con quelli del mondo circostante. Tu che sai far male quando rifiuti, ed estrometti dal tuo mondo affettivo, e non ti rendi conto che ogni tua parola ha un impatto ben più forte della tua reale volontà di ferire.
Tu che mi fai ridere quando atteggi la faccia in cipiglio e fai la voce da posseduta e dici: "Vai via, sei blutta , io non ti voglio!"; tu che non accetti che qualcuno che ami possa fare o dire cose che non ti piacciono, o impedirti di fare ciò che vorresti, o disapprovare qualcosa che hai fatto, e ti opponi, e da giudicata passi a giudicante, e dai per scontato che il mondo debba girare intorno alla tua volontà, e che tutte le motivazioni contrarie siano secondarie.
A te vorrei insegnare che nella vita non vince sempre chi urla più forte, anche quando ci dicono che è così; che le vittorie silenziose a volte sono le più significative; a te vorrei mostrare quanto il saper lasciar correre senza rivendicare sia dote di pochi spiriti eletti, e come l'abitudine di voler avere sempre l'ultima parola rischi di diventare una gabbia che ti preclude lo scambio con l'altro.
A te vorrei  spiegare che la capacità di tacere e ascoltare le ragioni altrui può renderti ricca e aprirti prospettive prima mai considerate, e dare soddisfazioni neppure paragonabili alla prepotente smania di ricevere il riconoscimento delle proprie ragioni. Che il negare o il rifiutare ciò che non ci piace non servirà a risolvere un problema, né a migliorare una situazione. Che il riconoscere di aver sbagliato ti darà diritto a maggior considerazione da parte altrui di quanta te ne potrebbe dare una vittoria dialettica ottenuta per sfinimento.

Tu che vuoi sempre dare un nome a tutto, che chiedi in continuazione chiarimenti sugli aspetti che ti rimangono più oscuri, che sei capace a reindirizzare le risposte qualora non ti convincano, che mi obblighi a sfiorare pericolosamente il confine inviolabile del mondo degli adulti ("mamma, spiegamelo meglio!") per non aprirti prematuramente lo scrigno di verità difficili, quelle che non vorrei mai confessarti, che vorrei non ci fosse bisogno di spiegarti, e ti ritrovo ferma lì a rifletterci sopra, per provare a capirne da sola il come e il perché.
A te vorrei dire che anche quando, a un certo punto della tua vita, ti sembrerà che questo mondo sia un bello schifo, che la vita sia tutto un inganno, che la ricerca della felicità sia solo una favola tossica, per ubriacare la mente della speranza che davvero serva a qualcosa essere vivi (e prima o poi ti accadrà di pensarlo), ci sarà sempre qualcosa per cui varrà la pena aver vissuto, e ci sarà sempre qualcosa per cui varrà ancora la pena vivere, e che quel qualcosa da solo basterebbe a riscattare tutto il resto, che la bellezza da sola può salvare il mondo.

Tu che ti riconosci un'inequivocabile femminilità, tu che ti rivedi nella maggior parte delle tue eroine fiabesche, identificandoti nell'immediato con ognuno dei personaggi che già popolano la tua fantasia; tu che mi fai impazzire quando al mattino ti metti in testa di voler scegliere i tuoi vestiti, alla ricerca disperata di "quello da plincipezza", che vuoi i capelli sempre sciolti perché dici che "le plincipezze non hanno le codine", che hai acquisito chissà da dove la nozione delle fondamentali doti femminili, e le individui nella bellezza, nell'eleganza e nel ballo...
A te in questo mese di marzo dedicato alla donna, vorrei trasmettere il senso profondo di cosa ciò significhi, proprio io che il mio essere donna ho fatto una certa fatica ad apprezzarlo, accecata com'ero da fuorvianti luoghi comuni di una femminilità civettuola e frivola, dedita all'esteriorità e alla cura della propria immagine estetica, persa in discorsi vacui di nessunissimo interesse, e invece l'ho poi riscoperta in me in una particolare forza introspettiva, nella complessità e articolazione del discorso emotivo, nella predisposizione per la cura profusa nel'oggetto delle proprie passioni, nella sottigliezza e nella sfaccettatura degli stati d'animo.
A te ancora vorrei rivelare come la tua maggiore forza risieda proprio nel tuo essere donna ("No, mamma, tono una bambina, io"), nel tuo essere una bambina che un giorno sarà una donna, detentrice della facoltà di ospitare e dare vita, la forza più grande e inestinguibile che essere umano possa mai vantare.
Tu che sei già la mia piccola donnina.



domenica 10 marzo 2013

Terapia blu.

A dirlo oggi, dopo una settimana di pioggia incessante, non pare vero.
Invece domenica scorsa siamo stati al mare. Tutto il giorno. E si stava da Dio.





Al mare con Mimi e Hasuna che pescava ho accettato di andarci solo dietro rilascio di certificazione di garanzia in carta bollata e controfirmata che sarebbero venute anche altre persone.

La prospettiva di ammazzarmi arrancando con la panza dietro a lei che tentava ogni tre per due la full immersion in un gelido mare di inizio marzo, per quanto bellissimo da vedere, portandosi a casa la broncopolmonite fulminante mentre il beduino armeggiava per ore dietro alle sue adorate canne... chissà perché non mi entusiasmava troppo...

Invece è andata da paura.
A volte tanto vale osare, e a quanto pare Mimi è cresciuta e ha smesso di aspirare al suicidio per annegamento...



Invece abbiamo fatto lunghe passeggiate sulla spiaggia raccogliendo conchiglie, tirandoci dietro il nostro fido carretto, riempiendoci gli occhi di blu.

Blu sopra di noi, blu all'orizzonte, blu i vestiti della mia bambina, ché li ha scelti lei (mamma, a me mi piace il blu! A te cosa ti piace, il losso? A me mi piace il blu).

Blu dappertutto, che fa un gran bene allo spirito, al termine di un inverno più o meno sbiadito.

To feed the sea.

Mimi ha dato da magiare al mare. Da quando le ho detto che a Marina di Pisa il mare si era mangiato tutta la spiaggia, ora è convinta che il mare si nutra di sabbia. E in fondo potrebbe essere così.




E mentre io continuavo la mia raccolta in solitaria, attività di cui Mimi dopo un po' ha avuto abbastanza, lei familiarizzava...



... sognava, volava, correva, si tuffava...


E mentre io e la mia panza ci spiaggiavamo come una balenottera disorientata sul lido, lei...


...analizzava, rifletteva, osservava, traeva conclusioni in autonomia...


... immergendosi nella materia.



La mia bimba, così piccola e così grande, mi stupisco a guardarla e trovarla cresciuta, a scoprire sul suo volto espressioni nuove, a vederla scuotere la testa per allontanare dal viso quel ciuffo di frangia sempre sfuggente.


Il sole ci ha graziate, il vento ci ha accarezzate, la terra ci ha accolte, il mare ci ha cullate.
Quando la natura è così generosa ritrovi la pace con te stessa e l'armonia con la vita.

Abbiamo fatto scorta di quei colori, che il mare ha solo in primavera, e a quanto pare ci è bastata per l'intera uggiosa settimana che ha seguito.



Ma che tempo farà oggi? Difficile dirlo: alle otto del mattino risulta nuvoloso variabile, con tendenza a momentanee schiarite....

Quelle merde dei miei gatti hanno avuto la brillante idea di svegliarmi alle sei, e non vi dico con che tatto. Ecco il motivo per cui me ne sto qui al pc, invece che crogiolarmi ancora a letto....

venerdì 8 marzo 2013

Nomination...


Il Beduino non è proprio il prototipo del padre partecipe alla gravidanza, se vogliamo dirlo con un eufemismo.
Però devo anche aggiungere che il suo livello di partecipazione, emotiva e pratica, a questa seconda, è drasticamente scemato rispetto a quando aspettavamo Mimi. Sarà che ormai è tutto un déjà-vu, sarà che ha la testa altrove, tutto preso com'è dai suoi asfissianti pensieri quotidiani, sempre i soliti: l'attività che non va o va a singhiozzi, le tasse che strozzano, i debiti che si accumulano, le multe che piovono, il dipendente che si è infortunato, con grande tempismo e lungimiranza, proprio ora che non ci voleva, in concomitanza col mio ultimo mese di gravidanza...
Va be', diciamo che ho evitato di aggiungere a questa sua situazione emotiva il mio bel carico di paturnie, e nei limiti del possibile ho cercato di gestirmi la gestazione da me.
A maggior ragione perché lui dimostrava una certa insofferenza nei riguardi di alcuni argomenti scottanti. Tra questi argomenti c'era l'irrisolta questione del nome di Noemma, divenuto di mese in mese una vera e propria ossessione.

"Allora come la chiamiamo questa bambina?" Era la mia ciclica domanda, destinata a rimanere nel limbo delle domande indegne di risposta o considerazione, dato che la sua più comune si risolveva in una specie di grugnito, se era in vena di concessioni. Se no il silenzio.
Quindi ho smesso.
Ma ogni tanto ci riprovo.

- Sai, ci ho pensato: che ne dici se stavolta le diamo un nome italiano alla bimba?
- Ber esempio?
- Mah... non so... per esempio... Arianna.
- ARIANNA? Ma sei matta? Perché proprio Arianna scusa?
- Non so, mi piace... che c'è di male?
- Ma in arabo "ariana" vuol dire "nuda"! Come ti è venuto questo nome?
- Non è che me lo sono inventato io, eh! E' un nome classico, e si riferisce ad un personaggio del mito molto affascinante, la principessa Arianna, figlia del re di Creta Minosse...
- Boh! A me sembra stubido dare un nome di un personaggio inventato.
- Perché non capisci niente.

POI

- Allora che ne dici di Amanda?
- Amanda??? Ma che nome è?
- Un nome di buon augurio: significa "da amare".
- In che senso?
- In senso buono.
- Mah...
- Va bene, allora dimmi tu.
- Mi va bene tutto, scegli te.
(Grrrrr)
- Eleonora?
- ...
- Come Eleonora d'Aquitania: era una regina medievale e una gran donna di cultura.
- Così diventa secchiona come la mamma...
- Beh, che male c'è? Insomma, non ti piace?
- Boh... Bossiamo chiamarla Nuria: è quasi uguale, no?
- Ehm... Lascia perdere.

POI

- Insomma... stavo pensando al nome per Noemma...
- Mi sa che alla fine rimarrà Noemma...
- Certo: se non ci decidiamo! Mimi è molto più determinata di noi!
- Va bene allora chiamiamola Naima.
- Naima??? Ma che nome è?
- Somiglia a Noemma.
- Ma fa schifo! Mia figlia non si chiamerà né Noemma né Naima. E poi che significa Naima? Non vuol dire "formica"?
- Ma che! Quello è "namla"! Naima vuol dire "pulita"! E' molto diverso. Naima: nun-alif-ain...
- Ecco appunto: non voglio nomi con "ain" e altre lettere strane. E non voglio chiamare mia figlia "pulita". Al massimo Linda.
- Sgrunf... (grugnito di chiusura conversazione)

POI

- Sai, stavo bensando: mi biacerebbe scegliere un altro nome di fiore.
- (Molto timorosa) Per esempio...?
- Ber esempio Nasrin. Bello, no?
- Ehm... ma come ti è venuto 'sto nome? 'N se pò sentì! E non parliamo della pronuncia poi...
- Mi è venuto berché pensavo a un nome che facesse rima con Yasmin.
- E che senso ha dare un nome che fa rima con quello della sorella scusa?
- Berché Yasmin fa rima col cognome, e questa cosa mi biace molto.
(Uno dei motivi per cui ero perplessa già su Yasmin... ma come gli vengono certe idee?)

POI

- Ho pensato al nome di un fiore: Margherita.
- Così la chiamano Rita come la moglie di Giampiero...
- Senti, non è che possiamo espungere i nomi di tutti coloro che abbiamo conosciuto in vita nostra.
- Warda è un bel nome...
- WARDA??? Ma sei fuori??? Povera creatura!
- Ma vuol dire Rosa.
- Allora perchè non Opunzia, Ortensia, Papavera o Tulipana?
- Tulipana???
- Sto scherzando, scemo.

POI

- Margherita è proprio bello: come la regina Margherita di Valois, La Reine Margot...
- Ma berché sei fissata con i nomi di regine e principesse?
- Chi, io?
- Poi ti stupisci se tua figlia gira per casa con le tovaglie addosso e dice "Tono popio una bellittima pincipezza!"
- Va bene, allora proponi tu qualcosa.
- Va bene: Ahnan.
- HANNAN? Vuol dire "cesso"???
- Non "Hammam": A-H-NAN.
- Posso dare a mia figlia un nome che ogni volta che la chiamo devo fare lo spelling e esalare l'ultimo respiro? (Senza contare che rischio ogni volta di sbagliare e chiamarla "cesso")
- Ma non è difficile da bronunciare: A-H...
- Senti, lascia stare, come non detto: ci penso io.

POI

- E comunque ti avevo chiesto se ti andava bene un nome italiano a 'sta botta, e non mi hai ancora risposto.
- ...
- Poi continui a propormi nomi arabi assurdi.
- Tipo?
- Tipo quello dell'altra volta, com'era... Ah, sì: Maimuma!
- OMAIMA!
- Ecco appunto. Se non vuoi nomi italiani, dillo così evito la fatica di pensarci. E cercherò un compromesso. Non c'è bisogno di tirare fuori nomi improponibili.
- No, va bene anche italiano, basta che esiste anche in arabo. Ber esempio Sara. Va bene: chiamiamola Sara. Sara va bene a tutti e due, no?
- Cioè: hai già deciso tutto da solo.
- No, ma è bello Sara.
- Non mi dice niente. E poi è il quinto nome più diffuso in Italia.
- Boia! Hai già fatto delle ricerche!
- No: guardavo solo la classifica dei nomi.
- Allora Miriam.
- Ma sembra il nome di mia mamma!
- No: E' il nome di tua mamma.
- Più o meno...
- Va be': allora alla prossima mettiamo il nome della mia mamma.
- Ecco, proprio quello che non volevo. No: lasciamo fuori i nonni, per favore!
- Allora Nadia.
- Sì, bravo: come la maestra Nadia!
- E chi è?
- Una maestra di quando ero alle elementari. Dell'altra sezione, ma il figlio era in classe nostra e questo la autorizzava a venire sempre a romperci le palle.
- Ma che t'imborta? E' bello Nadia...
- E poi c'era pure la mia prima coinquilina... quella zozzona col suo cane piscioso e il suo coniglio che cagava ovunque...
- Allora bensaci tu, io mi sono rotto le balle!
(Come dargli torto...)

- Ho trovato il nome giusto!
- ... sto aspettando...
- Ho paura di dirtelo e poi tu me lo demolisci.
- Allora non dirmelo.
- Ranya.
- ...
- Beh?
- Ranya?
- Come... ehm... la regina di Giordania. Non ti piace? Vuol dire "colei che guarda con attenzione".
- Ah: guardona!
- No! Tipo: sguardo profondo.
- Boh!
- Ma è un nome arabo, no?
- Mai sentito.
- Ma come?
- Sarà inglese. Quella è nata da una madre inglese.
- Ma che dici: sono palestinesi.
- Boh!
- Ma insomma: esiste o no?
- Sarà un nome indiano, che ne so.
(Sob)

POI

- Ci ho pensato: Ranya non mi convince. Sembra Ryanair.
- Brobrio ora che mi stavo abituando.
- Ma allora ti piace!
Ber me è uguale.
- Sarà. Finora non mi è parso.
- Va bene Ranya. Chissenefrega.
- Ma poi la chiameranno "ragno" o anche "rana".
- Ma tanto se andiamo a vivere in Libia...
- Mh... sì... vedremo.  Poi ci sarebbe Leila.
- Laila.
- Leila.
- Mi sembra uguale.
- No Hasuna: sono due vocali diverse.
- Va bene. Chiamiamola Leila. E' carino.
- E' dolce.
- Sì, e poi è breve...
- ...
- ...
- Purtroppo...
- Sì?
- E il nome del cane di Ciro!


Da cui si evince che la colpa non è proprio tutta del Beduino...
Ma prima o poi ce la faremo eh! Non disperate!
Noemma... (Sob!) Ci stiamo lavorando...

mercoledì 6 marzo 2013

Ascoltavamo tutti i Pink Floyd.


Lei ferma la macchina nel parcheggio dell'ospedale. Piove.
Fantastica questa invenzione! Pensa, riferendosi all'automobile (nemmeno l'avessero inventata l'anno scorso), ma siccome non è abituata a spostarsi in auto, ogni volta ne rimane molto soddisfatta e stupita: la comodità, il relax, la musica dallo stereo, la climatizzazione...
Ehm... ma com'è che si spegne 'sto getto di aria calda? Sto soffocando.
E poi, che cavolo ci faccio ora qui quaranta minuti?

Perché stranamente era arrivata in anticipo. Aveva l'appuntamento per la visita tre quarti d'ora più tardi, senza contare i normali tempi di attesa.
Tanto valeva aspettare in auto.
Una Ford un po' vecchiotta vecchia vetusta Ford che tra poco sarebbe potuta diventare macchina d'epoca, se solo fosse stata in condizioni più ottimali.
Niente di grave, ma i due sportelli da fuori non si potevano aprire con la chiave; bisognava aprire il bagagliaio e armeggiare con una canna di bambù (ivi appositamente posta) fino a riuscire ad aprire la maniglia della portiera. Il sedile dal lato guidatore non si alzava (alquanto scomodo per una tre porte), e l'altro bisognava forzarlo con un moschettone di ferro, sempre rinvenibile nel cruscotto a questo scopo. Per chiuderla invece bisognava fare il giro e utilizzare la portiera del lato passeggeri, perché l'altra era troppo dura e già avevano rotto una chiave tentando di forzarla.
Per il resto una gran macchina. Certo, lo sterzo un tantino duretto per una che è al nono mese di gravidanza e le escono fuori le budella ogni volta che deve far manovra. Magari se si riuscisse a spegnere quest'aria calda che esce a raffiche, ma mi sa che è bloccata...
Il rivestimento interno sta un po' cedendo, andrebbe reincollato, e poi sul soffitto c'è un po' di muffa. Il sedile non viene più avanti di così: guidi un po' sprofondata ma fa niente.
Però l'impianto stereo, ragazzi, vale da solo più del prezzo intero dell'auto (e non esagerava, perché l'auto l'avevano avuta praticamente gratis).

Giacchè mancava ancora un bel po', e lei era abituata ad arrivare in ritardo, non le sembrò decoroso presentarsi in anticipo. Alzò il volume e spense il quadro.
Fuori la pioggia scioglieva i contorni degli oggetti e le coordinate spaziali sui vetri dei finestrini.
Si vedeva solo il verde delle aiuole e degli alberi nel grande parcheggio dell'ospedale.

Il cd girava a ruota nello stereo già da qualche giorno, ma ora tutto era musica, e la musica creava un'altra dimensione nella mente, nel ricordo. Le parole delle canzoni risalivano alle labbra da chissà quali anfratti mnemonici.
E rivide quella casa, e quelle serate e quei pomeriggi in cui per mesi tutti ascoltavano i Pink Floyd.
Il potere evocativo della musica ha dello straordinario, nelle giuste condizioni.

In quella casa al sesto piano del vecchio condominio sopra la stazione, abitavamo in quattro, due donne e due uomini, meglio: due ragazzine e due bamboccioni.

Ci vivevamo in quattro e facevamo cose diversissime, ma ascoltavamo tutti i Pink Floyd. Più altra roba, ma di fondo, tutti i Pink Floyd.
Il poliedrico Do-medico, ex campione di salto triplo, costruttore di soppalchi, suonatore di qualsivoglia strumento, amante delle escursioni in moto, specializzando in neurochirurgia, si esercitava a fare le suture con una mano sola, ci raccontava come si opera un aneurisma, ci decantava le bellezze delle Alpi Apuane e ci crocifiggeva con le visite della sua ragazza, da noi soprannominata LSV (La Stupida Valeria), una sciacquetta biondina e gran rompiballe con arie da maestrina triste.
Formiconio, aspirante geologo impantanato nella tesi; non ho mai capito cosa facesse l'intera giornata: bivaccava tra la sua camera e la cucina, tra una canna e un caffé, snocciolava giochi di parole così scemi da essere imbarazzanti, organizzava il suo tempo intorno alla palestra e poco più. Fondamentalmente gran tascio (ghiozzo/tamarro et sim.) ma aveva amici molto interessanti, per cui valeva la pena tenercelo buono.
Dani e il suo circolo leninista, che mi trascinava alle riunioni del primo maggio, e correva a diffondere Lotta Comunista per l'intera provincia con quegli sfigati dei suoi colleghi (ops... mi è scappato), nel suo cappottino a doppio petto che non si chiudeva mai per via delle mega tette.
Io mi facevo serate saltuarie in una pizzeria napoletana gestita da ignoranti cafoni, un 200 coperti a serata, da morì; guadagnavo miserie che sperperavo senza remore, mi dividevo tra lezioni universitarie e baby-sitting pomeridiani, fotocopiavo libri di testo e dispense, e i soldi che non bastavano mai.


Dal terrazzo di quella casa si vedeva il bar del dopolavoro ferroviario, e più dietro, le ferrovie, e più dietro le terrazze dei palazzi popolari, e dietro dietro, all'orizzonte, le ciminiere della Saint Gobain, che al tramonto erano quasi romantiche.
Suonava sempre uno stereo, o più d'uno, in quelle quattro camere arredate alla bell'e meglio.
La sera cenavamo tutti insieme e si finiva sempre a fare almeno le quattro, per poi emergere al mattino in coma non mai prima delle dieci.
In quella casa preparai un esame in quarantott'ore filate, senza dormire mai, e ci presi pure un 30.
In quella casa ho scialacquato il fior fiore del mio tempo, ma quello era il tempo delle cazzate da fare, per poterti poi dire che le hai fatte, e che non c'è niente da rimpiangere in fondo, ad averle archiviate.
In quella casa sempre tanto fumo, e bottiglie di vino vuote, pentole sul fuoco, e va e vieni di gente, tanti musicisti, tante note diverse, tante chitarre.


Io e Dani che ci trattavano come le piccole di casa.
Sperimentavamo piatti nuovi, inventavamo testi sul tema di Prospettiva Nevskij, imparavamo a strimpellare l'arpeggio di Wish you where here e Wots uh the deal. Ovviamente non avremmo mai imparato a suonare davvero, ma ci abbiamo creduto davvero. Per un po'.
Subivamo il fascino degli amici musicisti attori e artisti tronfi e consapevoli del fascino che sapevano di esercitare, trescavamo un po' a casaccio, e ci ritrovavamo a ridere serate intere perculandoli a sangue, impietose nella nostra complicità femminile a due.
Guardavamo Pulp Fiction sul soppalco e il ciclo dei film di Hitchcock alle tre di notte, e Pagliacci assassini e Il mio amico Bigfoot, mentre io finivo il labirinto per il mio orsetto russo, che poi fece una brutta fine, perché se ne andava in giro per casa di notte a nascondere provviste di semi di girasole negli anfratti domestici e nei vestiti che rimanevano a terra dimenticati da qualcuno.
E finì male. Molto male.
Ci trascinavano alle feste di amici di amici dove intravedevamo il triste destino degli studenti tardoni, che vedevamo lucidamente come matusa irranciditi mantenuti per troppi anni da genitori lontani tra i bivacchi sterili della vita di ateneo (a pensarci ora, loro erano sulla trentina, ma dal basso dei nostri 20 e 22 anni poteva ben essere così).
Ci facevamo scarrozzare in giro da maschi di turno che speravano in prede facili (poveri illusi) tra Livorno e Viareggio per jam session e locali molto rock sentendoci due gran figone intenditrici di musica e vita, e bevevamo birra a scrocco sedute in strada, e sui Lungarni e sulle spiagge e sui canali del quartiere Venezia.
E ti ricordi quella volta che siamo scese in stazione e abbiamo preso il primo treno utile e siamo andate a Bologna? Sì e siamo morte di freddo tutta la notte in giro per la città, e nella sala d'attesa della stazione c'era una puzza infernale, e ci scaldavamo le mani col fon asciugamano del bagno...

Non è durata tanto, quella vita, lì in quella casa al sesto piano. Nemmeno un anno ci restammo, per quanto fu un anno intenso, a vivere uno addosso all'altro, a litigare e condividere e cazzeggiare e cantare e devastarci un po' e svegliarci tardi, e stare gomito a gomito come fratelli di una confraternita esclusiva e poi detestarci e non poterne più l'uno dell'altro, e scomparire per giorni.
Nemmeno un anno, e mi pare un'epoca, siglata da quel rock un po' intimo-malinconico un po' psichedelico, un po' deprimente un po' ribelle.
E' che bisognava andare avanti, o ci affossavamo.

E non tanto perché poi sono partita per l'Erasmus, o perché poi mi sono messa con quel tipo strano che abitava al piano terra, con quella parlata negroide e quella storia alle spalle, che si diceva fosse rifugiato politico dal Libano... No, no: dalla Libia... ma dove sarà mai 'sta Libia? Boh! Un tipo strano, un casinista comunque, lascia stare, non ti ci mischiare... va bene Dani, hai ragione.
Ad ascoltar le amiche a quest'ora non ero qui... in questo parcheggio di ospedale, a ripensare a quella casa disastrata, con le pentole in cucina appese al muro, e i ripiani del frigorifero divisi per appartenenza, e i turni delle pulizie affissi in corridoio che nessuno guardava mai, e il tempo era fermo e se ti ci fermavi troppo ti fagocitava e iniziava a scorrerti via senza che tu te ne accorgessi e già avevi trent'anni, e non avevi combinato niente: no, no, meglio scappare. Basta basta.
Ma mi rimane questa colonna sonora, di quel tempo; di noi che facevamo le cose più disparate, ma che però ascoltavamo tutti i Pink Floyd.
Nel ricordo tutto appare sempre un po' più splendente.

E ora spengo lo stereo e vado, che è ora.


lunedì 4 marzo 2013

Depressione pre-parto?


Febbraio è stato il mese dei post incompleti.
Ora faccio un po' di pulizia di primavera, ma questo lo recupero: lo iniziavo tempo fa, ma certi stati d'animo a tratti ritornano.
Ho fatto il primo acquisto ufficiale in vista del parto.
Ecco, l'ho detto: PARTO!
E non certo nel senso di una mia partenza imminente. No, quella magari. Ma bisogna dire che anche nel mio caso necessiterò di una valigia, e l'idea di dover iniziare a prepararmela mi mette già addosso un filino d'ansia. Così come quelle pantofole comprate stamani in saldo.
Sì, ho comprato le pantofole per l'ospedale, e questa cosa mi ha come ripiombato indietro di un tre anni in una frazione di secondo, con tutto quello che ne consegue.
Solo che all'epoca comprai a 2 euro un paio di ciabatte infradito di gomma. Azzurre. Con dei puntolini. Un affarone. Era estate ed io andavo incontro al mio destino con l'inconsapevolezza innocente di chi non sa cosa l'aspetta.
Ora invece mi ha preso un po' il panico.
Insomma, posso dirvelo? Per la verità me la faccio sotto.
Non è il dolore che mi terrorizza, anche se, ecco, se potessi lo eviterei volentieri. Non è l'eventualità che qualcosa possa "non andare per il verso giusto".
E' una sensazione di rivissuto, e stanchezza, e l'idea di ricominciare daccapo, l'ambiente asettico dell'ospedale, il distacco da routine dei medici, la saccenza acidella delle cretine della nursery, lo smarrimento di ritrovarmi di nuovo alle prese con un neonato, il fatto di dover stare lontana da Mimi per alcuni giorni, la stanchezza del dopo parto, il dilemma del latte che non arriva, la congestione mammaria, un rapporto da costruire daccapo...
Sì sente tanto parlare di depressione post-partum. Io mi sa che ora mi invento quella pre-partum.
O magari già esiste. Figuriamoci se non si sono inventati un nome anche per quello.
Come se bastasse dare un nome agli stati d'animo per stare tranquilli.
Verificato che non mi sono inventata proprio un bel niente: un'attenta ricerca su Google (tipo di 3 secondi e mezzo) mi conferma che gli espertoni già l'avevano sgamata e ne descrivono così i sintomi:
  1. Non provare più felicità o capacità di divertirsi (beh, questa, per fortuna, mi manca);
  2. Sentirsi a terra, tristi, vuote per la maggior parte del giorno, ogni giorno (ce l'ho ce l'ho!);
  3. Fatica a concentrarsi (...cosa stavamo dicendo?);
  4. Estrema irritabilità o ansia o pianto incontrollato (lasciamo perdere...);
  5. Fatica estrema, continua (ma che c'entra la depressione?);
  6. Difficoltà a dormire o impossibilità a dormire (e io che pensavo fosse colpa della panza!);
  7. Desiderio di mangiare in continuazione o al contrario, di non mangiare per nulla (ce li ho entrambi: dunque non ha a che fare con la fantomatica influenza intestinale?);
  8. Senso di colpevolezza, sentirsi inappropriate o senza speranza (in colpa sì, inappropriata pure, senza speranza mi sa un pochettino tragica)
Ok, direi che a parte la prima, ci sta che tutte le altre si verifichino a fasi alterne.

Prendete una che si fa la sua vita tranquilla, rendetela inetta a svolgere una qualsiasi attività, rendete faticoso ogni suo movimento, inattuabile ogni suo progetto in autonomia, ed ecco, è un po' normale che una si deprima un poco...
Ma non mi arrendo eh! Il sole e il cielo limpido di questi giorni farebbero desistere chiunque dal voler portare avanti una qualsiasi forma di stupida depressione passeggera.
Il segreto è non fermarsi, non lasciar spazio ai pensieri, all'inattività.
Se la gravidanza è tosta, io lo son di più.
Mi sto attivando: le pantofole erano solo il primo passo, ora ho finito di preparare la valigia per l'ospedale, ho acquistato orrende camicie da notte in stock al mercato, vestaglie e due pigiami, che non si sa mai, ho fatto la prima lavatrice di vestitini mignon, rimasti poi sullo stendino per un tempo indeterminato, perché non ho ancora una cassettiera in cui sistemarli, ho effettuato svariati viaggi all'isola ecologica e forse sto riuscendo a sgombrare casa, sempre se qualche altro benefattore non decide di mollarci scatoloni di immondizia riesumata in cantina. La camera delle bimbe di là è sgombra (più o meno), imbiancata (si fa quel che si può), e anche se la macchia di umidità sul muro persiste forse forse in questi giorni vengono gli operai a risolverne la causa (veramente li aspettavo per stamani... mah!).
E poi girovago a perlustrare grandi magazzini alla ricerca del mobilio.
Mimi ha detto che vuole un armadio azzurro, e che ci pensa lei: "Non ti pleoccupale, mamma, lo complo io l'ammadio, ci penso io. Ciao mamma, vado a complare l'ammadio!"
Cosa farei senza di lei?

Mi sento un po' stupida a confessare certi stati emotivi, per la verità, soprattutto ora, a freddo, che tutto mi sembra lontano e stento anche a capirne la causa.
Dall'altro canto sento la necessità di esternare, per annientare, legittimare, per relativizzare, capirmi per superarmi.
Mi riempio di cose da fare, di progetti, poi basta un niente per gettarmi nel panico, una giornata storta di litigi e capricci a mettermi KO.
Sono sbagliata, mi dico: non so vivere mai in maniera serena ogni passaggio cruciale della mia vita. A dirla tutta a tratti vivo l'avvicinarsi del parto con l'atteggiamento di chi si avvia la patibolo.
Rifuggo il confronto con realtà simili alla mia perché finisco sempre col sentirmi indietro, più impreparata, più sguarnita, più sfigata.
Da un lato vorrei sentirmi più aiutata, considerata, coccolata. Dall'altra riscatto la mia autonomia, la mia capacità di saper comunque "fare da sola".
E invece mi dicono, dovrei "godermela". E forse è vero.
Godermi l'attesa, i progetti, la preparazione, la trepidazione, l'idea di qualcosa che sta per iniziare.
La stagione è propizia, i tempi sono maturi, il mio ombelico è scomparso.
La bimba è anche pronta, volendo, la sorella scalpita e reclama Noemma a gran voce.
Persino il beduino s'è sbilanciato a voler parlare finalmente di "nomi" per la nascitura. Poi ve ne parlo che quello è proprio un capitolo a sé, e merita.

In questi giorni una notizia funesta: una ragazza che ha fatto con me il percorso nascita, stessa età io e lei, stesso tempo di gestazione, entrambe aspettavamo una bimba. Ma il cuore della sua ha smesso di battere, e ora immagino come debba essere, per lei, l'attesa frustrata, il vuoto nelle viscere e nella casa, le aspettative crollate, i sogni sfumati, l'amore profuso verso qualcuno che non hai fatto nemmeno in tempo a stringere tra le braccia.
E mi vergogno della mia miopia, della mia incapacità di apprezzare, di essere grata alla vita, di gioire, sempre ogni giorno che passa, e invee mi perdo in un bicchier d'acqua dopo l'altro, e non vedo l'oceano che mi si apre davanti.

A volte il dolore altrui può aprirti gli occhi, anche se non è giusto.

venerdì 1 marzo 2013

A proposito di lupi...

Mi volevo riallacciare ad un post di qualche tempo fa di Madre Creativa: trattavasi di libri a tema comune, e si parlava di lupi.
Mi colpì perché da bambina il personaggio del lupo per me godeva di grande fascino, un'attrazione-repulsione che difficilmente poteva essere eguagliata da quella suscitata da qualsiasi altro personaggio delle fiabe. Il lupo delle fiabe ovviamente mi faceva paura, ma allo stesso tempo, visto che, come tutti i cattivi che si rispettino finiva sempre per fare una brutta fine, e in fondo in fondo, a pensarci bene, non è che fosse davvero cattivo, era solo che aveva fame, e qualcosa doveva pur mangiare, insomma, allo stesso tempo mi ispirava simpatia  con una puntina di compassione solidale.
Vedevo il lupo come un animale molto sfortunato, costretto a vagare solitario nei boschi, sempre affamato e in cerca di qualcosa di commestibile da mettere sotto i denti, e un poco sentivo come un'ingiustizia il fatto che tutti lo dovessero considerato come il cattivo della situazione.

Eppure c'era poco da fare: il lupo di Cappuccetto Rosso ERA cattivo. Era cattivo e consapevole, intenzionalmente doloso, ingannatore e spietato, e pure un po' stupido, a ben guardare, se se ne rimaneva come uno scemo a russare nel letto della nonna, anziché andarsi a imboscare in qualche grotta fino a digestione ultimata.
Ma comunque accadde che un carnevale di non so quanti anni fa, dissi che mi sarei voluta vestire da lupo. E così fu. Mio fratello ancora mi prende in giro perché pare che la maestra della materna mi scambiò per una pecorella e se ne uscì con un'osservazione molto infelice riguardante il mio muso di cartone, rigorosamente home-made. Un altro carnevale rovinato... ma va be', lasciamo perdere.

Insomma, povero lupo: ancora oggi nella narrativa per bambini finisce per essere emblema del prepotente per antonomasia, ingordo, egoista, e nemmeno troppo furbo. Il problema è che ha finito per incarnare non tanto la figura del cattivo per eccellenza, quanto le paure stesse dei piccoli lettori.
E allora ecco un libro che parla espressamente di quelle paure: della paura del lupo cattivo, e lo fa senza indugiarci su più di tanto, con grande libertà e fantasia, tendenza a sdrammatizzare, e forse pure qualcosa d'altro, di ordine un pochino più complesso, che ne fa, forse, un libro più adatto a bambini che si avvicinano ai tre anni, e che hanno già elaborato una propria forma visiva interna del mondo, che siano già capaci di estrapolare significati e conclusioni da messaggi parziali sulla base dell'esperienza sensoriale maturata.
Ma andiamo per ordine.

Titolo: Lupo lupo, ma ci sei?

Autore: Giusi Quarenghi

Illustratore: Giulia Orecchia

Editore: Giunti Kids

Età: dai 2-3 anni

Voto: 8

Ho acquistato questo libro un po' di tempo fa, all'appropinquarsi del giro del secondo anno di vita di Mimi, e credendo, erroneamente che fosse un libro di facile e immediata comprensione e di grande elementarità narrativa.
In effetti di narrativo c'è ben poco: l'intero libro è giocato sull'equivoco visivo, sull'allusione scontata, ma poi immediatamente smentita, in cui gioca un ruolo determinante non solo l'aspettativa del lettore (aspettativa indotta in primis dal titolo, dall'immagine di copertina, ma poi anche dalla presenza del personaggio di Cappuccetto Rosso, con cui scatta l'immediata identificazione), ma anche e soprattutto la sua paura. La paura del materializzarsi completo della minaccia, della sua rivelazione, paura di cui si fa portavoce Cappuccetto Rosso: l'ingenua e sprovveduta bambina divorata dal lupo cattivo è ormai una smaliziata scopritrice di lupi, e ne avverte ovunque la minaccia e la potenziale presenza.
Le cose però, ci dicono le autrici, non sempre sono come appaiono a prima vista.
Con una grande verve inventiva (che giusto in alcuni passaggi si perde, credo per esaurimento della materia e necessità di riempire le pagine), viene eviscerato il tema dell'illusione percettiva, di quel che sembra e che invece è tutt'altro, del dissolversi della paura con la scoperta.

E però: all'inizio ho pensato che il libro fosse un flop. Mimi non dimostrava un particolare apprezzamento né stupore nella rivelazione delle scene illustrate che si aprivano dietro il risvolto di ogni pagina, dissolvendo l'ambiguità delle finestre visive, che di quella realtà mostravano solo una porzione isolata, parziale, fuorviante.
Non riusciva ad apprezzare l'espediente visivo, il virtuosismo illusionistico quanto riuscivo ad apprezzarlo io. Perché?
Solo di recente mi sono accorta che il libro sta vivendo una sorta di rinata fortuna di pubblico: lei lo sceglie spesso, lo sfoglia e lo commenta da sola, dimostrando di averne colto appieno il potenziale e la peculiarità. Allora la senti che parla da sola e fa, tipo:
"Cappuccetto Losso hai paua del lupo? Ma noooooo! Sono gli occhi del pa-vo-ne! Vedi? Cappuccetto Losso, non devi avele paua del lupo, lo sai?"

Quindi, siccome sono una madre un po' secchiona, mi sono ricordata della mia tesina sulla teoria della visione, che tanto era stata lodata dal mio prof di critica d'arte, e di quanto mi aveva affascinato il processo di sintesi attuato dal cervello nel dare un senso ai messaggi puramente visivi dell'occhio:
La teoria percettiva, che nell’ultimo secolo ha praticamente dominato la scena della psicologia, afferma che la nostra esperienza ci insegna come trarre conclusioni generali sul mondo a partire da informazioni sensoriali molto limitate.
Evidentemente questo processo, che tendiamo a considerare scontato e immediato, nei bambini molto piccoli non lo è affatto. Ecco perché mi azzarderei a dire che forse ho toppato in pieno nell'attribuire a questo libro una eccessiva semplicità di ricezione, ed ecco perché credo che vada bene per i bimbi che si avviano ai tre, piuttosto che ai due anni.

Ma comunque: siccome che sono anche molto orgogliosa delle recensioni attribuite alla penna di Mimi e pubblicate sul suo profilo Anobii che nessuno si fila, ecco quella riferita al libro di cui, in un sobrio equilibrio di serietà e idiozia. Enjoy yourselves:

Ambiguità percettiva o disturbo paranoide?

- Lupo, lupo, ma ci sei?
- Se ci fossi ti mangerei!
Per nulla rassicurante, come risposta, direi!
Niente da stupirsi se la povera Cappuccetto Rosso ha finito col maturare, sin dalla più tenera età, una palese sindrome paranoico-persecutoria che la induce a vedere o a immaginare lupi in agguato dietro ogni pagina... del resto la piccola cova nel profondo della sua psiche i postumi di un trauma di non facile rimozione, se si pensa alle ore che ha dovuto passare costipata nella cavità gastrica del lupo in compagnia di sua nonna.
O forse sta solo giocando con le forme e i colori, con i motivi della collana di mamma e le ombre nodose dei tronchi d'albero, e ci mostra come sia facile lasciarsi ingannare dai sensi, fuorviare da facili aspettative, e correre a conclusioni affrettate là dove non vediamo chiaro, trasfigurando nelle nostre più grandi paure ogni singolo aspetto del reale, che siano fiori, pesci, pavoni o ragni pelosi...


(Mamma, guadda: semblo io!)

 

 
     (Mamma, guadda: sembli te!)


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