sabato 30 aprile 2011

Io non sono portata per i resoconti

Abbiamo avuto una settimana intensa e faticosa, ed ora, come accade nella Bibbia, passiamo un sonnolento sabato di riposo.
La mamma con l'affezionata tendinite e una nuova inaspettata graditissima visita: la cervicale. Così impara ad andare in giro in bicicletta con la magliettina a mezze maniche e niente giacca, come una giovincella che ormai già più non è, con quei capelli tagliati corti sul collo a salire come Creamy. E impara anche a lavarseli alle 11 di sera, i capelli, che poi le rimangono umidi tutta la notte malgrado il fon.
La figlia spossata dai ripetuti sonnellini saltati o abbreviati per cause di forza maggiore, trapani o giri in bici con mamma per commissioni che siano, o visite di zii, o riadattamenti logistici della modalità del sonno.
Zorro con la Miaoite acutizzata e Panzumen abbacchiato nella cesta di vimini in terrazza, nel senso che pare proprio un abbacchio, pronto per l'arrosto con patate.

E comunque soddisfatte di aver portato a termine molti dei nostri obiettivi.
Andiamo per ordine:

Lunedì.
La nostra festa della Liberazione è stata così: come da tradizione gita fuori porta in visita a vecchi amici, cibo, relax, e un po' di passeggiata, malgrado il tempo non promettesse nulla di buono.

Però è stata l'occasione per sperimentare la pittoresca fascia porta-bebé, che è stato anche il primo regalo ricevuto come mamma, un numero imprecisato di mesi fa.
Ricordo la sera che ricevetti il dono, con le lacrime strozzate in gola, mentre facevo le prove con l'ingombro della pancia e l'enorme elefante di peluche a sostituire il nascituro ancora senza identità. I primi tentativi di imbragarci dentro una recalcitrante pupa di due mesi, mi fecero desistere da ulteriori sperimentazioni.
Stavolta però non è andata malaccio:




Certo la tecnica va affinata: la pupa rimaneva sempre con il culo culetto sederino di fuori e iniziava, dopo qualche galoppata con tanto di schiocco di lingua e nitriti materni, a sprofondare sempre più nel buco formato tra i lembi della fascia (e vi risparmio la sequenza di foto in cui, in due, tentiamo disperatamente di annodarla).

Inerpicati sul Monte Serra...

...abbiamo sofferto un pochino il freddo, soprattutto un certo padre tamarramente in canottiera...


...e poi... E poi l'abbiamo visto, lassù, tra le montagne!

Ma sì! Era proprio lui!

 
Il Dalai Lama!


Qualcuno aveva lasciato un messaggio per noi, lassù... lo riuscite a leggere?


 Vedi un po' dove bisogna andare a finire per trovare le risposte giuste.


Dovendo scegliere tra il mettere a fuoco le rocce o il fantastico quartetto di improbabili montanari, ho optato per la prima, così nessuno potrà lagnarsi per violazione di privacy e utilizzo illecito della propria immagine.

Direi che ce ne ho messo di tempo per pubblicare le foto di Pasquetta (manco dovessi portarle a sviluppare!)
Di questo passo a Natale avrò finito il resoconto settimanale.
Non mi arrendo.
E voi ricordatevi il messaggio del Dalai Lama, lassù, tra le montagne di Calci:
Abbiate fede!

(La mia intenzione iniziale era di redigere il resoconto dell'intera settimana, ma già mi sono stancata, e poi nel frattempo si è svegliata la pupa, l'ho cambiata, abbiamo fatto il bagnetto coi tuffi, lotta greco-romana per rivestirla e ora, dopo innumerevoli riletture sempre della stesso libretto, l'ho infilata nel seggiolone in attesa della pappa: sono proprio una pessima blogger!)

PS.
Queste io e lei nella giornata di oggi.

Bella l'idea di rimettere il divano in terrazza!
Meno bella l'idea di rimettere il potus in terrazza...


mercoledì 27 aprile 2011

Chi la ferma più

Per la serie La vita degli oggetti
ecco a voi:
Storia di una scatola di cartone che riuscì a fare molta strada.

La pupa l'altra sera ha scovato in un angolo sotto al tavolo della cucina, la scatola del fantastico tritatutto...
...abbandonata e in disuso, e ha deciso che quella scatola poteva diventare molto di più di una semplice scatola...
... Per esempio...



 Un deambulatore!!!

Non vorreste tutti per i vostri bambini un oggetto così? Versatile, confortevole, pratico ed economico: il deambulatore è quello che ogni bambino desidera!
Mamme, affrettatevi: è disponibile solo in edizione limitata.

 Non ha bisogno di ampi spazi di manovra...

 ... ed è facilissimo da parcheggiare.

Il deambulatore è il migliore e il più sicuro mezzo di trasporto per i vostri figli!




(Raccomandato da Quattroruote)

Scusate l'intrusione pubblicitaria, ma ogni tanto fa comodo anche avere qualche sponsor che ti finanzia! Spero che capirete.

La pupa è scomparsa dietro il muro del corridoio e non se ne hanno da allora più notizie.
Se qualcuno di voi la vedesse girare con una scatola, è pregato di contattarmi.
(Vista così però casa nostra sembra grandissima!)

La pupa sta spostando ogni giorno più in là i propri orizzonti motori...

E siamo appena all'inizio, temo!

domenica 24 aprile 2011

L'equilibrista


L'equilibrista avanza un passo alla volta.
Non pensa al dopo, nè al prima, pensa all'ora.
Non si volta a guardare quanta strada ha già fatto, sulla sua fune tesa, nè si distrae a contare i
passi che gli restano per arrivare dall'altra parte.
Non è l'arrivo per lui la cosa più importante, quanto il percorso.
Non è per vederlo toccare terra sano e salvo che tutti lo guardano, nasi in sù, ma per vederlo avanzare, un piede leva, l'altro metti, in linea retta su quella corda tesa, sospesa tra cielo e terra.
Non appartiene alla terra, in quel momento, e non appartiene al cielo: è un essere in bilico tra due realtà, si muove in equilibrio nello spazio sottile tra due baratri.

Mi vien chiesto di raccontare che tipo di mamma sono: daccordo, lo faccio. E che ci vuole?
Poi, più ci penso, e meno ne vengo a capo. Io a mala pena riesco a definirmi come persona, figuriamoci come mamma!
Mamma? Ah, già, perchè sono una mamma, ora. E chi se lo ricordava più! Dovrei segnarmelo da qualche parte, o rischio di cadere dalle nuvole ogni volta che qualcuno mi pone la domanda: "Com'è essere mamma?".

Ecco: nella difficoltà di raccontarmi, ho preso questa immagine.
E' così che mi sento, come mamma. Una mamma in bilico.

Sono alla perenne ricerca di un equilibrio, di un baricentro, di un centro di gravità permanente, se volete. Aggiusto continuamente il tiro mirando a un bersaglio in perpetuo movimento. Adatto i miei ritmi ai suoi, adeguo le mie abitudini alle sue.
Illudermi di poter fare il contrario all'inizio è stato un vano miraggio, e non è servito a molto: mi sono ritrovata sempre ad annaspare nella sabbia.
Ora ci sto provando, un passo alla volta, cercando il giusto equilibrio su quella corda tesa, che segna il percorso dei miei giorni. Tesa perchè se no inizia a oscillare e a ondeggiare a ogni mia più piccola incertezza, a ogni seppur lieve alito di vento: è tesa che deve stare.

Equilibrio, a pensarci bene, è una bella parola: contiene in sè anche l'idea di librarsi. E il significato di misura. Come fosse un librarsi in aria, ma con misura, senza esagerare.
Appunto.

Mi libro quindi, ma non sono un'acrobata: non so volare da un trapezio all'altro, volteggiando su me stessa in mille piroette. Procedo sulla mia fune, con calma e attenzione.
Non sono in grado di fare salti mortali, io; non riesco a fare bene più di una cosa insieme.
Faccio la mamma, per ora, e cammino adagio.
Perchè pensare a quel che verrà dopo? No, non ho bisogno di pensarci, ora: mi concentro sull'attimo presente, nel suo divenire, che già un momento dopo non c'è più.

E poi cosa mi sento?
Mi sento che ora ce la devo fare da sola, più o meno. Che sì: tanti ti guardano, da laggiù, e ti possono dare indicazioni, dirti "Che fai? Non così!" "Metti il piede là!", "Stai attenta che così non va!", ma là in cima ci sto io e basta, e la traversata sono da sola a farla. Lo so che da giù, con i piedi ben piantati sulla terra, tutto sembra più facile, e lineare. Lo so: ci sono stata anch'io.
Ma quassù è diverso.

Che sarà mai essere mamma? Non è poi così gravoso! Non ci vuole mica una laurea! Possono riuscirci tutte.
Sì', lo so, che l'ho sempre pensato anch'io. Ma convinta, eh! E che ci vuole! Sarà grosso modo come avere un cane... peccato che io ho sempre avuto solo gatti. E non giocavo con le bambole, da piccola.
Però ero una brava sorella maggiore, affettuosa, e molto protettiva. Orgogliosa anche, ma senza smancerie.
E così sono forse anche come madre, ma ancora devo spiegare bene a me stessa quale sia il mio ruolo, che forse mi sento ancora un po' troppo sorella maggiore, e poco mamma.

Ed è bello essere mamma? Mi chiedono ancora. Sì, bello. E' faticoso però, e questo non l'avevo messo in conto.
Ma non è per Lei, che sia faticoso.
La fatica più grande è questo divenire, questo percorso in equilibrio sospeso tra il non essere e l'essere madre. Amleticamente parlando.
Io non sto ancora nè di là né di qua: non so bene quale sia il mio posto e in effetti mi sento sempre un poco fuori posto.

Nei negozi, quando mi informo sul prezzo dei paracolpi per il lettino e la commessa mi domanda: "Di che colore è la cameretta? Così glie ne mostro uno abbinato" e io penso "Cameretta?", e divento io di mille colori mentre cerco una scusa per scappare con nonchalance perchè intanto ho sbirciato il prezzo nel catalogo.
Ai giardini, quando mi fanno indirettamente notare che la bambina è troppo piccola per giocare sul tappeto elastico ("Lorenzo, stai attento! Non saltare lì! Non hai visto che c'è una bambina piccolissima?").
Per strada, quando mi chiedono se non fa un po' troppo freddo per portare la bimba scosciata sul seggiolino della bici.

Ma intanto non mi sento più nemmeno di là: non rimpiango la mia vita senza di Lei, i tempi sfasati, gli orari impossibili per conciliare due lavori e le uscite notturne con gli amici, la libertà di prendere e andare...
Anzi sì, quella un poco mi manca. Ma ne ho acquisite altre di libertà: la libertà dei pomeriggi stravaccata sul tappeto a giocare senza sensi di colpa; la libertà di cantare male canzoni stravecchie, e ci sarà sempre qualcuno che mi ascolta rapito, perchè non ha mai sentito niente di simile in vita sua; la libertà di mettere i calzini a righe con le scarpe aperte, sotto i leggins e i pantaloni al ginocchio, vestirmi a minchia, uscire spettinata e ricevere complimenti lo stesso; la libertà di non avere impegni inderogabili; la libertà di rimandare tutto ad altri tempi, e nel frattempo pensare solo a star con Lei.

E così a volte ancora indugio tra queste due estremità della corda tesa, ciò che lascio, ciò che mi aspetta, troppe cose da finire, lasciate a metà, sospese anche loro.

Chissà che madre diventerò.
Per ora sono una madre che gira in bicicletta con la bimba sul manubrio, e che a volte canta pedalando.
Sono una madre che se il biscotto che sta mangiando finisce a terra, lo raccoglie, ci soffia sopra, si guarda intorno, e glie lo ridà.
Sono una madre che "E vabbé se vuoi proprio mangiarti la pianta grassa fallo; se devi urlare così ti lascio in pace: magiatele, vedrai che schifo che fanno" e corro a vedere su internet se mai non fosse tossica, la pianta, che mi si avvelena la bambina.
Sono una madre che anzicché andare a dormire presto per svegliarsi all'alba e iniziare a pulire casa, rimane alzata fino alle due davanti al computer, e la mattina riemerge dal suo coma al suono di "Mamma be-be!"
Sono una madre un po' distratta, ma senza esagerare. Un po' arrangiona ma senza sbragare. Ritardataria, ma sto migliorando. Leggermente sboccata, ma cerco di rimediare. Piuttosto pigra, ma da quando Lei gattona il mocio è diventato un'appendice di me, e la scopa elettrica è perennemente in carica.

Stringo il mio bilanciere e mantengo l'equilibrio, aspettando il momento in cui ci saprò danzare, su quella corda tesa.
Che poi il mio bilanciere sarebbe Lei.
E' lì, seduta, che mi guarda, accigliata.

"Be'?" Le chiedo, sperando che emetta il verdetto finale con cui chiudere questa autoanalisi che sta diventando penosa.
"Be-Be!" Mi risponde.
Perfetto!


Con questo post partecipo al contest di Mamma Moglie  Donna, Festa della mamma: festeggiamoci raccontandoci (bisogna vedere se verrà ammesso!)


giovedì 21 aprile 2011

Una stagione: la primavera #4

Se ce la faccio a mantenere la costanza con questa rubrica del giovedi fino alla fine, potrò ritenermi soddisfatta, giacchè la primavera è la stagione che amo di più, sebbene mi distrugga...

I colori della primavera
GIALLO

macchie di giallo
 Non saran belli, ma è quanto di meglio le nostre piante grasse siano riuscite a dare come loro contributo alla primavera.

punto di giallo
 Va be', l'avete capito che sulla botanica non sono affatto ferrata.

Fiore di bosco.
(Anemone selvatico. Cfr. Mam)
mare di giallo
Mia madre ha detto che sono rape.
Anche la rapa ha la sua bellezza.

Questo post partecipa alla rubrica "Una stagione: la primavera" di Kosenrufu Mama.

(Vedi anche su questo blog: Una stagione: la primavera #1 

mercoledì 20 aprile 2011

Venuta al mondo


Sono venuta al mondo in un primo pomeriggio di metà ottobre di quasi un trentennio fa.

Era l'anno dello scandalo P2, che in Italia aveva visto coinvolte tante personalità di riguardo.
L'anno in cui si votava per il referendum sull'aborto.
L'anno che aveva visto convolare a nozze Carlo d'Inghilterra e Lady Diana Spencer.
L'anno dell'arresto di Mario Moretti, esponente più in vista delle BR, esecutore dell'omicidio Moro.
L'anno in cui l'IBM lancia sul mercato il primo PC.
L'anno dell'esordio musicale dei Metallica.
L'anno in cui era morto a Roma Rino Gaetano, investito da un'auto.
L'anno in cui, a Miami, era morto anche Robert Nesta Marley, in arte Bob, ucciso da un melanoma maligno all'alluce destro.
E quell'anno, in estate, la televisione italiana aveva trasmesso, a reti unificate, la lenta agonia di un bambino di sei anni che era caduto dentro un pozzo e non si era riusciti a tirare fuori.
Era l'anno dell'attentato a Carol Woitila, papa Giovani Paolo II, in Piazza San Pietro.
In Francia veniva abolita la pena di morte.
E fu in questo anno già gravido di eventi, più o meno luttuosi,che si inserisce anche la mia storia.

Quel giorno, una settimana dopo l'assassinio di Sadat, il capo maresciallo delle flotta aerea egiziana, Hosni Mubarak diventava presidente dell'Egitto, e lo sarebbe rimasto fino al febbraio del 2011.
Quel giorno era mercoledi.

Quel giorno una donna alla sua terza gravidanza, nel suo appartamento all'ottavo piano della periferia romana, iniziava a sentire ben noti crampi al basso ventre.

Ma è a questo punto che i dati certi a nostra disposizione iniziano a mancare, che Wikipedia non sopperisce più alle faglie della memoria e della conoscenza, che il confine tra realtà storica e leggenda inizia a farsi sottile e labile. E' a questo punto che devo iniziare ad affidarmi ai ricordi di resoconti, e di racconti uditi e ripetuti tante di quelle volte, da divenir racconti di ricordi di racconti fatti precedentemente. Sempre un pochino più mitologici del reale, ma fin dove, è impossibile dirlo. Per me, che raccolgo la testimonianza da destinataria, quanto per la narratrice stessa, che rivive con sguardo di volta in volta diverso quegli istanti un tempo vissuti, ora ricordati.

E dunque non saprei dire, quel giorno, che tempo facesse, per esempio, ma posso provare a immaginarlo, perchè conosco gli autunni romani, nei primi mesi del loro ingresso, variopinti di colori caldi e fruscianti di un tappeto di foglie secche sui marciapiedi, e i loro cieli tersi, di un azzurro impeccabile, intenso come solo in quei mesi dell'anno riesce ad essere, vergato di tanto in tanto di pennacchi di nuvole, che tanti artisti barocchi hanno ispirato, sulle pareti delle sue chiese storiche.

E quindi quel giorno io me lo immagino così: caldo e luminoso, di quella luce dorata di un sole declinante verso sud, che ha già iniziato la sua parabola discendente cedendo le sue ore diurne alla notte, crepitante di passi sui selciati tappezzati di fogliame colorato, appena malinconico per qull'addio momentaneo al tepore e alla luce che sappiamo di godere ancora per poco, per gli ultimi, privilegiati giorni.

E da qui inizia la leggenda.
Narra la mia fonte, che quel giorno iniziò dunque ad avvertire a intermittenze regolari, questi sospetti dolori che lei da esperta qual era, credo avesse dovuto riconoscere subito.
Da esperta qual era però, ben sapeva che la questione sarebbe stata lunga e snervante, se avesse cominciato sin da subito a dare in escandescenze, e quindi, da esperta qual era, trovò il modo di sedare temporaneamente i dolorosi preamboli di quell'incipiente travaglio con ripetute docce fredde (o erano calde? Dovrei tornare a consultare la mia fonte, ma la cosa al momento ha scarsa importanza).

Narra ancora la mia fonte, che quando si rese conto che la situazione stava rapidamente precipitando verso un parto accelerato, entrò in uno stato di concreta agitazione, poichè trovavasi al momento sola in casa, e facendosi impellente la necessità di raggiungere il più vicino ospedale, non aveva chi potesse accompagnarvela in auto, poichè il di lei marito risultava al momento irreperibile.

Ricordo, tanto per definire l'ambientazione storica, che i cellulari all'epoca erano ancora ben lungi dall'essere immessi sul mercato, e se già ne circolasse qualche prototipo, questo lo ignoro.
Fatto sta che la mia fonte dichiara di aver provato una grande angoscia, e racconta di come avesse chiesto aiuto alla signora che allora prestava servizio domestico presso l'abitazione dei suoceri, che abitavano sul pianerottolo, nell'appartamento di fronte del medesimo condominio all'ottavo piano di quella periferia romana.

Tal signora la carica in macchina e insieme si dirigono verso l'ospedale.

E qui per figurarvi la scena non dovete far altro che attingere alle numerosissime riproduzioni televisive, cinematografiche e pubblicitarie, che nel corso di decenni hanno arricchito la cultura collettiva di un campionario nutritissimo di casi di parto precipitoso, corredati da corsa all'ultimo minuto all'ospedale, con tanto di donna partoriente sdraiata nel sedile posteriore, urla strazianti e slaloom giganti in mezzo al traffico comatoso della capitale, tra comici e grotteschi inconvenienti e contrattempi di ogni tipo.
Perché pare che proprio così sia andata anche quella volta.

A detta della mia fonte, quel viaggio per arrivare in ospedale fu una corsa matta e disperatissima contro il tempo e le doglie, in un'auto alla cui guida era una persona che, oltre a possedere scarsissimi rudimenti in tema di conduzione di veicoli a motore, poco ne sapeva anche di logistica stradale, e assai male conosceva anche la sistemazione urbanistica delle città e la dinamica dei suoi percorsi viari.
E quindi la mia fonte racconta di come viaggiasse col cuore in gola su quel sedile posteriore (o era anteriore?), convinta che proprio lì lei avrebbe infine partorito, per quanto si sforzasse di concentrare la totalità delle proprie energie fisiche e psichiche nel tentativo di frenare o quanto meno rallentare quell'evento.

Racconta poi, la mia fonte, di come alla fine fossero arrivate all'ospedale sul filo del rasoio, di come l'avessero caricata sul lettino e scarrozzata di corsa per i corridoi  e dentro gli ascensori, tanto che, in questo scarrozzamento folle,  si perse persino la borsa del corredino della bimba che stava per venire al mondo, di come poi questa meravigliosa venuta al mondo si fosse consumata sulla soglia della sala parto, anzi no, che sto dicendo, nel corridoio del reparto maternità, anzi, no: nell'ascensore stesso che conduceva al piano.
E di come poi la neonata sia stata piazzata per un tempo non precisato sotto una lampada riscaldante, poiché, come detto prima, non si trovavano più i vestitini da infilarle, smarriti durante lo scarrozzamento folle della madre partoriente per i corridoi della struttura ospedaliera.

Per questo motivo, così credevo da piccola quando mi veniva raccontata per l'ennesima volta questa storia, poiché cioè ero rimasta nuda così a lungo, avevo avuto i miei primi brividi di freddo, di cui conservavo traccia in quella strana zona di pelle ruvida e granulosa che ho sempre avuto sul braccio destro, all'altezza del gomito, che sembra proprio come se avessi la pelle d'oca solo in quel punto, e che mio padre chiamava, con ironico motteggio, "pelle da rinoceronte", definizione che io accettavo e ripetevo con guerrigliero orgoglio.
I bambini si danno strane e fantasiose spiegazioni a fenomeni non altrimenti spiegabili, e se le fanno bastare.
I bambini hanno bisogno di attribuire origini leggendarie ai fenomeni che li circondano, compresa la loro stessa esistenza.
Il racconto della mia venuta al mondo, così come quella bizzarra pelle da rinoceronte che ho tuttora sul braccio, mi inorgoglivano smisuratamente.

Gli adulti dal canto loro finiscono per dare un peso eccessivo ad eventi che si verificano in fin dei conti per null'altro se non il caso, e spesso la nostra interpretazione di esso contribuisce non poco a imprimere una forma definita anche a ciò che viene dopo.

Solo molti anni dopo, trovandomi a mia volta dalla parte di colei che dà alla luce, e non di colei che viene alla luce, ho riconsiderato quel racconto dal punto di vista di chi tante volte me lo aveva narrato, e non dal punto di vista di una bambina che, a detta degli adulti, "non vedeva l'ora di uscire fuori" oppure "aveva proprio deciso che era ora di vedere il mondo", o che infine "non aveva più voglia di aspettare ancora".
Ne vien fuori l'immagine di un neonato predestinato al tagliar corto, al "lasciate fare a me", all' "ora basta, facciamola finita", o al "non ho bisogno di aiuto, io: faccio da sola, grazie" che è quanto meno un azzardo della pseudo-scienza del dimmi-come-sei-nato-e-ti-dirò-chi-sei, che va fortissimo ultimamente.
Del resto è stata un'etichetta che mi sono in parte dovuta accollare nel mio crescere, quella della figlia indipendente e autonoma, che vuole fare da sola, e che ha condizionato non poco anche alcune scelte della mia vita, spingendomi spesso a cacciarmi in situazioni per le quali forse non ero proprio all'altezza.
O magari c'era davvero un poco di verità in quel mio voler venire alla luce a tutti i costi quando lo dico io e solo quando lo decido io.

Ci sarà pure un motivo, dico io, se i Greci raccontavano che Minerva, dea della saggezza e della giustizia, fosse stata partorita dalla testa di Zeus, signore dell'Olimpo.

E forse non tutti sanno che la poetica nascita di Venere, dea dell'erotismo e dell'amore, dalla schiuma del mare, fosse stata in realtà dovuta al fatto che, tra quei flutti, il nostro Zeus avesse gettato i testicoli amputati del suo crudele padre Crono, divoratore dei propri figli.

Fatto sta che in ogni nascita credo ci sia quel tanto che basta di leggendario. E' nello stabilire in quanta parte questo leggendario sia presente, che sta il difficile.
Come l'arrivo tardivo del padre irreperibile all'ospedale, che pare abbia pronunciato, nel suo presentarsi a cose fatte, una frase del genere: "Allora, quanto manca al parto?"; o forse: "Sono già iniziate le contrazioni?", quando la sua adorabile figlioletta già si sollazzava nella culletta accanto agli altri bebé della nursery.
Ecco, come questa.

E mi viene inevitabilmente da pensare a come racconterò a mia figlia la sua venuta al mondo, e cosa lei ne penserà, e come questo racconto potrà condizionare l'immagine che lei stessa avrà di sé nel tempo a venire.
E anche se mi dico, con un pizzico di delusione e rammarico, che quella venuta al mondo in realtà ha avuto ben poco di leggendario e iperbolico, sono sicura del fatto che solo il tempo saprà tirar fuori dalle nebbie della mia memoria quanto di incredibile e mitologico si racchiudeva in realtà anche nella nascita di mia figlia, a pensarci bene.
Perché in fondo ogni nascita ha del miracoloso.

Con questo post rispondo all'invito di Mamma è in pausa caffé, qui.

Se anche voi volete arricchire il repertorio mitografico con la vostra leggenda, prego: fate pure.
Non potrà che essere interessante. E istruttivo!

Aggiornamento a dì 7/12/211: bannerizzo e partecipo al contest (infine) indetto dalla mia comare Trimamma:


lunedì 18 aprile 2011

9 mesi con te

Ok, starò molto attenta a non cadere nel sentimentale, ma è dura.
Nono Pupa-day.
Questo mese non ho tanta voglia di andare a verificare sul manuale per mamme impedite i parametri di crescita che vengono presi come indicativi dello sviluppo psico-fisico del bambino.
Questo mese mi accorgo che non mi interessa poi tanto che la pupa abbia imparato a prendere gli oggetti piccoli tra il pollice e l'indice anzicché utilizzare la mano intera (anche se lo fa), o se riesce a sollevarsi dalla posizione seduta a quella eretta.
Questo mese mi rendo conto di avere accanto una persona che non è un fagotto frignante con dei bisogni fisiologici da accudire, e nemmeno una copia in piccolo di me, o un'appendice della mia vita; una persona che mi mostra di giorno in giorno di possedere caretteristiche proprie, che sviluppa una propria personalità, che magari cambierà col tempo innumerevoli volte, che ha gusti e propensioni proprie, che capisce situazioni e intuisce assai meglio di me che tipo di persona si trova davanti, indovina gli stati d'animo, comprende lo scherzo, invita al gioco, sfida e stuzzica, si entusiasma, si incuriosisce per il mondo circostante e richiama la mia attenzione su un'infinità di invisibili insignificanti particolari, che io avevo finora sempre dato per scontati.

Insomma, io e la pupa ormai ci conosciamo bene, dopo nove mesi di assidua frequesntazione e continuata (FAC).
Cosa ha imparato la pupa questo mese?
Tanto per proseguire questa tradizione inaugurata qui, su queste pagine. Tanto per fare il punto della situazione.
Un poco ve l'ho detto già strada facendo (qui e qui).
Però mi riesce difficile spiegare puntualmente l'universo sfaccettato che la pupa ha creato intorno a sé, le abitudini, le cose strane che fa, le smorfie, i versi, le buffonate...
La pupa è una che a seconda dei giorni pigola, ruggisce, miagola, gorgoglia, schiocca o emette versi degni del film L'Esorcista.
La pupa smania per afferrare il cucchiaio e portarselo alla bocca da sola, ma poi si scorda, si distrae e lo impugna come la spada di Grayskull, mandando in malora la pastina.
La pupa divide la pera a metà con la mamma: la mamma lascia metà intera per sé, e gratta per lei la metà restante. Solo che alla fine la pupa mangerà la pera intera e la mamma dovrà ingollarsi quella grattata.
La pupa ama smanettare con telefoni e telecomandi, riuscendo quasi sempre a metterli fuori uso. Riesce anche a capire al volo quand'è che le state propinando un surrogato inutilizzabile, che sia il vecchio telecomando del videoregistratore che non avete più, o il cellulare rotto di tre anni fa, o il suo telefono giocattolo che canta "Giragirailmondotuttotondo" accendendosi come una fiera di paese. In tal caso perde qualsiasi attrattiva per l'oggetto in questione e sarà capace di scagliarlo lontano da sè con una violenza che non le immaginereste.
La pupa pretende anche di togliere il telefono di mano alla mamma mentre lei parla, ma quando la fai parlare in viva voce con la persona che è in linea si azzittisce di botto, preme tutti i tasti a casaccio e chiude la conversazione.
Fa "ciao" con la mano quando qualcuno la saluta, fa "no" con la testa e riconosce la parola sia in italiano che in arabo, prova a battere le mani senza produrre suono, indica il mondo con l'indice teso chiamando tutto "Be Be", strilla di piacere alla vista dei gatti, le piace l'acqua frizzante, risponde "Eeee!" quando sente qualcuno gridare, fa gli scherzi a mamma nascondendosi sotto la coperta.

Alla pupa piacciono un sacco le seguenti cose:
  • guardare la pupa allo specchio e  cercare di prenderla di sorpresa;
  • fare la ola con la mamma;
  • la mamma che canta, ed eventualmente balla, il ballo del qua qua (piuttosto umiliante. Cosa non si fa per i figli);
  • quando la mamma si passa sulla faccia le piante dei suoi piedini;
  • i peli del babbo;
  • i gatti che compaiono dietro il vetro della portafinestra chiedendo di farsi aprire;
  • il fon;
  • fare i tuffi durante il bagnetto;
  • distruggere le torri che la mamma innalza con le costruzioni;
  • il suo gatto di peluches di Ikea;
  • mettersi la tenda in faccia tipo il piccolo Buddha (no: il film era L'ultimo imperatore);
  • quando Zorro fa Miao-Miaoo;
  • le filastrocche sarde;
  • la tazza con gli animali dove mamma prende il caffé la mattina;
  • la foto di mamma piccola con nonno attaccata sopra il letto;
  • la bimba con la faccia da pazza del desk-top (molto simile a quella dello specchio);
  • rincorrere i piccioni al parco;
  • la scopa;
  • l'aspirapolvere (futuro da casalinga di successo?);
  • i giochi scalmanati con Master;
  • le visite della nonna;
  • fare le pernacchie sulla pancia di mamma (eh, sì: in casa nostra abbiamo invertito i ruoli);
  • i cartoni animati di Al-jazeera;
  • qualsiasi tipo di pecora o simile (Be Be!);
  • le lampadine;
  • buttarsi dal letto (di testa);
  • mettere le mani nella ciotola dei gatti;
  • vedere i cani per strada (Be Be!);
  • vedere i bambini per strada (Be Be!);
  • le piante grasse in terrazza (Be Be!).
Cara pupetta, se ben ti conosco, somigli ben poco alla tua mamma, e ciò non può che essere un fattore positivo. Sei: solare, allegra, socievole, coraggiosa, intraprendente, volitiva, curiosa, testarda e un tantino prepotente, hai uno spiccato senso del ritmo e ami ballare.

A nove mesi:
 Ti pavoneggi col cappello di babbo,

 hai capito benissimo a cosa serve la macchina fotografica,

 ti strafoghi di mollette,

 esplori il mondo strisciando sui gomiti come i marines,

 ti piace stare a piedi nudi come mamma,

 puoi già vantare una foto in piazza dei Miracoli con il duomo di sottofondo (ora ti manca solo quella in cui sostieni con una mano la torre!),

 preferisci il cibo alle creazioni artistiche,

 ti cimenti in imprese al di sopra della tua portata,

 ti pavoneggi ancora con i cappelli di babbo,

 credi che tutto ciò che è bello si possa afferrare,

 sei affascinata dal mare,

 anche se non ti tieni ancora in piedi, nessuno ti tiene lontana dal tappeto elastico,

 non ti piacciono i vestiti (da femmina) perchè ti fanno inciampare quando gattoni,

 sei già al secondo paio di scarpe,

e al secondo dente spuntato,

E sei a tutti gli effetti una buffona!

Come può tutto questo entrare in 8 Kg e mezzo di persona?

(Auguri pupa: a quest'ora, nove mesi fa, ti ho vista per la prima volta)

domenica 17 aprile 2011

Reparto maternità

Ieri sono stata all'ospedale a trovare la amica Samantha, appena diventata mamma, e a vedere la sua bimba appena nata, che però non ho visto un gran che, trovandosi lei in ultima fila della nursery e sovrastata da montagne di coperte che ne occultavano la faccia ai visitatori di là dal vetro.
Entrare nell'edificio 2 del Santa Chiara di Pisa, ostetricia-ginecologia-neonatologia, declassata a rango di visitatrice e non di gravida/partoriente/puerpera mi ha fatto uno strano effetto.

Quando vi trasportavo la mia pancia per gli esami di routine mi sentivo in un certo senso importante: in fondo tutta quella struttura esisteva per me.
Quando mi ci recai per partorire ero un po' spaurita e poco cosciente di ciò che mi stava per accadere.
Imparai nei giorni successivi al parto, che alla fine sono solo due prima che ti rimandino a casa a calci, ma che in quel particolare stato emotivo sembrano dilatarsi enormemente, ad ambientarmi e a considerare i tre piani di quell'edificio un pochino come casa mia. Dopo tutto mi permettevo di gironzolarci in camicia da notte e ciabatte di gomma, su e giù dal terzo al secondo piano almeno 6 volte al giorno per gli orari dell'allattamento, più varie ed eventuali visite di parenti e colleghe, e amici ritardatari, che non coincidevano mai con gli orari previsti per le visite.

Stavolta è stato diverso: con sollievo e senso di liberazione mi sono goduta il mio stato di anonimato in mezzo alla calca di parenti assiepati davanti ai neonati messi in vetrina, anche se un poco dentro di me una vocina sembrava gridare, con flebile voce, inascoltata e sconsolata: "Ehi, ma c'ero anch'io qui! Sono stata anche io come voi! Sono una di voi!"
Stai zitta, che è meglio.

Decisamente ritornare sul luogo del delitto ha avuto l'effetto inimmaginato di ripercorrere quel periodo del mio divenire madre con una lucidità e una consapevolezza che allora non ero riuscita ad avere, presa com'ero dall'attendere alle mille e una incombenze che all'improvviso si presentano all'attenzione della neo-mamma che ero stata.

Ho rivisto le madri sfatte, con pance che non sapresti dire se sono da pre- o da post-parto, sciabattare per i corridoi del reparto maternità trascinando le loro occhiaie da 40 ore di travaglio e i loro passi da papera col pannolone, ho rivissuto gli assurdi orari per le poppate, con la bimba che non si voleva mai svegliare e l'odiosa aggiunta artificiale che le infermiere imponevano sistematicamente dopo la pesata, perché puntualmente sembrava che fossi l'unica a non avere ancora prodotto una goccia di latte.
La nursery affollata di madri con le puppe al vento, che sembrava di stare a metà tra un dipinto di Poussin e un film di Tinto Brass.
I ritmi scanditi di quel mondo chiuso, quasi come se fuori tutto si fosse fermato, anche il caldo, e invece facevano 42 gradi all'ombra, perché era luglio.
Le confidenze occasionali con le compagne di poppata, che pareva saremmo diventate amiche per la panza per il resto dei nostri giorni, invece, chi ha mai più sentito l'esigenza di andarle a cercare.

Ero troppo ancora in fieri per rendermi conto realmente di cosa fossi diventata e cose era cambiato, dentro e fuori. E per quanto mi sforzassi di convincermi che realmente qualcosa di speciale, un invisibile ed esclusivo legame si fosse già creato tra me e quella creaturina che rimaneva per il momento stanziata alla nursery, imponendomi solo a orari prefissati il compito di prenderla goffamente in braccio e mimare un'inutile quanto infruttuoso attaccamento al mio seno, la realtà è che questo legame allora non esisteva proprio.


E guardavo le madri uscire strafatte dal gravoso incontro con i loro cuccioli appena sfornati, alcune realmente provate dalla catena di vicende intercorse loro nelle ultime 48 ore o forse meno, e alla fine la mia amica, bella come un fiore, radiante gioia e soddisfazione come chi sa di aver portato a compimento una cosa difficile ma bellissima, fresca come solo i suoi 25 anni le consentono malgrado l'incipiente maternità si faccia sentire come una mazzata. E penso a come dovevo sembrare io a chi mi veniva a trovare in quei giorni strani, che sono sembrati due mesi.

I racconti interminabili sul decorso del parto minuto per minuto. Le lezioni sul come tamponare con alcool denaturato il cordone ombelicale, pratica che molti ospedali hanno smesso di propugnare alle madri in prossimo congedo, e tutte quelle menate che ora mi sembrano lontanissime nel tempo e nella memoria, forse perché non vedevo l'ora di poterle rimuovere, forse perché mi sembra di aver vissuto tutto quel periodo come in trans, e di essermi ripresa psichicamente e mentalmente dal parto solo molti mesi dopo, accorgendomi di non essere più proprio la stessa di prima.

E però è stato strano, ma anche un po' bello.
E mentre me ne venivo via, per tornare dalla mia, di bimba, che mi aspettava a casa, parcheggiata con la zia Master, mi son resa conto che ora finalmente, in questa faticosa primavera, davvero rinasco, e mi sento pronta per quel che verrà dopo, e mi sento pronta al limite anche a ricominciare tutto da capo, con la capacità, forse, di riuscire a relativizzare di più ogni singolo momento di costernazione, e stanchezza, e panico.

Be', ora non prendetemi proprio alla lettera: non è che sto mettendo in lista d'attesa un secondo pupo così su due piedi, ma riguardandomi indietro forse per la prima volta mi accorgo che in fondo non è stato poi così terribile come mi sembrava di ricordare.

O forse ho solo portato a compimento il processo di rimozione di ricordi traumatici messo a punto da secoli e secoli di selezione naturale per consentire il perpetuarsi della specie.
Chissà.

sabato 16 aprile 2011

Navigatore cellulare #2


Missione per me: raggiungere il mercatino dell'usato, che trovasi in zona industriale presso Livorno (solo 15 Km di distanza, dai: ce la posso fare!), trovare e comprare, e quindi caricare in auto, un lettino per la pupa, che oramai, alla soglia dei nove mesi, nello spazio della carrozzina di quando è nata ci entra proprio risicata risicata, al millimetro, e confesso anche che da un po', di fronte ai suoi rapidissimi progressi, vivo nel perenne terrore che un bel giorno riesca a mettersi a sedere da sola, aggrappandosi ai bordi di suddetta carrozzina, suo alloggio notturno, e gettarsi a terra di testa.

Ok, partiamo: l'indirizzo nel Navigatore Silvia l'ho inserito, e il percorso selezionato è quello facile. Devo anche tornare a un'ora decente, che mia madre è a casa con la pupa e alle 3 deve prendere il treno per tornare a Roma.

Passo però prima alle poste a ritirare un po' di contanti per concludere l'acquisto.
Silvia è già in azione e già inizia a starmi piuttosto sulle balle, perchè: "Tra 5 metri, entrare nella rotonda, poi prendere la seconda uscita. Entrare nella rotonda, poi prendere la seconda uscita. Uscita. Ricalcolo percorso. Appena possibile effettuare l'inversione a U".
Io ovviamente sto andando alle poste, e non considero i suoi continui richiami all'ordine. Della serie: ma dove minchia stai andando? Ti ho detto la seconda uscita, non la prima! E mo' perchè caspita di motivo giri a sinistra quando io ti ho detto a destra?

Insomma, ammiro tantissimo Silvia per il suo aplombe e la pazienza dimostrata nei miei riguardi, perché sistematicamente eseguo la manovra contraria a quella che lei mi suggerisce, ma senza scomporsi e senza sproloqui, lei si limita a rielaborare un nuovo percorso e a fornirmi nuove indicazioni, che io puntualmente ignoro. Alla fine sono io a perdere la pazienza, e a zittirla. Parcheggio, scendo, ritiro, rimonto e riparto. Riaccendo Silvia che ora, per dispetto, ci mette dieci minuti buoni per riconnettersi con il suo cervello fluttuante sopra di noi nell'orbita terrestre.
Nel frattempo mi dirigo all'imbocco dell'Aurelia, che fin qui ci so arrivare anche da sola.
Non appena lei torna tra noi, mi intima di svoltare al prossimo svincolo.
Ma come: di già? Silvia, attenta a te! Dove mi vuoi trascinare stavolta? Giurerei che non è di qua che si va. Ma comunque l'assecondo: non sia mai che lei sa di qualche deviazione temporanea del traffico che io invece ignoro, dal basso della mia intelligenza terrestre, e non satellitare.
Intanto fa un caldo boia e l'asfalto sembra fumare. Non riesco a capire se il semaforo è verde, rosso, o fuori uso. Il paesaggio ha una luce stranamente deprimente e grigia, che non coincide con il caldo che fa. Mi suonano da dietro. Ok: sollevo gli occhiali da sole e posso constatare che il semaforo è verde e che fuori c'è una luce che acceca. Scherzi del filtro UVA.
Ma perchè ci mettiamo così tanto ad arrivare? Questa strada non credo di averla mai fatta.
Va be' che non ho selezionato il percorso breve, ma da qui a farmi fare il giro panoramico dell'interland ce ne corre.

Tutte le mie domande trovano una risposta quando in lontananza intravedo un casello autostradale.
Oh porca miseria! NO! Ma questa idiota mi ha preso per la figlia dell'emiro del Dubai?
Poche cose riescono a farmi uscire di testa alla guida come la vista di un pedaggio autostradale.
Le altre sono: la vista di una volante o della polizia stradale, la presenza di una fila di auto chilometrica dietro di me mentre mi si è spenta la macchina e non riesco a farla ripartire.
Inizio a chiedermi se ho inserito il nome della città giusta nell'indirizzo o se per caso non ho digitato Livo, in provincia di Trento, o Livorno in provincia di Torino!

Intanto prendo il biglietto. Va be', dai, non saranno mica 15€ da pagare, mi dico cercando di non farmi prendere dal panico, come spesso accade quando ho a che fare con strade e senso dell'orientamento. Intanto però mi si è spenta la macchina e nello specchietto retrovisore vedo che un'altra mi si è attaccata al culo e per quanto io non riesca a vedere il volto del guidatore, mi sembra di essere in grado di leggergli nel pensiero, e in questo momento sta pensando: "Boia dé! (perchè è livornese) Ma tu guarda questa imbecille che riparte in terza!" E invece io ero in quarta. La gente deve sempre pensare male delle donne al volante!
Quindi metto in folle e, oramai nel pieno panico, dò una bella sgasata a vuoto, che quel maleducato di un livornese se ne ricorderà finché campa. Poi finalmente ingrano in una partenza da formula uno, tanto che Silvia mi fa subito presente: "Ha superato il limite di velocità". E che cavolo! Com'è possibile? Manco sono partita! Devo aver fatto gli 0-60 Km/h in tre secondi netti.

Ma comunque dopo circa 20 minuti arriviamo allo svincolo per Livorno-zona industriale. Peccato che, come ti sbagli? E' chiuso per lavori, e io sono costretta a contravvenire per l'ennesima volta alle indicazioni di Silvia che subito se ne accorge: "Ricalcolo percorso".
Speriamo che questa qui ora non mi faccia girare in tondo per 25 volte tentando disperatamente di farmi imboccare lo svincolo chiuso al traffico.
E invece no: sono stata ingiusta nel giudicare la capacità di adattamento di Silvia, che mi porta quasi subito fuori dall'autostrada e poi a destinazione, prima di proclamare, non senza una certa soddisfazione: "Tra 500 metri: arrivo. Arrivo!" ("Malgrado tu sia una capra e guidare te sia un'impresa da ciclopi, io ti ho portata comunque a destinazione, e me ne vanto". Questo lo pensa ma non lo dice. Non sarebbe professionale).

Insomma: ci ho messo appena un'ora, e ora é mezzogiorno e sudo come fosse Ferragosto.
Dei millecinquecento lettini visti con Hasuna la volta scorsa, col mio pancione da 8 mesi, ne rimangono oggi solo due. Uno è di un bianco triste e ha un materasso piuttosto bassino e con qualche puntolino di muffa. L'altro è un po' più colorato, ha un materasso di gran lunga migliore, completo di lenzuola, federa e cuscino, ma é decisamente in peggiori condizioni, e poi non ha le ruote ed è più basso, perciò, con l'esperienza mammesca che mi sono fatta negli ultimi 8 mesi quasi 9, preferisco optare per quello bianco-triste, perchè più alto salvaguarda le materne ossa lombari nell'impresa plurigiornaliera di piegarsi per mettere a letto una pupa dormiente.

Lasciamo stare l'impresa dello smontaggio e carico del lettino sull'Atos (il portabagagli era ancora carico della legna per le stufa, mai accesa quest'inverno). Dico solo che ci son volute tre menti e sei mani per riuscire nella faticosissima procedura, che alla fine ha comportato pure la rottura di una parte del lettino, che si è aperta a libro.
- Tira di qua.
- Sfiliamo questo, magari il pezzo viene via.
- Queste brucole sono troppo grosse: la vite si spana.
- E' già spanata non vedi? Ma questa è troppo piccola: gira a vuoto.
- E se girassimo il legno anzicchè la vite?
Appunto: il legno si è spaccato, e la signora era mortificata. Se non mi avesse già fatto un cospiquo sconto, credo che me l'avrebbe fatto a quel punto (il box l'ho preso praticamente grats).

Manco stessi tornando dall'acquisto del secolo, risalgo in macchina trionfante e grondante, fiera della mia abilità nel far stare tuto nel ridotto spazio della mia piccola utilitaria. A Tetris ero una campionessa!

Ritornando, mi permetto di ignorare Silvia, mentre il mio cervello vaga leggero per pensieri a catena.
Toh: un aereo. E mi ricordo le lezioni di aereodinamica spicciola impartitemi dal mio amico Riccardo, ora ingegnere aeronautico espatriato. "Davvero un aereo non può stare fermo?" "NO, perchè se no cadrebbe. Come quando dai un calcio a una palla: quella sale e poi a un certo punto scende. Non è che resta in aria ferma." "Capito: come Wile cojote".
Insomma, in men che non si dica mi ritrovo sul Lungarno, a Pisa. Devo aver inserito il pilota automatico, perchè non mi capacito di come ci sia arrivata.

E mentre Silvia ancora continua a suggerirmi di imboccare contromano uno degli innumerevoli vicoli che vi si affacciano, e continua instancabile a ricalcolare percorsi su percorsi, decido che è ora di salutarci: "Ah, tu ancora accesa sei?" Click!

Se non si chiama ingratitudine questa!

Scusa ma che razza di storia è? Una storia così. Una susterata. Una mattina senza la pupa.
Dite che avrei potuta impiegarla meglio?
Come il tempo impiegato a scrivere questi due post in fondo...

venerdì 15 aprile 2011

Navigatore cellulare #1

Bravi, fate bene a correggermi, ché non si dice così, e io non sono più una bambina di 4 o 5 anni, che tanto tanto ci sta che storpi ancora qualche parola, anzi, al limite fa pure tenerezza.
Ma la mia incapacità inveterata e recidiva nel pronunciare correttamente il nome dell'oggetto scelto come titolo, esprime a perfezione la mia essenza troglodita, che mi fa rimanere impantanata nella preistoria del ventesimo secolo, in cui venni alla luce, e mi rende incomprensibile e ostile la quasi totalità degli ammennicoli e archipenzoli che dallo scoccar del nuovo millennio in poi diventarono di ordinaria e quotidiana amministrazione per circa 6 miliardi di persone meno una. Me.
Insomma, basta guardare il lessico che utilizzo: archipenzolo? Questa devo averla riesumata dal ricordo di una versione di greco del liceo, in cui non riuscii a tradurre altrimenti una misteriosa parola, di cui il vocabolario Rocci riportava appunto: archipenzolo. E questa storia già da sé la dice lunga sul mio livello di aggiornamento mentale (dizionario Rocci Greco antico-Italiano, copiright 1943).

Ma veniamo a noi.

- Allora, mamma, io vado eh.
- Vai, tranquilla.
- Torno massimo tra un'oretta, un'oretta e mezzo, così.
- Va bene.

In macchina perdo mezz'ora per programmare il navigatore. E sì che abito in questa città da dieci anni, ci dovrei pure saper arrivare da sola fino a Livorno. Ma io preferisco non fidarmi troppo del mio rinomato senso dell'orientamento, che basta un "lavori in corso", una deviazione, un'uscita sbagliata, e mi ritrovo a Genova. Quindi, giacchè ce n'è la possibilità, mi affido a Silvia, che è il nome della tipa che sta dentro al navigatore, una ragazza compita e precisa fin quasi al puntiglio, con una voce flautata e sensuale e una dizione perfetta, giusto un tantino fischiata sulle "S". Luca, al contrario, ha una voce da babbione in trans: parla come il mio grillo parlante di quando avevo 5 anni (strumento elettronico di rustica tecnologia di inizio anni '80, che si prefiggeva lo scopo di insegnare a leggere e a scrivere ai bambini. Mia madre sostiene che io imparai così).

Il problema non è tanto comunicare a Silvia l'esatta destinazione, quanto piuttosto controllare che lei, in un'impeto di zelo, non scelga per me percorsi alternativi al di fuori della civiltà, come accadde l'ultima volta... Ahi ahi! Esperienza al limite del thriller.
All'epoca ero incinta di 8 mesi (esattamente 17 mesi fa, so) e mi recavo nello stesso medesimo posto di cui oggi, per l'acquisto di un armadio per la camera, che finalmente, dopo 6 anni dal nostro ingresso ne "La Casa", decidevamo, sotto la spinta di quell'essere che covavo nel mio grembo, di rendere un tantino più confortevole, e quindi eliminare la catasta di scatole di cartone entro cui conservavamo il nostro vestiario sostituendole con un avveneristico guardaroba in puro legno massello.
Lo trovammo, per l'appunto, nel nostro antro delle meraviglie privato (Il mercatino di Carlotta!), pressso Livorno, come dicevo, alla modesta cifra di 200€, ma il primo viaggio andò a vuoto, perchè come due macachi che siamo, avevamo dimenticato di prendere le misure della parete, e quindi, temendo di acquistare qualcosa che mai sarebbe entrato nel risicato spazio della nostra alcova, abbiamo lasciato una mezza parola per il mobile, dicendo che saremmo (sarei) tornati nel pomeriggio per concludere l'acquisto.
E quindi la sottoscritta, affidandosi a Silvia, si è imbarcata in un'impresa impossibile che l'ha condotta quasi alla fibrillazione.
Quella santa donna della mia navigatrice mi guidò attraverso stradine sperdute, facendomi uscire quasi subito dalla strada di scorrimento veloce Fi-Pi-Li (Firenze-Pisa-Livorno) che io ben conoscevo come rotta sicura, e conducendomi per campi dove non si vedeva un cristiano o un'abitazione nel raggio del visibile, prima per un'asfaltata del dopo guerra, che aveva più voragini della striscia di Gaza, per cui ho dovuto improvvisare uno slaloom gigante a 15 Km/h per evitare di spaccare un asse della macchina e ritrovarmi in mezzo al deserto dei Tartari con la macchina fuori uso e lei che continuava a ripetere "Proseguire per 3 virgola 8 chilometri". Nel qual caso immaginavo che, come da copione dei migliori film sull'argomento, avrei anche iniziato, di lì a poco, ad avvertire qualche contrazione pre parto, prima di essere inondata nelle mie parti basse da qualcossa che non era pipì. Il pensiero che tutto ciò si sarebbe potuto concretizzare da un momento all'altro nel mio presente, mi formò un nodo a strozzo all'altezza dell'epiglottide e mi prosciugò la salivazione, e per quanto io continuassi a ripetermi "Stai calma, che se no la bambina se ne accorge e si agita, poi magari le viene in mente di accelerare i tempi di uscita", non riuscivo assolutamente a ricacciare nel profondo dei miei visceri quel magone che sentivo montarmi in gola.
Dopo le voragini, la stradina divenne una sorta di montagna russa, perchè l'asfalto aveva subito drastiche deformazioni in seguito all'attacco delle radici di alti pioppi secolari (almeno credo che pioppi fossero, se ben ricordo gli insegnamenti arboricoli di mio padre).
Davvero, non sto esagerando: non ho mai visto in vita mia una roba simile, tanto che pensai: "Ma qui dove caspita sono finita? In un video-game? Forse sto sognando?" E anche qui procedevo a una velocità che sfiorava l'immobilità, e a un certo punto Silvia deve essersi pure stancata, dato che ha iniziato a dire "Ricalcolo percorso", come se avessi sbagliato strada, ma io sempre dritta andavo, che non si poteva girare nè a destra né a sinistra, che la strada una era. Insomma, la cosa mi mise addosso non poca nuova agitazione, dato che come potete constatare il periodare dei miei pensieri iniziò ad assumere una sintassi simil-sardofona.
Fortuna che anche la montagna russa finì dopo qualche chilometro e io finalmente sbucai... in un accampamento rom! Lì davvero mi sono cacata sotto, se è lecito dirlo, e mentre con una mano continuavo  a stringere il volante in maniera convulsa, con la sinistra cercavo invano di tirare su il finestrino difettoso, mentre in cuor mio maledicevo Silvia, e mi concentravo per non investire i bimbetti seminudi che mi zompettavano intorno, nel breve spazio di manovra di una carreggiata che si era ridotta drasticamente, poichè da un lato era occupata da una fila interminabile di roulottes, dall'altro era fiancheggiata da un fossato, e io volevo piangere.
E poi, finalmente, la luce! Il colossale e mostruoso campo militare di Camp Darby si staglia nel mio orizzonte visivo, e con esso, il ritorno alla civiltà.

Non era del tutto colpa di Silvia, quella volta, quanto del fatto che il parametro del percorso selezionato era quello "breve", e lei, fattasi due calcoli in testa, nella sua ottusa testa satellitare, aveva scovato, nei meandri del reticolo stradale, quel percorso accidentato, nel senso che era costellato dagli accidenti che io le ho indirizzato in cuor mio.
Capite quindi se non ho avuto ragione stavolta a scegliere con cura il parametro del percorso da seguire.
Le opzioni sono: Breve (direi di no), Rapido, Facile, Economico.
Conoscendomi, opto per il facile, stavolta.
E andiamo...

(continua...)