martedì 29 novembre 2011

Roba da gatti: allarmi automatizzati.

Torno a casa da un accompagnamento al nido e trovo Panzumen spaparazzato sul divano in terrazza, a prendere sole sulla panza a cui deve il soprannome che ha rimpiazzato ufficialmente il suo nome di "battesimo".

-Bello gattone! Ciao Panza: oggi scrivo un post su di te, contento?
Uno slancio di affetto che lui non ricambia. Ah, in amor vince sempre chi fugge! Te lo ricorderò quando verrai a scassarmi i cabasisi rotolandoti sulla tastiera del pc.
Ma una promessa è una promessa.


Panzumen è un gatto da guardia.
Peccato che la monti alla porta di casa del vicino del piano di sotto, pingue e petulante signore di mezza età stempiatello che accompagnasi a procace giovane trentenne brasiliana dalla pelle ambrata e scollatura facile, un profluvio di curve ben fasciate da abiti assai poco dimessi, che sembrano urlare: "Ehi, guardatemi!"
Questa signora pare sia terrorizzata a morte dai gatti, o almeno dai MIEI gatti, dal momento che l'ho sorpresa una volta nell'atto di cercare disperatamente di allontanare il suddetto Panzumen dalla sua soglia di casa a suon di sassate scagliate dabasso.

Ma dico io: come si può aver paura di Panzumen?


Ok, sì, lo ammetto che è un po' inquietante, quando si appollaia lassù come un avvoltoio e inizia a emettere quel suo sinistro ululato lamentoso scoprendo le gengive e i vampireschi canini, che pare ti possa balzare in testa da un momento all'altro...


Voglio succhiare il tuo sangueeeee!
Ma vi assicuro che non lo fa! Non lo farebbe mai: ha paura persino a scendere dal tavolo!
E' il suo modo di annunciare che sono arrivate visite. E' il suo modo, sinistro e fastidioso, di salutare i nuovi arrivati. E' come quel campanello in cima alle porte di alcuni negozi, che tintinna ogni volta che entra qualcuno. E' come gli allarmi che scattano appena qualcuno si appoggia distrattamente alla portiera dell'auto in sosta.
Più che un gatto da guardia, Panzumen è un gatto di benvenuto.
Al massimo può mostrarvi indecorose parti di sé che volentieri evitereste.

WELCOME!
Fantastico gesto di benvenuto, questo!

Roba da gatti, la rubrica del martedì.

lunedì 28 novembre 2011

Aspettando Picasso... Pi-nocchio!!

Sul chiudersi di un novembre che ha elargito luce dorata a volontà e giornate terse, una mattinata che si apriva uggiosa mi ha spinto a cercare il lato luminoso che spesso sfugge, il versante soleggiato, una specie di meridione dello spirito. Che non è sempre facile, ricordarsi di cercare la luce quando la tua esistenza di appare, anche solo per un attimo ingannevole, tinta di grigio. Routine, stasi esistenziale, mancanza di stimoli, niente energie per reagire, le giornate che si susseguono e tu macini ore davanti a uno schermo, aspettando che lei si svegli dal riposino pomeridiano, mentre le occasioni di poter fare mille e mille cose che ti eri proposta sfumano col passare dei minuti.
Come l'idea della mostra di Picasso. Sì sì, ci andiamo, che fretta c'è? Abbiamo tempo fino a febbraio, tanto.

Avevamo pure i biglietti per l'inaugurazione, guarda caso, era il giorno del mio compleanno. Ho dovuto battere in ritirata di fronte alle giuste proteste di una pupa costretta ad attendere i tempi iperdilatati degli ospiti d'onore, delle giacche e cravatte, delle foto al sindaco, delle illustri personalità, dei discorsi degli ideatori, degli omaggi ai finanziatori, e via dicendo. Poi più nulla.
Nel frattempo ci regaliamo un piacevole intermezzo.
Raccattata la mia amica Bidone, così detta non  certo perché sia un cesso, anche conosciuta al mondo del web come la ragazza degli scogli, e non certo perché sia una cozza, prendiamo al volo e acchiappandola per la coda, quest'altra mostra qui:


Che ci sgattaiola sotto il naso, passando e ripassando sul Lungarno, ogni giorno, con la pupa che dal seggiolino mi addita il burattino che fa capolino dai manifesti esposti in facciata.

Un Pinocchio subconscio, inquietante come le sue metafore, di grilli e mantidi che copulano, di viluppi di spire serpentine, divoratore di se stesso, imprigionato nella materia, recisa, di un ciocco di legno, in cammino per la crescita, ma intrappolato dal mondo fittizio di bugie, che si costruisce intorno.
Brandelli di fiaba abitano ora  ruderi di pubbliche affissioni, il rovescio della favola: incubi e visioni del Pinocchio-bambino che non vuole crescere.





Un burattino di legno che ci saluta, sorridente, al termine del percorso, abbandonato su una poltroncina bassa: quello che rimane è solo il suo involucro esterno; dove sarà, ora, il bambino-Pinocchio?
Ma io sbircio da una finestra sul piccolo cortile interno del palazzo, sbircio e trovo ancora un burattino, aggrappato alla lunga barba ispida di un accigliato Mangiafuoco. Quella sezione della mostra non è accessibile, come mai? C'è forse un burattino-Pinocchio che è riuscito a sfuggire alla necessità di crescere come un bambino vero? Ce l'hanno nascosto, ma io l'ho scorto, qui, dalla finestra.
Che dici, si potranno fare le foto all'interno della mostra? Boh!

Prendiamo atto del tempo e delle occasioni perse, sfogliando i cataloghi e le stampe del bookshop.




E come bambine, ci perdiamo nei mondi dischiusi dall'arte e dalla fiaba.
Creare un'occasione di condivisione, un'esperienza da vivere con un'amica, un dono offerto dalla città, che basterebbe interrogare ogni tanto perché ci elargisca ottime risposte.
Una mail da mia sorella, infine:
Tornare bambini alla fase senso motoria dove il bimbo, come tu ben sai, scopre gli oggetti non per la loro vera utilità (il cucchiaio per un bambino potrebbe essere interessante perché utilizzato per divertire, non perché ci aiuta a mangiare, il sasso raccolto sulla spiaggia è buono perché ha un buon sapore salmastro, è bello perché può essere lanciato ed ha un bel rumore, è utile se si vuole vedere l'effetto che fa quando cade nell'acqua o quando lo si fa scivolare su di essa). Ma come poter tornare bimbi facendosi domande che possono risultar banali, ma che possono sguinzagliare la fantasia anche di chi reputa non  essere fantasioso? La storia del sasso che era triste perché sapeva di sale e avrebbe preferito saper di acqua dolce e allora..."
Ed è così che oggi mi illumino.
Grazie a Stima per questa sua bella rubrica.

venerdì 25 novembre 2011

Caos dinamico.

Quelle che seguiranno sono istantanee di un normale mattino di vita domestica.


 Ahimè, Signora Cuore, lei non è capitata bene in questa casa: niente villa delle Barbie per lei e la sua prole... a proposito: dov'è finito Bebé?

 No: qui c'è solo un imbuto...

 Oh, ecco lì, poverino, accanto allo spazzolino di pupa.

 Pupa, ma la smetti di seminare pastelli?

 E dove l'hai trovata la prima e unica pedina della scacchiera gigante in legno che devo realizzare per tuo padre col tornio?

 Io non so proprio da chi abbia preso questa pupa... siamo così ordinati e metodici, noi...

Ehm... no, è che Hasuna deve ancora fare colazione...

Speriamo che queste immagini non mi costeranno la diffida di mia figlia da parte di qualche zelante assistente sociale (senza alcun riferimento personale eh!).

Per la verità, è vero, c'è casino, ma è che eravamo intente a creare!

Cosa fareste voi con tutta questa roba raccolta in giro per parchi?


E con una scatola ad altezza bambina?


Sì, va be': a parte il gioco del cucù, dicevo!

 Ispirata, in parte, da questo post , io mi accingevo a farne un bellissimo albero autunnale, addossato al muro di una casetta.
Per fortuna ho con me il valido aiuto della pupa, che intanto dispone sul pavimento gli uni-posca, anche se non ho ancora ben capito la funzione di questa operazione preliminare.


Be', che c'è? Non vi piace la nostra casetta?
Non siamo gente che sta a guardà il pelo noi! Certo, certo, avremmo potuto fare assai di meglio! E che non siamo capaci, noi, di realizzare cose tipo questa? Tsè! Che ci vuole?
Allora, intanto iniziamo a diluire la Vinavil... uhm... forse così è troppo liquida: non attacca un piffero!
Va be', mettiamola pura allora. Aspè, pupa, passami le cortecce... le cortecce ho detto! No: quelle sono foglie. E vabbè, passami le foglie. Ecco mettila qua: brav... NO NO pupa! Non spalmare la colla con le mani! NO! Non pulirti addosso! NO! Non fartici lo shampoo! Ecco brava, prendimi la pigna, che la mettimao qua. Acc', sta pigna non si appiccica: come possiamo fare?
Pupa cosa hai in bocca? Sputa quelle ghiande, su!


Insomma, non è mica facile appiccicare su un cartone delle cortecce e delle foglie secche: non ti ci stanno mica quelle bastarde! Si accartocciano, si staccano, fanno le difficili. Ma alla fine un sistema l'ho trovato. Mattoni mattoni mattoni, e poi in terrazza ad asciugare.
E alla fine:
 

Ta-dààààààààà!
Niente male il nostro albero autunnale, in fondo.
Chiedo scusa a Debbie e a MadreCreativa per aver osato il paragone con le loro opere, ma sapete qual'è il bello?
Che magari la differenza c'è... ma lei non la vede!

Oh, gioia di mamma, che fortuna che ancora ti basti così poco per farti divertire!
Anche se per la verità lei si diverte soprattutto a distruggerlo:



(Notare i pezzettini di foglie sgretolate in terra)
Ma insomma: che ci giochi un po' come le pare!

Ehi, ma... qualcuno ha visto la pupa?
Pupaaaa! Puuuuuuuuupaaaaaa!

Dove sei? Non ti vedo!
...


Ah! Ecco dov'eri! Cu-ccù!
(Mia figlia ha una verve comica da fare invidia a Gianni e Pinotto!)

giovedì 24 novembre 2011

Mediamente idiota, che veicoli contenuti utili.

"Questo è esattamente quello che ti chiedo, mi ha risposto lei, definizione strepitosa, la tua!"
Bene, dico io, in tal caso, tanto vale riciclarmela per il titolo del post.
Ed eccomi lì, ricatapultata indietro ai tempi dei compiti in classe di Italiano, a stendere la mia bella traccia. E ammetto che un filino di ansia da prestazione me l'ha data 'sta cosa.
Non sono proprio quella in grado di scrivere su richiesta, tanto meno, poi, se ti si chiede di non superare i 4.000 caratteri. No perché, se non ve n'eravate accorti, io inserisco il pilota automatico e chi lo guarda più il contachilometri? Io macino, fino ad arrivare a destinazione. Ché se poi mi metti un limite al carburante, capace che la strada per arrivare prima te la trovo, ma il percorso perde in attrattiva.
E infatti è proprio quello che è accaduto in questo caso.
La traccia era: "Qualcosa che racconti di Pisa in generale (caratteristiche della città, carattere degli abitanti, e poi di te. Di come ci vivi come mamma). Se riuscissi a condire tutto con un pizzico di ironia..."



'Azz! E dici poco!
Comincio a scrivere, ma a metà strada mi accorgo di essere ormai in riserva di carburante. Il pezzo ha sforato, ma di brutto! E allora taglia che ti ritaglia, sposta là metti qua.
Il risultato lo potete vedere qui: non è proprio dei più brillanti.
Dov'è Suster lì dentro? Io ci vedo solo il mio grosso, stratosferico CULO! Certo, ci vuol coraggio per pubblicarlo su un sito ad accesso libero, sbatterlo in faccia a centinaia di visitatori.
Ecco, allora, che oggi voglio rendere sì giustizia alle mie fatiche pseudogiornalistiche (e alla mia immagine), per quanto faticoso sia stato assai di più il lavoro di ridurre (per via di levare, per usare le parole di un grande), ché ci ho perso tre giorni solo a tagliuzzare, piuttosto che quello di scrivere, per un totale di 20 minuti.

Vi mostrerò l'articolo nella sua originale interezza e prolissità.
Ta-dààààààààà! Come direbbe (indovinate chi?) la pupa!
Non siete curiose (/i)?

Ecco qua:


Io, Pisa e mamma.

Sì lo so che sarebbe più corretto scrivere “Io mamma e Pisa” da un punto di vista semantico-grammaticale, ma nel mio caso trovo più corretto rispettare l’ordine narrativo-consequenziale degli eventi. Ed ora vi spiego perché.
Io.
Sono arrivata a Pisa nel novembre del 2000; avevo 19 anni, iniziavo l’università, cercavo casa e mi sentivo totalmente imbranata alla vita, ma con ottimista entusiasmo avevo messo da parte una piccola somma con un lavoro stagionale, tale da darmi l’illusione di poter essere autosufficiente.
Per la verità la somma raggranellata con tanta fatica mi bastò appena per pagare la caparra e il primo mese di affitto, e questa fu la prima batosta. La seconda fu che la città mi accolse con un mese e mezzo di pioggia incessante, cielo grigio su e foglie gialle giù, il fiume si gonfiò fino a livelli allarmanti, tanto che ci fecero evacuare il centro storico e io mi chiesi più d’una volta chi me lo facesse fare di trasferirmi in una città fredda, piovosa, e a rischio alluvioni, a regalare i miei miseri stipendi a gretti affittacamere sfruttatori.
L’impatto traumatico poi però nel tempo si è trasformato in un reciproco rispetto e convivenza pacifica tra me e Pisa, vituperio delle genti.
Dimenticavo di dire che sono di Roma: quale realtà più lontana e antipodica quella della caotica, trafficata, chiassosa, disorganizzata metropoli, di fronte a questa piccola città di provincia, dal passato sì glorioso, ma oramai piuttosto impantanata nel ruolo di città universitaria e sede della celebre torre?
Pisa.
La prima cosa che mi saltò agli occhi fu che qui la gente circolava in bicicletta. Biciclette ovunque, che pareva di essere in Cina ai tempi di Mao, che se ti fermavi a bordo strada in una normale giornata feriale te ne vedevi passare davanti più di quante non ne avessi contate nell'intera tua vita precedente: passava lo studente scafato con la sua bici sgangherata, e va be’. Passava l’arzilla vecchina in direttissima dal mercato della frutta-verdura col suo carico di ortaggi nel cestino, e va be’. Passava il distinto signore in cappotto di feltro e giornale infilato nel portapacchi, e va be’. Passava il tipo da banca in giacca svolazzante e cravatta, la ventiquattrore sotto il braccio, e insomma: no! Questa era proprio strana: una nevrosi collettiva!


In ogni caso, ben presto compresi la comodità e la praticità di tale mezzo per spostarsi in città: date le ridotte distanze, a cui non ero affatto abituata, pedalando e pedalando sei in grado di teletrasportarti in appena un quarto d’ora dall’estrema periferia della città, quella fatta di palazzoni e giardinetti, supermercati e strade a quattro corsie, all’affollatissimo centro storico, dove file di turisti dagli occhi a mandorla o no effettuano il loro perpetuo pellegrinaggio alla fin troppo nota torre pendente, che della città è emblema, fotografandosi in pose improbabili nell’atto di sorreggerla.


Questo a una prima, sprovveduta occhiata.
Ma Pisa, in realtà, è molto più di una cartolina di Piazza dei Miracoli.
Qui la vita scorre a ritmi più umani. Qui è possibile svegliarsi al mattino, andare a fare commissioni, trascorrere la giornata in biblioteca, incontrare un amico per strada, tornare a casa due volte nella stessa giornata per mangiare o anche solo per cambiarti, e recarti infine a lavoro in orario, infilandoci in mezzo pure un caffè al bar, senza dover impazzire un’ora nel traffico di intasatissime tangenziali o vie consolari. Solo qui ho potuto conciliare per tanti anni studio e lavoro.
Per contro girare in macchina è altamente sconsigliato, data l’assoluta assenza in centro di parcheggi liberi, o anche semplicemente di parcheggi, i labirintici sensi unici e i varchi ZTL come se piovesse, capaci di fruttare da soli nel giro di un’unica giornata un cospicuo capitale di contravvenzioni multiple.
Ragion per cui il centro città si presenta brulicante di camminatori e ciclisti.
Camminare favorisce gli scambi e gli incontri e poiché in fin dei conti gira che ti rigira i luoghi di ritrovo son sempre gli stessi, finisce che ci si conosce un po’ tutti, come in un paesone.


L’importanza di Pisa come centro universitario ne fa, poi, un piccolo universo multietnico e multisfaccettato, dove, accanto alle comitive di turisti in calzoncini, trovi la chiassosa umanità universitaria, anima stessa della città, che contribuisce non poco a ravvivare e consentire il ricambio umano della sua popolazione, altrimenti a rischio estinzione.
Il pisano tipo infatti, quello figlio di figli di pisani, sembra che non vi risieda, preferendo appartarsi nell’immediato interland residenziale.
Mostrasi normalmente affabile con i turisti, diffidente e insofferente verso l’altra fetta cospicua di umanità ivi presente, ovvero il rumoroso, nottambulo “studentame”.
Pur tuttavia la convivenza risulta piuttosto pacifica, assestata su una specie di simbiosi che garantisce agli uni la percezione di cospicui affitti su abitazioni per lo più fatiscenti, mal riscaldate, tremendamente umide e generalmente assalite da interi ecosistemi di muffe, agli altri una serena vita di bagordi e schiamazzi alcoolici finesettimanali sufficientemente tollerati dalla popolazione autoctona ancora residente in centro città.


C’è poi la città, col suo fascino indecifrabile, così antica e integra, nei suoi vicoli sormontati da archi, nelle sue case-torri svettanti dalla linea dei tetti al primo crocicchio, le sue numerose chiese, vestigia di un passato di glorie ormai appassite, così decadente, nell’abbandono evidente di molti dei suoi palazzi storici, nel puzzo di liquami che ristagna nell’umido degli stessi, pittoreschi vicoli.


Ma arriviamo a quando, poi, sono diventata mamma, dieci anni dopo.

Mamma.
Dal mio punto di vista di ospite e non nativa, ex studente e poi madre, che non può avvalersi dell’appoggio di un retroterra familiare e di un aiuto parentale, la città, così raccolta e a portata di mano, si è rivelata un nido accogliente, in cui andarmi a scovare spazi e situazioni adatti alle mie esigenze.


Nel mio percorso verso la maternità l’organizzazione delle strutture sanitarie e ospedaliere si è rivelata salvifica, visto che, da neolaureata spiantata e neodisoccupata squattrinata, non mi toccò sborsare un centesimo di tasca mia per tutti gli esami e le visite pre e post parto, che su iniziativa della regione Toscana vengono preventivamente prescritte a tutte le future mamme in un comodo libretto di impegnative prestampate, e l’abbondanza di tutti questi “pre-“ non può che infondere sicurezza e sollievo alla futura mamma in questione, per contro, sempre totalmente impreparata e sprovveduta su tutto.

L’ospedale storico di Pisa, il Santa Chiara, si trova a due passi dalla piazza del Duomo, raggiungibile rapidamente e agevolmente per chi risieda in città: un grande vantaggio quando per esempio ti svegli la mattina che ti si sono rotte le acque e sai che non dovrai farti un’ora di macchina in mezzo al traffico metropolitano col cuore in fibrillazione e la paura di non arrivare in tempo.


Come pure, soprattutto per le mamme lavoratrici, posso assegnare un giudizio più che positivo al servizio dei nidi d’infanzia pubblici, che copre in maniera efficiente e soddisfacente l’intero territorio comunale, e offre un servizio di buona qualità, strutture e preparazione del personale docente (che, certo, se si svecchiasse anche un po' lasciando posto alle nuove generazioni di operanti nel settore non sarebbe male, ma la perfezione è lungi da tutto ciò che è umano).

Il pregio di Pisa di essere a misura d’uomo, non è cosa da poco quando ti trovi a dover scarrozzare da mattina a sera per le sue strade un pupo che non dorme.
Diciamo che in quanto a barriere architettoniche non si scherza. Le strade del centro sono per lo più sconnesse, prive di marciapiede in molti punti, o con marciapiedi larghi mezzo metro e continuamente ostruiti da cartelli stradali, alberi dalle poderose radici e passi carrabili, coscienziosamente pensati senza scivolo pedonale, e quindi la neomamma carrozzinomunita è spesso costretta ad effettuare ardimentosi slaloom tra le macchine, sali e scendi dai passaggi pedonali, e impegnativi dribbling di auto ferme in seconda fila che la costringono a piazzarsi esattamente al centro della carreggiata contromano, a rischio suo e della prole, che intanto inala a pieni polmoni boccate di ossido di carbonio.


Tutto questo solo per raggiungere il parco più vicino.
C’è da dire che il centro città non abbonda proprio di parchi urbani di grandi dimensioni, pur potendo vantare deliziose piazze alberate e lastricate con grandi aiuole, abitualmente frequentate da turbe di bimbi che sciamano nel post scuola e stormi famelici di piccioni.


Tutto sommato però, in relazione alle dimensioni del centro, gli spazi verdi non mancano. I più importanti sono principalmente due: uno è lo storico giardino Scotto, ex fortezza ora munita di ampio spazio gioco per piccoli di ogni fascia di età (strutture metalliche dai bizzarri ed eleganti profili gaudiani progettati più in funzione dell’estetica architettonica che di una reale sicurezza infantile), e inoltre luogo per piacevoli passeggiate; l'altro, il parco urbano delle Piagge, un lungo tratto di lungofiume alberato e attrezzato, assiduamente frequentato da fanatici del fitness, fanatici cinofili, e qualche scarrozzatrice di passeggini più o meno fanatica, oltre che da una sterminata popolazione di pappatacei che rendono in ogni stagione altamente sconsigliata e fastidiosa una permanenza prolungata con bimbi su quei lidi.


A metà strada tra il mare e i monti, raggiungibili in pochi minuti di auto per una fuga estemporanea dalla quotidianità, la città rappresenta per il mio modo di vivere la maternità, casalinga ma proiettata verso il mondo, un universo ideale in scala ridotta: gran cosa quando ti ritrovi a dover gestire i ritmi e i tetti di tolleranza minimi di un bambino piccolo anche solo per passare un pomeriggio in spiaggia!


Il visitatore occasionale che gira oggigiorno per le strade di Pisa potrebbe imbattersi facilmente in un curioso e caratteristico duetto di cicliste: una sulla trentina, una massa di capelli scomposta e indistinta, guida una bicicletta d’epoca cigolante e arrugginita che ondeggia sotto il peso delle buste della spesa; spesso pedala cantando “Lo sai che i papaveri son alti alti alti”; l’altra sull’anno di età, ballonzola sul seggiolino a ritmo e tiene traccia degli oggetti degni di nota che incontra lungo il percorso, come per esempio può essere un cane o un piccione, o una signora alla fermata dell’autobus.


E’ questa la città dove ogni pomeriggio ce ne andiamo a giocare e passeggiare in un parchetto diverso, a rotazione, che siam gente che ama cambiare noi, oggi qui, domani lì, e però i bambini che incontriamo finiscono per essere sempre gli stessi.
La città dove andiamo ogni tanto a trovare babbo a lavoro, e sostiamo a lungo lì fuori, sul piazzale lastricato davanti al negozio perché passa sempre qualche amico o conoscente che si ferma a scambiare due chiacchiere.
La città i cui abitanti difficilmente si mostrano giulivi e ciarlieri col primo venuto, che magari ti salutano col grugno e ti guardano strano se non corrispondi ai loro standard mentali, ma che se poi riesci a penetrare il loro muro di diffidenza sanno mostrarti il loro lato più affabile e affettuoso.

Ci sono le libecciate calde che portano l’afa insopportabile dal mare, e i venti di neve che spazzano via le nubi e ti sferzano la faccia in inverno.
Ci sono i suoi lungarni variopinti di facciate ocra e gialle e rosso mattone, i nostri luoghi noti, i selciati dove lei ha intrapreso le sue prime esplorazioni autonome, e la sensazione di avere tutto un microcosmo a portata di mano, come un nostro personale parco giochi.

martedì 22 novembre 2011

Roba da gatti: dinastie.

Voi che cosa avreste capito se vi fosse arrivata questa foto per mail?
Io non ho capito niente, malgrado poi l'oggetto della mail fosse: "Annuncio funesto".
Abbastanza chiaro, dite?
Sarà. Magari era un rifiuto del mio io ad accettare il lutto, magari ero davvero troppo rincoglionita, iperstimolata dalla miriade di impulsi e multietniche realtà che la città di Madrid offriva ai miei recettori cerebrali di studente espatriata alle prima armi, io che non avevo mai varcato la soglia dei confini nazionali prima dei 18 anni, e che ora, a 23 li varcavo forse per la terza volta, e stavolta all'estero ci andavo per viverci, non per turismo.
Io molto piena di me e dei miei nuovi incontri, delle mie conquiste solitarie, del mio muso a muso con la lingua straniera che se non ci sbatti la testa non la impari mai, allocca come sei, chè ti vergogni a parlare, e ti si sguinzaglia la lingua solo sotto effetto di massicce dosi di superalcoolici, che nella capitale della movida non mancavano mai.
Io, insomma, ricacciavo al mittente qualsiasi eventualità di un annuncio funesto in mezzo a tutta quella vita che mi si spalancava nel profondo delle interminabili notti della ciudad.

Ma parliamo di lei: Cleopatra era il nome anagrafico, ma quando quella gattina giunse a casa nostra alla tenera età di quattro mesi, le fu repentinamente commutato in Cleo, che a sua volta, con gli anni lasciò il posto al più familiare Tesorona. Ed è Tesorona infatti il nome con cui mi viene più spontaneo ricordare questa grande gatta, senza ombra di dubbio la gatta che più connotò il lato felino della mia vita per tanti e tanti anni. Mi piace considerarla la mia "gatta storica", colei che avviò un'interminabile dinastia di gatti, a suon di tre e quattro per volta sfornandone, a cadenze regolari di due tranches l'anno.
Tesorona, dunque, arrivò a casa nostra a mezzo mio padre, che io ero ancora in lutto per la prematura scomparsa di un altro gatto tanto amato: si era infilata in macchina, ci disse lui, mentre era da un cliente, il quale aveva a lungo tentato di convincerlo ad adottare uno dei mici della cucciolata casalinga, rifiutando lui per rispetto al lutto recente, ma alla fine capitolato di fronte alla gattina acciambellata sul sedile passeggero, e va be', la prendo, e quella gatta era nata lo stesso giorno in cui lui, il 26 di ottobre, elemento, forse, che contribuì alla capitolazione del genitore.
E poi: rumore di chiavi alla porta di casa e noi che come ogni sera scendiamo di corsa dai cuscini del lungo divano arancione del salotto, ove ci macinavamo i pomeriggi a colpi di Doraemon e Carletto il principe dei mostri, e corri corri, scalpiccio di piedi scalzi sulle mattonelle a vedere cosa aveva portato il babbo tornando da lavoro. Che poi quasi sempre non aveva portato un bel niente, a parte l'emozione di quel tintinnio di chiavi alla porta e la sua paterna presenza, festosamente accolta. Quel giorno invece c'era lei, ed io dimessamente giogiosa, sempre per rispetto a quel recente lutto, a cui mi ripromettevo solennemente di restar fedele, concedendo alla nuova venuta solo il secondo posto del mio cuore.
Ma lei se lo prese tutto, e da quei miei otto anni fu inaugurata l'epoca Tesorona, destinata a durare fino ai miei ventidue.
E figli, nipoti, pronipoti, fino all'ottava generazione.
E Tesorona generò Folgore, Nebbia e Brina, Notte, Sera e Alba, Sabbia, Ghiaia e Ciottolo, Seta, Cotone e Lino, Senza Nome, Senza Nome, Senza Nome, Senza Nome, Ho perso il conto, Non ho più fantasia, Va be' dai mi ci metto d'impegno, Passiamo al latino, Quisquis, Furfuris, da qualche parte c'era anche una Lana? Boh! E Quisquis generò Bono, e Bono generò Cicerone e Catullo, era l'epoca della mia maturità, inteso come esame di scuola superiore, non certo di raggiungimento di uno stato adulto, io ancora adolescente mentre Tesorona entrava a buon diritto in una serena ed appagata terza età, tronfia di nipoti e nipotastri, figliastri adulterini, bastardi e trovatelli, incroci e scappatelle, adozioni e fratelli di latte.
E la gioventù è un'età ingrata: si guarda tanto avanti, poco indietro, e c'è l'impazienza per un futuro che finalmente ti sembra proprio dietro l'angolo, e tante cose da fare, e tante cose da diventare, e la zavorra degli anni passati da scaricare al più presto. Partire, cambiare aria, città, amici, ambiente, aprirsi al nuovo, lasciare i gatti, ormai sono grande.
Un mea culpa tardivo, o mia fidata compagna, Tesorona, che te ne sei andata e io non me ne sono nemmeno accorta, ed ero altrove, molto impegnata a vivere.
E te ne sei andata giusto nove mesi prima di lui, che quel giorno lontano ti aveva caricata in macchina e portata a casa, tra tintinnii di chiavi e bambini esultanti.
Anche quella notizia mi giunse inaspettata, mentre ero laggiù, in Spagna, sempre troppo occupata a "fare le mie esperienze sacrosante".
Sempre ingrata, ottusa, cieca.
"Corri a casa, tutto è cambiato: tuo padre sta male. Sta MOLTO male. Tuo padre ha bisogno di te."
E io che posso fare? Stanca e persa su una strada?
Ma non importa: prenderò il primo aereo e sarò lì.
Subito a casa.
Non era proprio così la canzone, ma le cose andarono così.
E a casa: "Tesorona dov'è?"
"Ma come? Non hai ricevuto la mia mail?"
"Mh... sì: la foto di Tesorona.Bellissima! Grazie!"
"...E cosa c'era scritto sotto?"
"Uhm..."
Ecco: è andata grossomodo così.
Mi spiace che stavolta Roba da gatti scivoli nella melanconia, forse complice il grigio di questa giornata, che mi fa grigi anche i pensieri, e mi fa pensare a gatti grigi, e grigi ricordi, sbiaditi, allontanati.
Oggi volevo omaggiare Tesorona, chè quasi ricorre la data della sua morte, lei che anagraficamente ricordava con la sua nascita, quella di lui, che poi se n'è andata poco prima di lui, e con lei s'è chiusa un'epoca: l'epoca Tesorona, ma anche quella della mia adolescenza incosciente.
Au revoir!

Roba da gatti, la rubrica del martedì.