lunedì 31 ottobre 2011

Il Piccolo Principe e la volpe.

"In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino..."

Ottobre è arrivato agli sgoccioli, e io mi riduco all'ultimo per partecipare all'ultimo blog contest del mese.
Avevo tante idee ma stringi stringi non ne ho combinata mezza. Semplificherò.
Il libro lo conoscono più o meno tutti, è l'arcinota storia dolce e tragica di un piccolo principe spaziale, piovuto sulla terra in cerca di risposte. Per inciso, il primo libro letto dalla sottoscritta, alla tenera età di sette anni.


La storia è semplice, il messaggio è elementare e imperituro: parla ai bambini, che non contemplano l'arzigogolo intellettuale del mondo adulto, ma parla anche a molti adulti, che hanno smarrito la strada della semplicità, persi in una selva di costruzioni e convenzioni.

Come insegnare la vita? Non si può, certe cose vanno vissute.
Pensavo alla complessità di un rapporto, alla lunga strada da fare per costruirne uno.
Qualsiasi rapporto necessita del tempo, attenzione e pazienza.

Costruirsi a poco a poco, un tassello alla volta, infittire una rete di corrispondenze, scambiarsi un sorriso saturo di complicità e allusioni, uno sguardo con un amico che sa, una risata soffocata al ricordo di un passato comune.
Ma pensavo anche alla comprensione reciproca, a una bambina che chiama "Mamma!", alla certezza di essere necessari, di poter corrispondere a quella richiesta, in fondo, solo di sicurezza, di una voce che risponda: "Eccomi, sono qui!"

Pensavo alla necessità di cambiarsi, di adattare se stessi, la propria vita, i propri ritmi, le proprie aspirazioni, di estenderle a coinvolgere un due, un tre, della capacità di appagarsi in maniera diversa, di stare insieme e da soli in maniera diversa, di scoprire nuove opportunità laddove vedevi solo limitazioni, di accorgerti che tante ore di sonno perse non ti pesano più come ti pesavano un anno fa.
Di accorgerti che quanto più hai dato, tanto più ti sei arricchita, che questo dare, lungi dallo svuotarti, ti ha lasciato più di quel che avessi prima.

Ciò nonostante il cammino è ancora lungo, e ancora, giorno dopo giorno, occorre sedersi un poco più vicini, e aspettare, osservare, cogliere i segnali, comprendere e pazientare.
"Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"
Che cosa vuol dire addomesticare?" " E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…"

"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe." "Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe.
L'avrei finita anche qui, ma siccome il contest si chiama "Cuore di artista", e siccome io artista certo non sono, ma il cuore di artista forse forse ce l'ho anche, mi son detta: dai, facciamo una cosa artistica, ma col cuore.
Dopotutto non si vede bene che col cuore.
E meno male, perché a vederle con gli occhi le mie creazioni fanno alquanto cagare.

Ma insomma: è stata lunga e travagliata, ma ecco qua.

Questo è il mio banco da lavoro mentre la pupa dorme. Incasinato.
Notare la schermata del portatile.

 Ho cercato on line le immagini originali del principe e della volpe e li ho riprodotti su carta.

 Col vecchio metodo della trasparenza, appoggiando i disegni ribaltati sul vetro della finestra e sovrapponendovi un secondo foglio ho ricalcato due immagini speculari dei due modelli, che ho colorato a cera e incollato su una doppia sagoma di cartone piegato a metà, recuperata da un imballaggio pescato nella nostra raccolta differenziata casalinga di carta e cartone.

Nello spessore del cartone ho infilato e fissato con lo scotch nella parte interna due coltelli di plastica da pic-nic, in modo da ottenere i manici con cui manovrare le due marionette caserecce e arrangiate.

Purtroppo la pupa oggi si è svegliata di pessimo umore ed è stato impossibile riuscire ad intrattenerla mezzo minuto coinvolgendola in una improvvisata messa in scena dell'incontro tra il Piccolo Principe e la volpe.
Non possedendo io grandi doti artistiche, spero che apprezzerete comunque la mia buona volontà nel voler partecipare a questo concorso creativo.
Tutto sommato credo che il carattere infantile dei miei lavori renda onore allo stile dei disegni di Saint-Exupéry, e dato che probabilmente se avessi realizzato queste marionette di carta all'epoca in cui lessi il libro, il risultato non sarebbe stato tanto diverso da questo.
Tutti i grandi son stati bambini una volta...

Cuore d'artista, il Candy Contest di Attimi di Letizia.

venerdì 28 ottobre 2011

Il nostro Ninestrone.


Andiamo a fare una passeggiata? Vieni, pupa, ch'è bel tempo, prima che scurisce.
Andiamo, andiamo; ti porto a vedere un posto bellissimo. Non è lontano, è proprio qui, dietro casa di nonna.
"Bebé?"
No, che non facciamo in tempo ad andare ai giardinetti oggi, è tardi. Ma qui c'è un piccolo pezzo di verde, che non è quasi niente, per chi ci passa davanti più volte al giorno, uscendo di casa o rientrando da lavoro: niente più di un pezzetto di prato con alberi, recintato di straforo dal condominio, strappato al confinante parco naturale.



Vedi, pupa, questi pini altissimi? Li ha piantati Nonno, ed ora sono dei grandi alberi. Ricordo quando li seminammo, quei dieci pinoli, io e lo zio Ergino, chiedendo: "Quanto ci vuole perchè diventino alberi?" E lui ci rispose almeno una decina d'anni. Dieci anni? Che delusione! Così io avrei avuto allora almeno vent'anni, e forse ai pini non avrei più pensato.
Invece ecco qua: di anni ne son passati venti, e io di anni ne ho trenta, i pini sono cresciuti più grandi di me e di te. Qualcuno non c'è più, qualcuno è arrivato invece nel frattempo, loro sono sempre qua.

Guarda, pupa, che belle pigne! Lo senti che odore che hanno di resina e legno? Vedi come sono aperte come fiori? Ci puoi infilare le dita dentro.
"Dita!"
Sì, dita, Mimì.




E poi c'è il melograno, ecco guarda, lassù. E questi frutti in terra, tutti mangiati dai merli, e forse anche da qualche topo o riccio: rimane solo il guscio. Senti com'è rugoso?
Sono belli vero? Prendiamone qualcuno.
CRA CRA!
Cos'è stato? Hai sentito? E' la cornacchia! Sì, proprio lei, che gracchia alla macchia.
L'hai vista? E' volata su quell'albero alto!
"Atto, atto!"
Eccone lì, una, che saltella, la vedi?


Senti, pupa, quanti rumori? Vedi, amore, quante cose diverse, si nascondono qui, quanti odori, quante forme, quante superfici?
Senti com'è ruvida la corteccia degli alberi? Hai visto le formiche che camminano tra le sue fessure?
"Mi!"
E' ruvida, ma è leggera, e se ne stacchi un pezzettino, viene via un bellissimo isolotto frastagliato, roseo al centro, rugoso fuori, liscio sotto; sembra un monile o un ciondolo strano.
Prendiamocene qualche pezzo, qualche pezzo di mondo qui fuori, una rappresentanza simbolica di questo eccezionale microcosmo.



Voglio fare una composizione. Una composizione di sensi. Una composizione d'autunno. Con quello che troviamo, senza selezionare, senza gerarchie. Cos'hai trovato tu?
"Tatti."
Sassi? Bellissimi. Sono duri, e freddi, e spigolosi, e grandi e piccoli.
Ne prendiamo qualcuno. Lei se li passa sulla guancia, perché le ho detto che son ruvidi, e vuole verificare, come facevo io quest'estate con i ciottoli, dividendo i lisci e i ruvidi.
Una testimonianza importante, i sassi.
E questo cos'è? Senti, pupetta, che odore buono che fa?
Hai sentito che profumo? Questo è rosmarino; le sue foglie sono profumate e sottili, flessibili e morbide: mettiamo anche lui, nel calderone dei sensi.
E, sì, anche il mandarino cinese: nessuno se ne accorgerà se ne manca uno.
No, Mimi, non è buono da mangiare...
"Blea!"
E va be', che ci mancava solo il gusto, nella nostra macedonia sensoriale. Com'era, amaro?
Però il suo odore è buono: pungente, intenso, fragrante e fresco.
Mettiamo anche lui, nel nostro calderone, che ci dà colore, e un pizzico di esotico, e sapore.



Abbiamo fatto un bel raccolto, vero Mimì?
Tiriamo fuori gli ingredienti: qui c'è una ghianda, che ci ha dato nonna; mettiamo le lisce castagne dell'ippocastano, brune e brillanti, che danno calore e rotondità, mettono allegria, e mettiamo gli ipporicci, dalle spine gentili.
"Ahi ahi!"
Tu dici che pungono? Ma no, sono tenere queste spine, non fanno male.
Sembrano i raggi di un sole grezzo, disegnato da un bambino.
Vediamo un poco, adesso, dove mettiamo tutto?



In questo grande cesto di nonna, ecco qua; c'è posto per tutti.
Le pigne, l'alloro, le foglie e le cortecce, il liscio il rugoso il glabro e il peloso, il giallo il verde e il marron, i profumi e gli aromi, le spine e le bucce, il contenuto e il contenitore, la sfera e il cono; ci mettiamo anche la tua lumaca, in rappresentanza del mondo animale, anche se in realtà è solo il guscio vuoto di una chiocciola, e non so dov'è finita in mezzo a questa ressa di carrube e ippocastagne.
Io dico che è ancora troppo vuoto. Domani lo finiamo.
Però ora manca qualcosa...





La luce!
(E la luce fu).


(E fu sera e fu mattina).


Oggi andiamo di qua, esploriamo ancora, vediamo che si trova, per la nostra sinfonia sensoriale.
Aghi di pino, una grande foglia secca di nespolo.
La pupa la prende e la liscia: è vellutata, con tante venature radiali, e scricchia tutta quando lei la fa in tanti pezzettini. Tanto il nespolo ce l'avevamo già.




Guarda lì: ci sono dei tronchetti. Andiamoli a vedere più da vicino.
Cos'è qui? Senti pupa, com'è strana questa pellicola gialla che è nata sul tronco?
Cos'hai trovato? Un'altra melagrana?


Bastoni accatastati, foglie secche, che frusciano sotto i piedi, aghi che pungono le mani, resina che le impiastriccia e le appiccica. La bimba apre e chiude la mano, sente "cic-ciac".



Sembra un libro per bambini. Un libretto educativo, di quelli cartonati, che ti insegna: alto, basso, secco, grasso, largo, stretto, chiuso, aperto.
Ma qui non ci sono parole da leggere e disegni da interpretare. Solo i segnali di una realtà multiforme, che a me sfugge, a lei no.
Io guardo le cose come mi è stato insegnato, secondo un ordine logico e gerarchico.
Lei guarda negli interstizi tra il selciato e trova cose interessantissime, che io non avevo visto,che io non avrei notato, che io non so collocare nelle mie categorie.


Esplora, scruta, individua, vaglia, saggia...



Trae le sue conclusioni: non adatto alla degustazione.
Ma può far parte del nostro esperimento sensoriale.
Come una cascata di sottili steli verdi attraverso cui passare.
Come soffici pennacchi piumati che danzano nel vento.





Ondeggiano e oscillano, si piegano, cambiano forma, si aprono, sembrano avere un movimento proprio, deliberato e volontario. Lo prendiamo?




E tu, cos'hai trovato?

Rose! Rose di legno! Bellissime, amore! E' la natura che imita se stessa!
E' un omaggio floreale di un albero artigiano alla sua amata?
Fiori che sanno di resina e non di polline.



Facciamo la musica trascinando i bastoni sulle grate di metallo, e battendoli sulle inferriate, e poi andiamo, laddove un lungo corridoio ci invita al cammino, a vederci vicino e poi lontano.


A capir che ciò che è dentro non è fuori, che non tutto ciò che vediamo può essere raggiunto, malgrado i nostri sforzi.



A raccogliere ancora profumi, da aggiungere al nostro minestrone virtuale, la giornata di oggi, il nostro libro-mondo.


Ciò che ci si offre e ciò che ci si sottrae...


E che aggiungiamo ancora alla nostra composizione sensoriale, alla nostra sinfonia simbolica, di odori sapori forme e colori, suoni e percezioni.


Il nostro minestrone improvvisato, fatto con quello che ci è capitato di trovare, come quando apri il frigo e cucini con quel che c'è.
La ricetta non è mia: la cuoca è lei. Lei che coglie meglio di me l'eccezionalità di ogni ingrediente.
Io vado spesso troppo di fretta, sono distratta, sbadata, e ho uno sguardo superficiale, mi perdo le note più sublimi della sinfonia. Lei assapora e apprezza ogni dettaglio, ogni sfumatura di suono.
Io annoto solo, e mi limito a prestarle le parole per trovare un ordine in questo tutto multiforme e sinestetico, a trascrivere i suoi gioiosi accostamenti, a decifrare il tumulto sensoriale delle sue scoperte.
E anche così non riesco a scrivere una ricetta più precisa e dettagliata di questa, approssimativa e aleatoria, del come viè viè.
E però vi assicuro che viene sempre bene, anche se mai uguale a se stesso, il nostro minestrone.
Anzi: il nostro Ninestrone!

giovedì 27 ottobre 2011

Contest e passioni.

Era da un po' che volevo partecipare a un contest di Simo.
Dico a "un" contest, perché è più o meno da febbraio che ci provo, con tutta la buona volontà, mi dico: ora scrivo un post per il contest di Simo. Poi invece il tempo passa, il contest finisce, e io rimango con un nulla di fatto. Sono una personalità decisamente troppo indecisa, risolutamente irrisolta.
Beh, fortuna che lei ne sfodera uno nuovo più o meno ogni due mesi (inesauribile Simo!).
Ma stavolta no. Ecco.
Per scaramanzia non ho nemmeno lasciato un commento sotto al post di apertura del Contest. Stavolta non mi freghi, gli ho detto tacitamente.

E allora, per farla breve, eccolo qui, il mio post:

partecipo al Candy Kitchen di A Casa di Simo! Yeeeeeee!


Simo ci chiede di parlare di un nostro hobby. Sì, vabbè, diciamo pure, di una passione.
Suster esita, ci pensa un po' e poi...
Haem (colpo di tosse iniziale per sgranchirmi la voce e darmi un tono).
Da dove comincio?
Fin da piccola mi sono sempre sentita portata per la coltivazione di un orto... volevo dire: di un Hobby! (Scusate, è il panico da palcoscenico).
Il problema era capire quale fosse.
E allora ho provato un po' a lasciarmi trascinare dalla marea. Dalla marea e dalla prima idea balzana che qualcuno o qualcosa mi faceva balenare per la mente.
Credo che il primo tentativo sia stato il corso di taekwondo (grazie Wikipedia: ora so anche come si scrive). Galeotto fu mio fratello, sì, proprio quel Totto che mi seviziava con le sue maligne burle a cui io prestavo fede come a un oracolo.
Naturalmente l'idea di seguire un corso di arti marziali con un nome così impronunciabile non poteva venire da me, che avevo appena sei anni. Io volevo solo fare quello che faceva lui. Tutto, esattamente tutto quello che faceva lui. E se lui si fosse buttato dalla finestra, beh... considerato che all'epoca vivevamo all'ottavo piano di un palazzo, forse allora avrei iniziato a dubitare della giustezza delle scelte del mio fratello maggiore. Ma ciò non avvenne: lui invece si iscrisse a taekwondo, con l'accento sulla "o", e io pure.
Di quel corso ricordo: la noia incredibile di ripetere all'infinito gli stessi gesti, senza senso e controvoglia; l'imbarazzo di dover gridare quando si sferrava un pugno e il maestro che mi ripeteva che sembravo un pulcino pigolante; la brutta sensazione di essere la più piccola aspirante taekwondista e di sentirmi assolutamente fuori posto; il ribrezzo delle tette al vento e dei pubi pelosi sfoggiati dalle ragazze grandi negli spogliatoi, giacché tutti sanno quanto lo spogliatoio di una palestra sia risaputamente uno dei luoghi di maggior sfogo dell'esibizionismo nudista femminile (non so se anche maschile).
Ma non ricordo nemmeno una mossa letale, nemmeno una parata, nemmeno come si scaraventa in terra un avversario di molti chili più grosso di te. Peccato.
Ma comunque mi dissero che ero diventata cintura mezza gialla (termine forse coniato appositamente per me e in abbonamento alla quota versata da mia madre alla palestra, oltre al prezzo del kimono).
La cosa finì così.

Ma andiamo avanti.

In prima elementare Venne una volta in classe una maestra di canto a promuovere l'attività pomeridiana di un coro di voci bianche, a cui io senz'altro aderii.
Cantare per la verità mi piaceva, ma non recarmi a quei corsi, i pomeriggi di inverno, che alle cinque già imbruniva, ed entrare in punta di piedi nella scuola silenziosa e scura, col fiato sospeso fino all'aula di canto, con i capelli ritti per lo spavento di quello che stava proprio per saltare fuori da quel corridoio buio, un attimo prima che io riuscissi ad entrare nel cono di luce della porta.
Di quel corso ricordo che seguii forse due, tre lezioni massimo. Perché poi credo che dovettero cambiare l'orario o il giorno di lezione, o magari l'aula, chissà, solo che io mi dovevo essere distratta quando la maestra lo disse, e una settimana, giunta sempre sul far dell'imbrunire nella scuola buia e deserta, intrufolatami in punta di piedi, prima nel cortile passando per il cancelletto laterale, poi nell'atrio, anch'esso oscuro e deserto, attraverso i corridoi bui e deserti, arrivai davanti alla porta dell'aula di canto... chiusa. E deserta. Tornai a casa e per me la cosa finì lì. Del resto mia madre non si prese mai la briga di capire com'era andata a finire, o forse semplicemente le era passata di mente la storia del canto. Solo in occasione del saggio di canto di fine anno nell'aula magna della scuola, la maestra, scorgendomi in platea in prima fila e riconoscendomi, mi chiese perché non ero più andata, e io allora credo che risposi che non mi era piaciuto.

Fu la volta della chitarra. Stavolta mia madre fece venire un maestro capellone e con un naso importante a casa, per insegnare a me e a mio fratello Totto. Non so cosa imparai, ma ricordo che lui continuava a ripetere che la nostra chitarra aveva il manico storto e io attribuii sempre a questo difetto dello strumento il fatto che non ci capii mai assolutamente niente né di arpeggio né di accordi.

Poi ci fu il flauto dolce, alle medie. Per il compleanno mi feci regalare, lanciatissima, il contralto, flauto di dimensioni medio-grandi. In classe mia lo avevamo solo in tre, e lo suonavo nel grande concerto di fine anno, organizzato, sempre con maggior fatica e dispendi enormi di energia, dalla mia volenterosa ed energica professoressa di musica. Forse quei saggi di fine anno furono l'approdo più consistente a cui avessi mai condotto una delle mie passioni. A parte il fatto che in alcuni brani non riuscivo a capire perché il mio spartito riportasse note diverse dagli altri (credo per ragioni di sinfonia polifonica che tuttora mi sfuggono), e quindi, non trovandomi, finiva che andavo dietro agli altri suonando un po' a casaccio, o facendo finta di suonare quando già da un pezzo mi ero persa sullo spartito.
Comunque.

I primi anni di università mi fissai parecchio con il fai da te. La fregatura era che le amiche mi incoraggiavano sulle improbabili strade dei gioielli in filo di rame, della lana cotta e dell'oggettistica futile-ma-graziosa. Avevo coinvolto persino la mia istruttrice di palestra, con la quale scoprii questa passione comune, e ogni sera a fine lezione ci scambiavamo idee e fiori di legno, pinze per il rame e materiali vari ed eventuali. Ci avventurammo a cercare un corso di bricolage da frequentare insieme per affinare le nostre doti con la tecnica; finimmo in una stanza piuttosto squallida e male illuminata, sedute intorno ad un tavolone sorretto da treppiedi assieme ad una quindicina di altre persone mal capitate come noi a fissare un'orrida natura morta di fiori finti da riprodurre su fogli di carta arrangiati, sotto l'occhio vigile di un sedicente maestro di disegno poco convincente. Il corso di bricolage era stato annullato causa pochi partecipanti, e così ci avevano accorpato a quello di disegno.

Poi fu la volta del tornio...
Per la verità io avevo solo chiesto a mio fratello dove avrei potuto trovare un seghetto alternativo a buon prezzo, perché era quello all'epoca il mio chiodo fisso. Lui, chissà per quale bizzarra associazione di idee, per il mio compleanno mi regalò questo tornio per legno di tre metri, completo di pratico manuale e degli attrezzi per tornire.
Ci misi due anni solo per farmelo trasportare a Pisa, un'estate a capire come funzionasse, assai poco per realizzare che se avessi davvero voluto applicarmi alla raffinata arte del tornio avrei avuto bisogno di: più spazio, più tempo, più attrezzi e di un luogo dove comprare i pezzi di legno pretrattati a un prezzo decente, che consentisse ai miei capolavori di costarmi meno di un Boccioni.
Decisi che avrei realizzato trentadue pezzi formato XL di una scacchiera gigante (mai realizzata) da regalare al beduino scaccofilo. I tronchetti di legno mi si fessuravano stagionando male sul terrazzo, ci mettevo una giornata per scortecciarli e ridurli in cilindri, che poi mi si spezzavano sempre mentre li lavoravo, ed era un'impresa non da poco riuscire a realizzarne due non dico uguali, ma anche solo lontanamente simili. Immagino quanto potesse essere pratico giocare una partita con i miei pezzi. E comunque non andai mai oltre al primo pedone bianco, che ancora conservo a casa, sbilenco come la torre che è emblema della città in cui vivo.


Ho ritentato con la chitarra: condividevo l'appartamento in cui vivevo con due discreti chitarristi, che acconsentirono a darmi qualche lezione casalinga. Stavolta ero convinta. Mia sorella per Natale mi regalò una chitarra classica che, non ricordo bene se per la maestria con cui l'adoperavo o per il valore strumentale dell'oggetto venne battezzata "il legno". Mi ero fatta venire i tanto sospirati calli e forse iniziavo a fare pace con la ritmica. Mi macinavo i pomeriggi a provare e riprovare gli stessi pezzi, nel modo in cui almeno supponevo dovessero essere eseguiti. Ero arrivata a un pelo dall'eseguire quasi senza sbagliare l'arpeggio iniziale di Wish you were here.
Ma poi niente: partii per l'Erasmus e imballai "Il Legno" insieme con tutti i miei averi di allora che divisi per le case di amici vari e la faccenda fu definitivamente archiviata (e ora giace sul soppalco accanto al tornio, ai pattini, al violino e alle carrozzine varie dismesse).

Ah già: i pattini! Anche quello fu un regalo di compleanno.
Ci andai due o tre volte a pattinare sul Lungofiume delle Piagge con la mia amica Bri, autrice del regalo. Bellissimi i miei Roller Blade, e quanto li ho desiderati da bambina! Peccato che lei era discretamente brava, io sembravo l'orso ballerino con la sciatica e alla terza sessione di pattinaggio caddi su una discesa, di culo, misi la mano a terra per parare il colpo e mi ruppi il polso sinistro. Basta pattini.

E il violino?
Quello fu un regalo di Hasuna. Per la laurea triennale. Vedete? Il mio problema è che la gente che ho intorno ha troppa fiducia in me, e incoraggia i miei slanci vani fornendomi gli strumenti adeguati.
Grave errore! Col violino mi sono impuntata. Volevo farcela! Ho speso un capitale per pagarmi le lezioni pomeridiane: tre quarti d'ora da cui sottrarre i primi 10 minuti, che aspettavo che finisse la bambina prima di me. Mezz'ora di tortura posturale e poi scappavo a lavoro; col violino in spalla facevo il mio ingresso trionfale in ristorante schernendomi di fronte agli inviti scherzosi ad esibirmi.
E' che ero proprio una pippa. Il mio maestro mi aveva infine convinta a seguire anche una lezione o due settimanali di solfeggio: una vera tortura a ventiquattro anni, quando a mala pena trovi il tempo per preparare gli esami all'università, e lo devi trovare anche per metterti come una scema a ripetere "Laaa, dooo" mentre il tuo gatto ti guarda esterrefatto e beffardo.
Accannai tutto dopo qualche mese. Non glie la potevo fà.

Ho poi provato a darmi alle lingue: prima fu la volta dell'arabo. Ho iniziato come autodidatta, per poi infiltrarmi ad un corso di lingua e cultura araba riservato agli studenti di lingue orientali.
Peccato che non ci capii una cippa, e mentre tutti continuavano a fare interventi su cavilli grammaticali di cui non sapevo niente, io mi distinguevo per la prontezza con cui rispondevo su altri livelli alle interlocuzioni della lettrice linguamadre tunisina. Magari non sapevo le declinazioni modali delle radici dei verbi, ma conoscevo i nomi di tutti gli animali, sapevo dire "L'orso è sull'albero" e "Tuo nonno ha tante mogli", e ho addirittura composto una poesia... una poesia d'amore! Dedicata al beduino naturalmente. S'intitolava "Ti amo sopra l'albero", e non ve la trascrivo, perché mi vergogno un po'. Ma comunque il corso di arabo era una vera palla, e mi eclissai, anche perché sospetto che mi avessero individuata come clandestina.

Il corso di francese... uff! Che tortura!

Intanto la mia settimana tipo somigliava ad una maratona di pentathlon, io ero colta da attacchi pomeridiani di narcolessia e di insonnia notturna, ho dato mezzo esame in un semestre, ed ero esaurita.
Quando mi ruppi il braccio mollai.
Mollai tutto.
L'amica Bri, sentendosi colpevole involontaria dell'infortunio, mi prestò, per passare il tempo, i suoi fascicoli di fotografia National Geografic.
Con la fotografia già mi piaceva bazzicare, ma fu solo in seguito a nuovo non richiesto regalo di compleanno che venni in possesso della prima mia macchina seria (la prima compatta era stata dimenticata sul tettuccio dell'auto durante una corsa  in aeroporto).
Col braccio rotto leggevo i fascicoli, guardavo i cd, non fotografavo e mi deprimevo.
Ma mi sono appassionata.
Una volta eliminato il gesso, segato via pezzo pezzo, da me stessa esasperata da prurito e inabilità, ho preso a portarmela dietro quasi sempre, la reflex, quando uscivo di casa, anche per andare a lezione, o a lavoro, e sempre durante le nostre escursioni extracittadine.

Ci ho messo un po', ma alla fine l'ho trovato, quello che mi piace fare. Il mio hobby! La mia passione!
Non sono brava e non sono esperta, ma mi diverto, mi intrippo, cerco di capire, sperimento e sogno attrezzature da reporter, che mi riservo di procurarmi non appena sarò diventata ricca.
Mi guardo intorno e mi accorgo che il mondo offre tanto, un'infinita possibilità di visuali e punti di vista, che asepettano solo di essere presi in considerazione da qualcuno, raccolti, catturati.
In più questa è l'unica attività che riesco a conciliare alla perfezione con il mio ruolo di mamma.
Esco con la pupa nel seggiolino della bici e la reflex nella borsa, e mentre lei scorrazza qua e là, io dò sfogo ai miei slanci creativi.

Ecco, una sintesi efficacie delle mia attuali passioni si potrebbe condensare così:


Grazie Simo!