venerdì 20 marzo 2015

Insegnare a imparare e imparare a insegnare.


Parto da qui, dalla proposta di Genitoricrescono per questo mese: Imparare ad apprendere.
Mi incuriosisce e vado a leggermi l'articolo.
Come sempre riescono a stupirmi per l'acume e la lucidità con cui affrontano temi spesso triti e abusati, ma questa volta rimango un poco perplessa: l'argomento a prima vista mi appare trasversale e un po' troppo ricercato; non mi pare di avere molto da dire su questa faccenda, però... però, come spesso accade, gettato il seme si attende il germoglio, il seme è stato gettato, e da quello iniziano a tornarmi alla mente una serie di considerazioni, episodi, momenti che in qualche modo si dipartono tutti da quella stessa radice: la radice della parola "educare".
Educare all'ascolto.
Educare al bello.
Educare al vivere sociale.
La usiamo continuamente, e accorpa una varietà di aspetti vastissimi, tali da ricoprire l'universalità dello scibile e dello sperimentabile.
Ex-dùcere, condurre fuori, è un affare ben diverso dall'insegnare, questo lo sappiamo ormai: non è "imprimere un segno", è un "tirar fuori", è un eviscerare, non è un mettere, è un'estrapolare.
Compito dell'educatore dovrebbe dunque essere quello di aiutare lo sviluppo delle potenzialità dell'educando, che è operazione assai più complessa che quella di riempire di nozioni (che siano didattiche, etiche o comportamentali) una scatola cranica più o meno vacante.


Come genitore è una cosa che fai per la prima volta, è qualcosa che devi, tu, per prima, imparare a fare, e non sempre hai chiara l'idea del come, e non sempre arrivi preparata al momento in cui ti si richiede una particolare reazione ad una certa situazione.
E non sempre dal contesto ricevi direttive valide, utili, o applicabili, e quasi mai riceverai consigli unanimi, incoraggianti, o commenti positivi e gratificanti del lavoro svolto finora.
Molto spesso di quel lavoro la maggior parte di coloro che ti valutano non vedono il processo, e si limitano a valutare sul metro di un risultato che immancabilmente non può che essere parziale, episodico, condizionato dalla circostanza.
Ci sentiamo feriti, ingiustamente additati, sentiamo la necessità di discolparci, a volte ci arrabbiamo, altre volte scriviamo lunghi post di protesta contro ignoti dove proclamiamo al mondo che no, se mia figlia quel tal giorno ha intavolato una scenata melodrammatica di un'ora e mezza perché non trovava più il biscotto mezzo mangiato che aveva lasciato sotto al frigo il giorno prima, questo non è perché "tu le dai troppa corda", e non vuol dire neanche che tua figlia sia un'insopportabile, capricciosa bambina con la necessità di attirare continuamente l'attenzione su di sé, non vuol dire neanche che io non presti abbastanza attenzione alle sue esigenze e che lei trovi qualsiasi occasione per elemosinarne qualche briciola da una madre troppo distratta o anaffettiva.
Vuol dire che questa persona semplicemente ancora non è completamente padrona dei propri impulsi, ancora non è in grado di considerare con distacco gli accadimenti della vita, ancora non riesce ad oggettivizzare sensazioni negative dovute a cause altre, e tende a esternare tali sensazioni alla prima frustrazione che le si presenta.
Vuol dire un sacco di cose, ma vuol dire soprattutto che ci stiamo lavorando. Insieme, e ciascuna lavorando contemporaneamente anche su se stessa, perché l'altro è uno specchio che spesso riflette emozioni che noi trasmettiamo col nostro modo di fare, di porci, o di non fare e di non porci.
Vuol dire che nessuno di noi è ancora arrivato, e che siamo tutti individui in evoluzione, sebbene per noialtri adulti si possa dire che per lo più i cantieri siano chiusi.
In certi casi però faremmo bene a metter fuori un bel cartello giallo di lavori in corso, o una schermata blu con la scritta: Attenzione, stiamo lavorando (anche) per voi. Per consegnare al mondo una persona, anzi, due, più complete, più consapevoli del loro dentro e necessariamente più ben disposte al loro fuori.
Dunque ecco la prima cosa che ho imparato dalle mie figlie (prima una poi l'altra, ma da entrambe):

dare rilievo al percorso e non al punto di arrivo.

Che poi è lo stesso che dire: fare attenzione al processo più che al risultato; smettere di dare tutto questo rilievo alla performance e concentrarci sulla crescita, sulla costruzione di un rapporto.
Tanto continueremo a ricevere un sacco di giudizi che si fermeranno alla forma e ignoreranno il merito; continueranno a piovere continui "ai miei tempi" e "al giorno d'oggi" e di "sei tu che l'hai abituata così" da parte di chi ignorerà lo strenuo e incessante lavoro di costruzione, accomodamento, il logorio di nervi, il controllo su se stessi, i dubbi postumi, i sensi di colpa, e anche quella miriade di momenti in cui, per fortuna, tutto è andato esattamente nel migliore dei modi e voi avete ricevuto un sacco di: "Oh, com'è educata questa bambina!", "ma com'è sveglia!" e via dicendo, altrettanto parziali e  inutili, ma sempre piacevoli da ricevere, perché in fondo abbiamo anche bisogno che il mondo un poco ci riconosca il fatto che ci stiamo muovendo nella giusta direzione, e che non finiremo nello sprofondo.
Ad ogni modo mai dare al mondo più dello spazio necessario a trarne questo effimero beneficio.
La seconda cosa che ho imparato dall'essere genitore è infatti che:

l'educazione si basa sull'empatia più che sulle regole.

Come genitore ho dovuto fare su di me un grande lavoro di empatia, ho dovuto rieducarmi all'empatia.
Credo che imparare l'empatia sia il primo e il principale compito di un genitore che diventa tale.
Se non capisci il tuo bambino non potrai mai offrirgli le risposte necessarie, quelle di cui ha bisogno in quel momento, e se all'inizio si tratta solo di capire se il neonato urlante ha fame, sonno, o ha fatto la cacca, poi le necessità si moltiplicano, e diventano più sottili, invisibili, trasversali e sotterranee.
I bambini per proprio conto devono imparare prima di tutto la vita, vale a dire tutto: dal sentire al percepire, dall'elaborare stimoli, a sentirsi consapevoli delle proprie reazioni ad essi.
Arrivare a capirsi è la cosa più difficile e non arriva presto. Sarà il caso che ci sforziamo di farlo noi, che siamo già adulti, piuttosto che aspettarci che siano loro a tradurre nel nostro codice linguistico e comportamentale disagi, paure, frustrazioni, aspirazioni, delusioni e tutte le infinite sfumature dello spettro emozionale.

In un certo senso diventare genitori significa mettere da parte tutto ciò che abbiamo messo insieme finora e che costituisce il nostro modo di essere; metterlo da parte ed essere disposti a reimparare una seconda volta, o anche una terza e una quarta, in maniere differenti ogni volta, lasciare spazio al nuovo che irrompe con ogni nuova vita e che è sempre differente dal nuovo precedente, e che quindi all'inizio destabilizza un po'.
In questa maniera solo potremo imparare anche noi dai nostri bambini, e potremo ancora stupirci con loro, fermarci ad osservare la tela di un ragno nella ringhiera delle scale, raccontare storie, aggirare capricci evitando la terribile frase "Ti stai comportando come un bambino piccolo" perché in effetti è proprio quello che è, in quel momento: un bambino piccolo che si aspetta che noi, grandi, risolviamo la situazione di stallo venutasi a creare tra le sue aspettative e la terribile realtà che non ne tiene conto.
Non dico sia facile ogni volta, questo lavoro di tentare sempre nuove strade, di farci noi chiave di risoluzione senza recriminare e rovesciare sui figli l'ennesima frustrazione di non essere il genitore che vorremmo; del tipo: "Ecco, mi hai fatto fare tardi anche oggi, con tutti questi capricci"; "Possibile che devo sempre arrabbiarmi per farmi ascoltare?" E via dicendo.
E' un lavoro su se stessi prima di tutto, poi sui bambini.
Perché migliorando se stessi si offre ai bambini un modello migliore di persona.
Perché lavorando su se stessi si fornisce l'esempio di una persona che lavora su se stessa, che non si ferma ai propri successi o insuccessi, ma che forte dei primi, non si lascia schiacciare dai secondi e si impegna per superare le proprie debolezze.
Dall'esser genitore insomma ho imparato che:

per poter educare dobbiamo essere disposti a lasciarci educare.
(Sì, il solito discorso trito del Piccolo principe e della volpe).

I nostri figli sono gli specchi deformanti delle nostre più recondite paure, ansie, difetti, e debolezze: ce le restituiscono grottescamente trasformate ma riconoscibili. A volte scimmiottano consapevolmente certi nostri comportamenti di cui non andiamo proprio fieri, altre volte fanno propri i nostri discorsi, le nostre parole e i nostri pensieri, anche quando si tratta di un pensiero difettoso, che avremmo preferito poter limare e raddrizzare prima.

Però i figli non sono l'immagine riflessa nello specchio. Non sono la nostra immagine.
E non sono neanche i figli che abbiamo vagheggiato prima che loro nascessero.
Sono persone che hanno proprie attitudini, inclinazioni, capacità e gusti.
Se vogliamo che germoglino, se vogliamo davvero "educare" nel vero significato del termine dobbiamo rispettare le persone che sono, senza aspettare che diventino quello che vogliamo noi.
Dall'esser genitore ho imparato che:

educare significa (anche) rispettare.

I figli non diventano quello che vogliamo noi.
E' l'ennesimo equivoco della performance: un figlio non è una performance.
Un figlio non riflette la nostra bravura nell'aver fatto in modo che fosse proprio come noi volevamo che fosse.
Se vogliamo che i nostri figli un domani, o un oggi siano in grado di rispettare l'altro nella sua totalità, per primi dobbiamo rispettarli, e rispettare anche: le loro paure, i loro insuccessi, le loro inattitudini, le loro inclinazioni diverse dalle nostre.
E farci una ragione se quello che saremmo voluti diventare noi ieri, non lo diventeranno nemmeno loro domani, se ciò che avremmo voluto poter fare noi ieri, a loro non interessa farlo oggi, se l'opportunità che non ci è stata data ieri, a loro non alletta oggi.

Sì, ce l'ho anche con te, padre che continui a scassare le palle a tuo figlio di cinque anni perché a parer tuo non è abbastanza socievole e disinvolto come lo vorresti tu: prima o poi tuo figlio sarà abbastanza grande e autonomo da poterti tranquillamente mandare a fare in culo, e chi ci perderà sarai soltanto tu, perché i padri a un certo punto si perdono, è il naturale corso delle cose, ma perdere un figlio (anche solo affettivamente) dev'essere ben più desolante.
Aiutare a imparare significa infondere sicurezza, e non c'è niente di rassicurante nel sapere che un genitore non ti accetta così come sei, o non accetta alcuni aspetti di te, e ti vorrebbe diverso.
Ciò che rassicura è invece un genitore che ti dice: questo che tu hai non è un difetto, è un modo di essere che ti rende unico (cfr. Beatrice Alemagna). Vai, facciamolo fruttare.

Un'ultima cosa ho imparato sull'educare, o sull'insegnare: che i messaggi devono essere il più possibile chiari. Quindi:

Per educare bisogna prima imparare a comunicare correttamente.

E dunque:

No al sarcasmo coi bambini.

E' ingiusto utilizzare con loro una forma comunicativa che non padroneggiano ed è controproducente sia a livello pratico che a livello emotivo: un bambino che non capisce si sente preso in giro e umiliato, senza che abbia compreso il motivo o l'intento, cioè cosa quell'adulto voleva da lui.

- Mi raccomando, non aiutare mai a sparecchiare!
E' una scena a cui ho assistito. Detta dal padre alla figlia di cinque anni che si era alzata da tavola per correre a giocare.
Ora mi chiedo: a che cazzo serve? A farsi due risate tra adulti, e sicuramente l'intento era quello. Ma ai fini educativi a nulla. Al massimo la bambina potrà pensare che il suo non aiutare mai in casa sia divertente agli occhi degli adulti e si arroccherà in questo atteggiamento.

Spiegare, non urlare.

Spesso ci lasciamo sovrastare dalle nostre emozioni forti (uno spavento, ansia, allarme) e interveniamo sui bambini in maniera altrettanto forte ma incomprensibile.
Una volta ho assistito a questa scena: un padre in bicicletta con un bambino seduto dietro, sul portapacchi.
Il bambino inavvertitamente mette male il piede che finisce tra i raggi della bici.
La bici si ribalta e tutti e due cadono. Il piede del bambino è girato di 180 gradi e il padre urla, dopo essersi rialzato e non fa niente per soccorrerlo finché non sono intervenuta io (la solita rompicoglioni) che avevo visto tutto; ho rialzato il bambino da terra, gli ho liberato il piede dalla ruota, gli ho chiesto se stava bene, poi siccome il padre continuava a rimproverarlo aspramente (era chiaramente immobilizzato dalla paura e si era impallato alla riga "te l'ho detto mille volte di non mettere il piede lì") mi sono fatta anche i cazzi altrui e ho detto al padre di smetterla di rimproverarlo, ché il bambino si era fatto male e forse era meglio che lo consolasse.
Allora il povero padre ha smesso di colpo, ha abbracciato il bambino, e quello, finalmente è potuto scoppiare a piangere tra le braccia del genitore, che lo palpeggiava chiedendogli se si fosse fatto male e dove.

Missione compiuta, saggia Suster?
In realtà poi ho riflettuto a lungo su questo episodio, e mi sono chiesta quante volte lasciamo parlare solo sentimenti di aggressione e di difesa, e non ribadiamo invece l'affetto, la solidarietà, il sostegno, il supporto, l'amore, sentimenti di unione che rinfrancano e aiutano a superare il senso di colpa, la frustrazione e l'umiliazione derivati dagli errori commessi.
Io come quel padre, molte volte, anche se da dentro è più difficile accorgercene perché ci impalliamo sul "te l'avevo detto" come se solo il nostro Verbo potesse salvare i nostri figli dalle cadute della vita.
Anche loro hanno diritto a distrarsi, a disobbedire o a non ascoltare.
Niente di più vero del celebre detto: sbagliando si impara. Se trasmettiamo ai nostri figli la paura di poter sbagliare, come potranno imparare?

Ricordo che una volta mio padre mi disse che la sua generazione, rispetto a quella a lui precedente, aveva inaugurato un nuovo modo di "vivere con i figli".
Mentre, piccolo lui, infanzia ed età adulta erano due mondi completamente staccati e appena si toccavano durante le occasioni di confronto educativo dall'alto in basso, dopo il '68 le cose erano cambiate, e lui sentiva che, diversamente da suo padre, aveva condiviso con i suoi figli non solo i cerimoniali e le comparse pubbliche dovute, ma la vita tutta.

Se penso ora a me e alle mie figlie posso dire che io non sto solo condividendo la vita con loro, ma sto anche crescendo con loro, sto cercando di imparare educando, e di educare imparando.

Questo post partecipa al blogstorming



1 commento:

  1. Commentatrice Misteriosa4 aprile 2015 alle ore 09:15

    Caspita Suster, che post intetessante, mi sono addormentata solo cinque volte!
    Vedo che un sacco di gente si è accalcata a leggere e commentare... Brava, continua così! Hai mai pensato alla carriera di scrittrice di manuali pedagogici?

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