mercoledì 4 marzo 2015

Oggetti della memoria.


Abbiamo messo una foto sulla lapide.
Abbiamo scelto una foto per la lapide.
Sono passati più di dieci anni, ormai, e alla fine, sì, alla fine, complice la morte, di recente, di un mio anziano zio, il più grande dei suoi fratelli, ci siamo risoluti a mettere questa foto sulla lapide.
Un tempo, forse, questa cosa, di scegliere la foto per una lapide, mi avrebbe rattristato.
Chissà. Ora non ricordo. E' passato tanto di quel tempo che proprio non riesco a farmi un'idea di quale potessero essere i miei sentimenti a riguardo, ma provo a ricordare, o ad immaginare; quel che ricordo è che la morte mi sembrava, fino a qualche tempo fa, una cosa ben distinta e divisa dalla vita.
E ora? Ora forse non la vedo più così.

Sarà che la vita è la prima cosa che ci è dato conoscere, all'inizio siamo tutti presi del conoscere lei per bene, ché forse una vita sola non basta nemmeno a conoscerla tutta, la vita, e per la morte, pensiamo, ci sarà tempo.
La morte arriva dopo, e se potessimo, magari, ce la risparmieremmo pure, ché in fondo c'è poco da conoscere: la morte è morte; è nulla, la morte, è fine, è silenzio, è vuoto.
Ma poi lei, in forme che non avevamo previsto, che non potevamo prevedere, arriva quando tu non te l'aspetteresti mai, tanto eri preso a vivere e progettare, e osservare, e indirizzare la tua vita, ché per lei, per la morte, continuavi a pensare: c'è tempo, porca vacca, c'è tutto il tempo. Anzi: che bisogno c'è di pensarci, se tanto poi arriva in qualche modo e tu non puoi farci niente?
Sarà così, sarà cosà, fatto sta che tu passi la prima parte, diciamo, della tua vita, ad allontanare il pensiero della morte, finché almeno non ti ci trovi davanti, nella forma che forse, almeno questa è la mia esperienza, temi di più: la perdita di qualcuno che ami. Di più: la perdita di qualcuno che per te è un sostegno fondamentale. La perdita di un genitore.
A quel punto è un bel casino perché prima di far pace con questa cosa sei tutta presa a ricercare nuovi equilibri senza quel sostegno per far andare comunque avanti la tua vita, e tutta presa a incazzarti e a fare i conti col dolore di dover vivere e convivere con l'assenza; quindi ancora una volta è il pensiero della vita che prevale su quello della morte.

E passano, passano gli anni e tu raggiungi taguardi e li superi, e vai avanti, conosci gente, fai esperienze, lavori, ridi, piangi, studi, ti laurei, arrivano anche le figlie, e pian piano, senza nemmeno che tu ci faccia caso, quel dolore l'hai assorbito in qualche posto dentro di te, ci hai fatto pace e sei perfettamente in grado di guardarlo in faccia, di chiamarlo col suo nome, di parlarne con la gente senza che la cosa ti metta in imbarazzo.
Hai semplicemente accettato che la vita, a un certo punto, finisca, e che quella che è capiatata a te non è una tragedia, non è una sventura, forse la peggiore che potesse capitarti, ma solo il naturale epilogo a cui, scioccamente, forse non volendo vedere, avevi sempre dato per scontato di poterti sottrarre, tu e i tuoi cari.

E il ricordo?
Anche quello si è allontanato. Sì è fatto distante, un pochino più astratto, più vago, più cristallizzato in determinate forme, che siano episodi, o espressioni del viso, o frasi, o fotografie, o dettagli.
A volte mi ci fermo a pensare, al fatto che il ricordo di mio padre si stia pian piano confinando in una zona sempre più ristretta della mia coscienza, e un po' mi fa tristezza, giusto una punta di malinconia, nel momento in cui prendo atto che il mio presente, le cose che oggi contano per me, hanno sempre meno a che fare con lui, che quella che lui conosceva era una me sempre più distante da quella che sono io, che sempre più ricordi legati al mio tempo vissuto non lo riguardano più.
E mi chiedo se è davvero inevitabile che anche il ricordo, pian piano, si perda?

Ci sono degli oggetti che associo a lui, indissolubilmente, nella memoria, dettagli, come dicevo, squarci di vita nell'oblio del tempo.

La 127 azzurra.
La macchina con cui giravamo quando eravamo piccoli, fino, almeno, al mio decimo anno di vita. Una gloriosa station wagon della Fiat con un grande bagagliaio. Era così grande e capiente che allora, durante i lunghi viaggi su e giù per lo Stivale, mio padre ci attrezzava una cuccetta, nel bagagliaio, stendendoci una coperta sul fondo e ammucchiando valigie e borsoni ai lati, a mo' di cuscini. Una roba da ritiro della patente, a farlo ora. Ma siamo sopravvissuti indenni, per qualche specie di miracolo.

Il tutù rosso.
Furgoncino 7 posti della Subaru. Soppiantò poi la gloriosa 127 Panorama azzurra e fu ben presto ribattezzato "tutù" perchè aveva l'aspetto, appunto, di un trenino (tutù in gergo bambinese di mio fratello che all'epoca aveva forse un paio d'anni). Ricordo che quel furgoncino (pochissimi esemplari in circolazione uguali a quello) lo associavo a lui anche quando lasciai la capitale, e venni a stare qui, da studente fuori sede. Quando ne vedevo uno per strada l'occhio lo individuava all'istante, e il cuore aveva un sobbalzo. Quel furgoncino era per me la presenza di mio padre in qualche luogo (scomodissimo tra l'altro da prenderci lezioni di guida per una diciottenne in lizza per la patente)

Il gilet con le tasche. Tante tasche.
Devo rivelarvi che mio padre non era proprio un preciso, nel vestire. Non andava a lavoro in colletto bianco e non credo di averlo mai visto in giacca e cravatta, se non forse un paio di volte in vita mia, ma non ci giurerei...
Lavorava in giro per cantieri e magazzini, era amante della funzionalità delle cose e dava talmente scarso rilievo all'abbigliamento e all'aspetto esteriore che proprio non mi capacito di come io sia poi potuta venir su una tal fashionist... ahem...
Ricrodo che una volta qualcuno lo additò, il gilet con le tasche, come una sorta di status symbol del neopropletario. Scoprii poi essere un giubotto (o gilet, a mio dire, perchè smanicato) da pesca. Me lo disse il beduino, che con la pesca ci si intrippa: le tante tasche servono a tenere gli ami, i piombi e tutte le altre belle attrezzature che servono al bravo pescatore. Mio padre non mi risulta si sia mai dilettato di pesca, ma quando vedo un pescatore con quel giubotto con le tasche, io non posso fare a meno di figurarmelo, lui e il suo giubbotto proletario dai mille scomparti.

Le scarpe con le cuciture (più o meno queste, ma meno fighette).
Quelle scarpe di pelle marrone con le cuciture sopra. Com'è che si chiamano?
Boh. Erano l'unico paio di scarpe che lui indossasse. Quando erano frustre, usurate e macilente, se ne prendeva un paio nuovo, il più possibile uguale al precedente. Ricordo che una volta lo sorpresi in bagno che immortalava il solenne cambio della guardia. Eh, lo capisco: abbandonare un vecchio paio di scarpe che ha svolto il suo dovere con onore è sempre stato penoso anche per me (fate buon viaggio, pantofole con i cupcake!)

Le piante grasse.
Mio padre aveva, a un certo punto, preso il pallino per le piante grasse. In realtà amava le piante a prescindere dalla massa grassa, ma quella delle piante grasse fu una specie di mania progressiva che fa sì che oggi io non riesca a considerare una pianta grassa senza associarla al ricordo di lui. Ne aveva tante, sul terrazzino, irrorate di notte da luce violetta, una piccola serra domestica che forse iniziò ad andare in rovina anche prima della sua dipartita. Della sua esistenza attuale non saprei, ma quella pianta con le foglie come palline di cui una volta mi portai via una talea è ancora sul mio, di terrazzo, lei o un suo clone, o quel che è. Per me le piante grasse hanno un che di immortale, loro sì.

La guida rossa del Touring.
Che lo accompagnava immancabilmente in tutti i suoi (e nostri) vagabondaggi in giro per le regioni italiane, durante i quali vagabondaggi si andavano a scovare i più sfigati tra i paesini dimenticati dal mondo, a cercar scorci pittoreschi per acciottolati deserti, o popolati per lo più da qualche vecchiarella degna di far da comparsa in un presepe vivente (annovero, a riguardo, il celebre "passeggio delle vecchie" di Pesco Pennataro. Conoscete, no?).
Una volta dimenticò uno di quei libri dalla rossa copertina su di una panca all'interno del Palazzo Ducale, mi pare, a Urbino; fu tragedia vera, e dopo una vana ricerca a ritroso la desolazione così grande che al volo ne ricomprò una copia al primo chiosco turistico che incontrò. La guida rossa sotto braccio era un must. Solo molto dopo, sfogliandone una per caso scoprii quanto cazzo era noiosa la sua lettura.

La stokke-inginocchiatoio azzurra (scomodissima!).
Questo ricordo per la verità è abbastanza recente e non così significativo, ma poiché la sedia in questione persiste ancora, se non erro, in casa di mia madre, ogni volta che ce l'ho sotto gli occhi non posso fare a meno di pensare al suo (di mio padre) sorrisetto di soddisfazione quando quella... cosa, quello strumento di tortura arrivò in casa nostra, sotto forma di dono voluto con convinzione, e insieme non posso fare a meno di chiedermi se lui si fosse mai pentito di quella scelta, una volta constatata la sofferenza dello stare puntati sulle ginocchia su quell'accrocco, o se davvero, poiché poi la usò per davvero, la trovasse confortevole come sosteneva. Misteri della Stokke.

Il legno di pino.
Non è proprio un oggetto, ma per me quello è il legno di mio padre.
Era il legno con cui era stata fabbricata la pressoché totalità dei nostri mobili domestici. Il nostro armadio, i nostri letti, il tavolo della cucina, erano fatti con quel legno chiaro, coi nodi marrone scuro, che poi scuriva col tempo e a me piaceva anche di più. Va be', ora Ikea l'ha un po' banalizzato, ma all'epoca non eravamo in molti ad avere la casa in stile minimal coi mobili in legno di pino.

Mazzo di chiavi.
L'enorme mazzo di chiavi di mio padre era forse tra i più mostruosamente grandi che io avessi mai visto, anzi, che abbia mai visto in vita mia. Perché tante chiavi? Verrebbe da chiedersi. E aprivano tutte qualcosa? Com'era possibile? Come faceva a portarselo sempre dietro senza che la sua postura ne risentisse? Non pesava una tonnellata? Sì, ovviamente, questo ve lo posso garantire. E poi perché portarsi dietro sempre quel malloppone pesante e ingombrante di chiavi? Forse per non scordarsene in giro e per non perderle?
Non lo sapremo mai perchè non glie l'ho mai chiesto. Ma posso dire che il rumore delle chiavi di mio padre nella toppa, o al cancello di casa erano per me bambina il trillo di campanello che annunciava rientri, motivo di gioia e di esultanza, e anche quando non sono stata più bambina quel tintinnio di chiavi mi ha sempre strappato un sorriso, se non fisico, almeno uno interiore.

La borsa di cuoio marrone.
Quello era un altro elemento indissolubile dalla sua persona, quando usciva di casa per lavoro. La presenza o meno della borsa a fianco alla sua scrivania era rivelatrice della di lui presenza in casa quasi al pari del furgoncino rosso (detto tutù) parcheggiato fuori.
Ricordo che dopo la sua morte quella borsa rimase per un tempo che ora non saprei quantificare abbandonata lì, in quello che potremmo chiamare il suo studio, ma che era praticamente una stanza di continuo transito per tutti, e nemmeno isolabile dal contesto perché priva di porta.
Mi faceva una gran tristezza, allora, vedere lì quella borsa, ora inutile, ben sapendo che il suo proprietario non poteva, non più, trovarsi in casa.
Fu forse proprio la vista di quella borsa a spingermi ad affrettare la mia partenza, in quel lontano settembre, e a venirmene via, pur di non doverla più vedere (e non avendo del resto il coraggio di spostarla da lì).
Mi misi a cercare lavoro e a trovare il modo per non aver più tempo per pensare, per ricordare, e per rimuginare l'assenza... ma questa è un'altra storia, lunga assai, e ora non è il caso.
Volevo allontanare tutti quegli oggetti che, con la loro semplice presenza, amplificavano quell'assenza, amplificando il ricordo.
Quegli oggetti mi facevano soffrire, allora.

Ora sono felice di poterli usare come appiglio per una memoria che mi sembra quasi mi stia sfuggendo dalle meningi, ed è strano come, a volte, basti focalizzare certi dettagli per rianimarla.

4 commenti:

  1. ho perso mio padre tre anni fa, quindi in età stra-adulta: ma tre anni fa sono stata costretta ad accettate l'idea, mio malgrado, che lui, così vitale, attivo, sempre pieno di cose da fare, amante della campagna e della terra, simpatico, brillante e molto bello nonostante l'età...... che lui non era immortale, come nella mia testa e nel mio cuore è sempre stato. Ed io tre anni fa ho perso uno dei miei ruoli, quello di figlia.
    Se n'è andato dicendo che gli spiaceva andarsene......ma che aveva avuto una vita bella e piena.
    Ed io indosso i suoi pigiami, dentro i quali navigo. ma così me lo sento sempre addosso.
    Emanuela

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io indosso alcune delle sue abitudini, oltre ai suoi capelli ricci... :-)

      Elimina
  2. Ricordo un altro post su tuo padre, sull'altro blog.
    Ultimamente mi capita di pensare a questi temi, forse i ricordi sono il solo nostro lascito, finché durano.
    Credo che avere figli sia come un ticchettio nelle orecchie che ci ricorda attraverso loro il tempo che passa inesorabilmente.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. E' vero, Daniele; ma forse i figli ti portano anche a rivivere in un certo senso la tua infanzia ed i ricordi ad essa legati, in un continuo raffronto-confronto che credo sia inevitabile. E, sì, ogni tanto mi piace condividere riflessioni o ricordi che parlano di lui; almeno così ho quasi la sensazione di dar forza a quel ricordo.

      Elimina

Che tu sia un lettore assiduo o un passante occasionale del web, ricevere un commento mi fa sempre piacere, purché inerente e garbato.
Grazie a chi avrà la pazienza e la gentilezza di lasciarmi un segno del suo passaggio.