giovedì 23 febbraio 2012

Memorie libiche. Quel che rimane.

Guerra

Cosa rimane di una guerra perché la si possa raccontare da spettatori tardivi?
Cosa rimane di un Paese in cui per mesi si è andati avanti a forza di "chi la dura la vince?". Cosa rimane di una città nei racconti e nei ricordi di chi vi ha vissuto assedio, invasione, ribellione, repressione, strada per strada e casa per casa?
La memoria di amici scomparsi, figli e parenti, buchi, assenze, rottami, e armi tantissime in giro, ovunque.
Si spara ancora, vai a sapere perché, forse semplicemente perché ci sono le armi.
La paura della prima notte, svegliata da un boato incredibile non appena preso sonno, si è pian piano trasformata in abitudine: non è niente, dicevano tutti, è che fanno brillare le mine. Oppure: è la gente che spara in aria, per i matrimoni.
Solo una volta ho avuto modo di preoccuparmi per davvero un po':
Qui negli ultimi giorni si son sentiti un po' di spari.
Pare, dicono, che i militari di Misurata stessero provando le armi per andare a Beni Walid, dove dei seguaci di Gheddafi erano usciti a manifestare con le bandiere verdi.
Sono andati e tornati, comunicando un falso allarme, per quanto il dubbio da parte mia rimane...
Il resto sono le parole di chi ci è stato, in guerra, chi combatteva, chi aspettava, rifugiato, chi è stato preso, ed è scampato.

"Quanto è lontana Sirt? 50 chilometri? A me sono sembrati mille. Sembrava che la città si allontanasse da noi, man mano che ci avvicinavamo, marciando, combattendo, e non si arrivava mai. Sapevamo solo che dovevamo arrivare a Sirt, prenderla. Alle volte pensavo davvero che per qualche sortilegio ci stesse sfuggendo, e non ce la facevo più.
Poi... poi sono stato colpito. Andò così, no, non è stato così terribile come può sembrare.
Quel giorno avevo lasciato a Ali (ndr. mio fratello) il giubbotto antiproiettile, quello buono, ché non ce n'era per tutti, perché lui doveva andare a combattere con quelli in prima fila. Noi invece rimanevamo nelle retrovie.
Io credo che quel giorno me lo sentissi, perché la mattina, appena sveglio, chiesi della carta e iniziai a scrivere, e io non ho mai avuto questa abitudine. Ho scritto dei debiti che avevo in giro, quanto da saldare a chi, delle cose che volevo lasciare ai miei fratelli, di come mi sentivo. Mi sentivo bene, però, in pace con me stesso, e mi sono chiesto se quel giorno forse sarei morto, e mi sentivo pronto.
Quando è arrivato il razzo, non so cosa è successo, un secondo prima sono caduto, mi sono ritrovato a terra, e questa è stata la mia salvezza. Mi dissero dopo, i medici, che se la scheggia mi avesse preso frontalmente sarei di sicuro morto. Invece è entrata dall'alto, di sbieco, e ha avuto tempo di fermarsi, anche se è arrivata nel cuore, però non ha lacerato la membrana che lo protegge.
Mi sono alzato e non ho capito subito quel che era successo. Non ho capito di essere ferito. Ho visto il mio amico con la faccia piena di sangue che correva a chiudersi in macchina. Lo volevo seguire ma mi sono sentito mancare le forze. Poi ricordo solo momenti, isolati, quando riprendevo coscienza, a tratti. Che mi sollevano e mi portano, mi vogliono caricare in auto, ma il mio amico è terrorizzato, non capisce più niente e si è chiuso dentro, non vuole aprire. Allora mi viene da ridere, anche se capisco che forse sto per morire" (liberamente trasposto da traduzione hasunesca).

Questa una specie di intervista che ho fatto a Mohammed, durante la lunga attesa per la consegna di alcuni documenti, chiusi in macchina a sudare sotto il sole. Mohammed, che ha 18 anni, è il mio cognato più giovane, e si è beccato una scheggia nel cuore che ancora sta lì, perché un'operazione per levarla è stata ritenuta troppo rischiosa.


***
Abdulhadi ha 27 anni, e durante il primo mese di guerra, nel marzo dello scorso anno, è stato preso prigioniero mentre si trovava in casa di alcuni cugini, dalle truppe mercenarie di Gheddafi, che in quella prima fase del conflitto marciavano verso Benghasi in spedizione punitiva, attaccando e razziando la popolazione civile. Lo hanno portato in una prigione di Tripoli, dove è rimasto fino a settembre, quando la città è infine stata presa dai ribelli.

"Quando mi hanno preso, eravamo a casa di mia zia, io e Ali, tre cugini e uno zio.
Ci hanno subito legati e messi a terra, poi hanno iniziato a picchiarci. Mio cugino stava male, chiedeva dell'acqua, hanno iniziato a picchiarlo selvaggiamente, chiedevano dove avevamo nascosto le armi, ché lo sapevano che eravamo dei ribelli. Cosa facevamo tutti insieme in quella casa? Non sapevamo che c'era il divieto di riunirci? Rispondevamo che abitavamo lì, che eravamo parenti, e tutti di Misurata, che non avevamo fatto niente, e che non sapevamo niente della ribellione, che era vero, in quei giorni non ci era arrivata ancora nessuna notizia chiara di quel che succedeva a Benghasi, e le uniche informazioni erano quelle delle due tv di Stato. Ma le reti arabe già iniziavano a parlare di una rivolta, di rovesciamento del potere, e il Potere aveva risposto, subito, con energia.
Hanno picchiato mio cugino così tanto che ha perso i sensi. Lo hanno fatto rinvenire e hanno continuato a picchiarlo. E' morto lì, accanto a me, ero disteso vicino a lui morto.
A un altro cugino hanno tagliato tutte le dita delle mani e dei piedi, gli hanno spezzato le gambe.
Poi ci hanno portati via, sempre riempiendoci di calci e colpendoci con i fucili.
In prigione non capivo quanto tempo era passato, e non sapevo dove erano gli altri.
La cosa peggiore era questa: non sapevo nemmeno se erano ancora vivi. Dopo ho saputo che Ali era riuscito a scappare, ma solo quando alla fine sono stato liberato.
Sì, è stato terribile, ma io ora sono sereno. Ho visto la morte in faccia, letteralmente. La mia e quella degli altri. Ho visto gente morta, gente pestata a sangue. Mi hanno pestato, continuavano a cercare di estorcerci confessioni che non esistevano. Qualcuno non ce la faceva e cedeva, ed erano i pianti più amari quelli di chi incolpava qualcun altro. A cosa serviva tutto questo non lo so.
Ho creduto che avrei perso la mia gamba, che me l'avrebbero dovuta tagliare, perché era ferita e non guariva, ma invece ora sono vivo e intero. Ho passato la fame  e le botte, ho visto la morte e la crudeltà più feroce.
Ma so di essere stato fortunato. Ora non ho più paura di niente."

***
"Quando scappammo da casa nostra, perché arrivava l'esercito da sud e svuotava le case, rapiva i bambini, ammazzava chiunque, siamo andati a stare da mia sorella, che abita di fronte al porto. Quella era la zona più lontana e protetta dai combattimenti e dai bombardamenti. Per questo motivo in quella casa ci eravamo rifugiate tutte, anche altre sorelle, con i figli più piccoli e con le nuore. Eravamo circa (fa un rapido conto enumerando nomi e ruoli) settanta persone, pensa!
Di notte sentivamo le bombe e gli spari, i colpi dei cannoni e c'era sempre qualcuna che iniziava a piangere e lamentarsi.
Io allora le zittivo. Ero stanca, e volevo dormire, non mi importava che la casa mi crollasse in testa: da quando avevo saputo che i miei figli erano stati catturati, e che forse erano stati uccisi, non importava più niente, potevo anche morire."

La guerra è ancora viva e presente nei discorsi e nei racconti di queste persone.
Forse se avessi avuto una maggior padronanza della lingua sarei riuscita a saperne di più, anche senza bisogno di chiedere, di farmi tradurre, ma semplicemente ascoltandoli parlare tra loro.
C'è un distacco di fondo, una leggerezza nel parlarne che mi suona come un grande sospiro di sollievo, il senso di liberazione di chi ha passato il peggio e può tranquillamente lasciarselo alle spalle.
Quel che ne resta sono racconti e ricordi, evocazioni concitate di quei giorni, e il dolore di chi ha perso qualcuno di caro, un figlio, un fratello, tante fotografie di volti, soprattutto giovani, esposte sulle strade, nei cartelloni pubblicitari, nelle vetrine dei negozi, sulle porte delle case, ai finestrini delle auto, perché chi passa li veda e ne serbi la memoria, e possa offrir per loro una preghiera a Dio.

***

Con Hasuna siamo andati a vedere quello che qui chiamano il "museo" della guerra, sebbene di museo non abbia per la verità gran che. Lui voleva fondamentalmente vedere le foto commemorative dei suoi amici morti, e cercare tra le altre facce, se per caso non scovasse qualche altro conoscente, esercizio a mi dire quanto mai sfibrante e angosciante, ma che dire? Mi accompagni? Va bene.
E' stato abbastanza straziante. Tra l'altro vi abbiamo incontrato il padre di uno di questi amici morti il quale ci ha invitati ripetutamente e con insistenza a casa sua, visita che credo mi risparmierò. Non ce la posso fare.
Mimi ha giocato a lungo tra le armi e i mezzi pesanti raccolti in quel luogo a memoria della guerra appena trascorsa. Mi ha fatto un poco impressione vederla giocare così con degli strumenti di morte.
Ma in fondo ho poi capito che gli oggetti non hanno di per sé  un reale potere malefico se privati della volontà di chi li utilizza e ne finalizza lo scopo per il quale furono ideati e concepiti.
Estrapolati dal loro contesto rimangono inerti e complessi aggregati di parti metalliche variamente assemblate, con i quali a rigore una bambina di un anno può tranquillamente giocare senza intuirne il potenziale mortifero.
Senza essere al corrente dei loro trascorsi, quegli oggetti, fermi nell'istante del qui ed ora, nella loro perfetta inutilità, ci rappresentano solo un pezzo di Storia recente, onore e gloria dei caduti, dei vivi, della vittoria, espressione materica e concreta della retorica che ammanta ogni rivolgimento epocale della Storia universale o individuale dei popoli.






***

Girare i primi giorni sul pick-up militare di Ali mi ha fatto un po' impressione, con quella mitraglia montata dietro e i finestrini oscurati, lui in divisa mimetica, ché me lo ricordavo sedicenne che costruiva gabbie per uccelli, e le rivendeva al mercato, sempre taciturno e sorridente, con quei suoi modi pacati. Che poi sono gli stessi che ha ora. Non me lo immagino a sparare contro un altro essere umano. Eppure ha un fucile, e lo tiene sotto il letto, quando torna dal servizio di ronda notturno e si sdraia a recuperare il sonno perso. Tutti hanno un fucile qui.
Come dev'essere stata la guerra, per chi l'ha combattuta? Chissà se ci hanno capito qualcosa, loro.
Io, per quanto mi sforzi, non riesco a capirci gran che.
-Vedete quel palazzo tutto bruciato? Quello è stato un casino prenderlo. (Traduce Hasuna). Eravamo una trentina e siamo rimasti meno di dieci.
Lo guardo incredula, perché io questa cosa della guerra proprio non me la figuro come realtà effettiva e reale, presente e concreta, malgrado i segni tangibili, ciò che è rimasto per le strade di Misurata.
Ci dice di fare le foto ai palazzi, se ci va, ma a me non va molto. Che bellezza ci può essere a fotografare un palazzone semidistrutto e carbonizzato?
Eppure scatto, ché non è detto che solo ciò che è bello sia degno di essere ricordato, ché non sempre ciò che è reale è bello, ché non sempre ciò che sembra bello è reale, e allora tra il vero brutto e le belle favole, stavolta lascerò spazio al vero, così com'è.



***

La decisione di andare a vedere la casa distrutta è stata sofferta, ma anche stavolta mi sono accorta che lui ci teneva, ad andarci con me. Presagi funesti lo inchiodano lontano da essa, lui che, sostiene, questa guerra l'ha sempre sognata, sin da bambino, e sognava di morirci, ed è convinto di esser scampato inspiegabilmente al suo destino. Ho smesso di contraddirlo su questo argomento: non ne veniamo a capo.
Entriamo ed è tutto carbonizzato.
Mohammed ci guida tra le stanze: non c'è molto da vedere, poi in giardino dove mi dice che sarebbe meglio io non camminassi tra l'erba, ché hanno tolto tutte le mine visibili ma... non si sa mai. Mi affretto a saltellare via dal prato nella mia lunga gonna, smadonnando un po' tra me, della flemma dannata di questi libici, anche in questi frangenti allarmanti.
Mi chiedo che impressione faccia vedere casa tua, la casa dove sei cresciuto, ridotta in cenere, ma poi penso ai soldati che sono entrati in quella casa, l'hanno occupata per giorni, che avrebbero ucciso chiunque vi avessero trovato, probabilmente, che per fortuna non ci hanno trovato nessuno, per un pelo, a come dev'esser stato scappare via, con tanti bambini, alla notizia delle truppe che entravano da sud, pensare a figli per le strade che non giocavano più a fare la guerra ma che la facevano per davvero, e aspettare che tornassero (vivi) ogni volta che andavano via, e mi accorgo di come tutte quelle persone che io avevo imparato ad amare in quei giorni di convivenza, per un battito di ciglia della casualità avrebbero potuto non essere più.



***

Come ci è venuto in mente questo tour nella distruzione non saprei, è che ti viene voglia di capire fino a che punto tutto ciò sia possibile. Quello che riesci a vedere a distanza di mesi, non è molto, non è senz'altro ciò che ti aspetti: solo scheletri di cemento armato e muri crollati, soffitti sfondati.
Cosa rimane di quella guerra? Resti.
Resti dei conflitti a fuoco i buchi sulle facciate di case e palazzi, moschee crivellate di colpi, automobili bruciate sul ciglio della strada, pali divelti, slogan a caratteri grossi un po' ovunque, insulti e caricature del dittatore, il grande nemico: "Il posto del prepotente è la cloaca della Storia" leggiamo su quel che rimane di un'auto a bordo strada.
Si alza un gran vento carico di polvere e tutto acquista un'aria surreale e onirica, un po' lontana nel tempo, offuscata.

Quel che rimane della guerriglia per le strade della città sono i bivacchi delle milizie, quelle nemiche, e quelle cittadine. Tra le macerie, materassi e casse di bottiglie, vuote, resti di vestiti, di cibo, di fuochi, bossoli dei proiettili in gran quantità, un po' ovunque.
Siamo arrivati in un posto, una piazza: Maidan Ramadan Suehli, nome di un grande patriota libico, dell'altra guerra, quella contro gli Italiani. Ci ha portato qui Hassan, che conosce questi posti e ci guida sicuro: "Questa era una roccaforte delle milizie di Gheddafi, quando siamo arrivati qui sono fuggiti, lasciando indietro tutto quello che avevano rubato".
Ci guardiamo intorno: oggetti, vestiti vari, una scarpa, i resti di una batteria (una batteria per fare musica, intendo), di tutto un po', persino un brandello di una foto del Colonnello. Quel che rimane di quei soldati: chissà che fine avran fatto?

Mi sembra tutto molto irreale: essere lì, dove prima erano accampati questi uomini, guardare tra le loro cose, tra quello che hanno lasciato.
Questa doveva essere una bella piazza, anche.
La delimita un portico di ampie arcate regolari (qui c'era il mercato, un tempo, ci dice Hassan) e la domina un grande edificio, massiccio, in stile moresco, color sabbia. Una chiesa, ci dice. Come, una chiesa? Sì, una chiesa vecchia. Vecchia nel senso di antica o nel senso di vecchia? Vecchia. C'è anche il campanile, in effetti: è proprio una chiesa. Ma di che periodo? Insisto io. Di quando gli Italiani erano in Libia o di prima? O dopo? Vecchia, non lo so. Questa era una zona dei cristiani, ma sono costruzioni vecchie. Ok, mi ripropongo di cercare info su piazza Ramadan Suehli una volta in Italia, scatto anche una foto alla targa, tiè, così non mi scordo (ma la ricerca non ha prodotto alcun risultato, con buona pace della storica dell'arte che è in me).
Intanto siamo qui ed è tutto un po' triste: questi diversi passati che si accavallano sullo stesso luogo, mischiandosi, e non lasciando più capire quale distruzione abbia la precedenza sull'altra.
Quel che rimane sono brani di vita di gente che ha combattuto contro altra gente, rimangono monconi di palme, mozze e bruciate, abbattute, divelte.

Ma poi, tra la poca erba, ho trovato un fiore piccolo piccolo e profumatissimo, che ho raccolto per portarlo a Mimi e ho pensato che anche quando non ti par di trovare che bruttura, anche in mezzo al peggio del peggio che l'umanità è capace di tirar fuori, si può infine trovare almeno un poco di bellezza, spontanea, gratuita.












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19 commenti:

  1. Devo prendermi un po' di tempo per leggere tutti i tuoi ultimi post... le foto di quest'ultimo sono sconvolgenti.

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    1. IO pensavo invece che non fossero abbastanza efficaci per rendere l'idea di quella guerra. IO stessa mi aspettavo una gran devastazione e ho trovato una città intenta a rimboccarsi le maniche per ricominciare a vivere e a costruire.
      Ma è importante documentare quel che è stato, io credo. Offro la mia piccola testimonianza alla rete, per quel che possa valere, felice se qualcuno potrà apprezzare il mio sforzo.
      Grazie!

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  2. Ho seguito tutte le notti i video che raccontavano questa guerra. Guarda... puoi immaginare a cosa mi sia abituata vedere. In realtà - per fortuna - non ci si abitua proprio a certe immagini e soprattutto mi hanno devastata le immagini dei bambini (di entrambe le fazioni)... Mi chedevo come erano rimasti vittime? Per imprudenza delle famiglie o per destino infame? Ho imparato l'espressione "la ilaha illa Allah": i commenti a questi avvenimenti erano pressochè sempre gli stessi...
    Un'altra cosa che mi aveva stupito inizialmente (poi lì si che mi sono abituata...): ma quanta gente estranea girava nei pronto soccorso?? Cerco di sdrammatizzare un po' per alleggerirmi del peso, ma la questione è reale...
    Se hai voglia di metterti nei panni di un "ribelle" in azione (non dico come finisce, ma è guardabilissimo...), ho postato un video preso dal punto di vista di chi svolge l'azione ed è molto avvincente. L'ho meeso nel blog col titolo "Un giorno da insorti".
    Sì i carri armati delle tue foto e il resto mi paiono strani perchè è la prima volta che li vedo puliti, senza sabbia, fango e ammaccature.
    Hai stuzzicato anche la mia di curiosità storico-architettonica, riguardo la chiesa. Non è la prima, ma è vero, lascia un attimo sorpresi vedere un campanile e immaginarsi dei tempi in cui veniva usata e anche vedere l'uso che se ne fa oggi o le trasformazioni subite nel tempo.
    Il concetto di "vecchia" lo intuisco libicamente ragionando...
    Leggo che i venti di guerra non si sono ancora quietati, adesso è il sud in ebollizione. Speriamo che finisca tutto nel migliore dei modi e che le elezioni diano veramente il via a tempi pacifici.

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    1. Credo di averne abbastanza, ma grazie della segnalazione, che immagino potrà interessare qualcuno dei lettori che passeranno di qui.
      per la verità per tutti e 8 i mesi della guerra non c'è stato giorno che io non seguissi il suo andamento sulle reti arabe, epuoi immaginare con quale spirito e quale dedizione (direi quasi ossessione, per quanto giustificata fosse) lo facesse il mio uomo. Ho visto dozzine di video, oltre a quelli che passavano le tv, ho addirittura visionato del materiale inedito che Hasuna si è prestato di tradurre per dei giornalisti che poi lo hanno venduto a Report (però quando lo hanno mandato in onda devono aver censurato le scene più forti, che io non mi sono risparmiata).
      No, non credo nemmeno io che ci si abitui mai all'orrore. Ci sono state sere che andavo a dormire con il magone in gola. Vedere la morte di un altro essere umano in diretta è qualcosa di terribile.

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  3. Leggendo i tuoi racconti e guardando le fotografie mi salta violentemente agli occhi che quella è vita vera e ti giuro che mi viene il magone. Sembra sempre che quello che leggi sia solo un racconto e si pensa raramente che dietro ai racconti, i tuoi in particolar modo ci sono persone vere, come me e te che vivono tutta un'altra realtà rispetto alla mia e lo fanno con molta più dignità e orgoglio di quanto non lo facciamo noi. Ai molti sembra un concetto banale ma per me di banale non ha proprio niente...Ti giuro, da quando ti ho trovata e ho cominciato a seguirti non faccio altro a che pensare alla verità che racconti tu...

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    1. Sono davvero felice di averti dato del materiale di spunto per guardare una realtà che non conoscevi.
      Capisco ciò che vuoi dire.
      Spesso mi sono vergognata di fronte a queste persone, quando mi fermavo a pensare a tutto ciò che avevano dovuto passare e le confrontavo con i miei stupidi problemi di adattamento le mie paure e le mie insofferenze per quello che sapevo dover essere un breve soggiorno di "vacanza"...

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  4. Sono anni che leggo racconti come questi e non capisco: come è possibile che la storia si ripeta? Anche oggi che tutte queste informazioni girano? Che la gente può SAPERE e VEDERE cosa sia la guerra.

    mah.

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    1. Perchè nel nostro mondo ci sono interessi e meccanismi di fronte ai quali sembra che la vita umana, massimo valore da tutelare e salvaguardare, si possa tranquillamente scarificare, come uova per fare una frittata...

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    2. Non ho niente di intelligente da aggiungere (la guerra e l'orrore del peso di questi interessi lascia basiti), ma volevo dirti anche io grazie. Forse sarebbe pià utile far studiare la più recente storia contemporanea almeno nell'ultimo paio d'anni delle superiori piuttosto che perdersi sulla guerra delle Due Rose ecc, chissà che non serva a diffondere consapevolezze.

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    3. Già, e magari aiuterebbe a capire qualcosa di più della situazione geopolitica odierna. Certo, anche la guerra delle due rose è importante, ma... ;)

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  5. non ho nulla di abbastanza intelligente da scrivere, nulla che sia all'altezza di quello che hai scritto tu, a parte grazie.

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    1. Grazie a te. Io in effetti non ho aggiunto molto a ciò che ho visto e sentito. che altro avrei potuto aggiungere?

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    2. ho sognato molte volte di andare a Mostar, a Sarajevo, a Sebrenica, per fare le stesse cose che hai fatto tu: vedere, respirare l'aria, ascoltare il racconto di un popolo. Non c'è nulla di affascinante nella guerra e nelle macerie, ma trovo che sia umanamente stupendo poterla capire in questo modo.

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    3. Hai perfettamente ragione: è restituire a cronache di toponimi e stime di morti la loro dimensione umana, in tutta la loro tragicità.

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  6. Che dire?
    L'ho letto più volte, e più volte ho desistito dal commentare.
    Però come giuppy ti voglio dire grazie. Non arriveró mai a capire, ma mi hai dato la possibilità di leggere di gente vera, emozionarmi e provare angoscia con loro.

    Non so cos'è che spinge a cercare le macerie di un passaggio così devastante come una guerra. Forse serve per rendere l'orrore reale e in qualche modo più sopportabile.

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    1. Per me è stato la necessità di concretizzare quella che continuava per me ad essere una realtà impalpabile e intangibile, cercarla nei suoi effetti, per capire almeno in parte quale debba esser stata la sua portata e il suo impatto sulla vita ordinaria di tante persone... di un intero popolo!

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