mercoledì 11 febbraio 2015

Quel che ho imparato dai Sioux.

Ritratto di me in una vita precedente (quando nacqui guerriero Sioux)
Scrive Vittorio Zucconi che quando gli europei sbarcarono in America, si trovarono a confronto per la prima volta due culture che avevano due visioni del mondo e della vita troppo in contrasto l'una con l'altra per poter convivere a lungo in pace:
fra la "cultura dell'essere" che gli indiani incarnavano nella loro tranquilla contentezza per quello che essi erano, e la "cultura del divenire", incarnata dagli inquieti europei, perennemente alla ricerca del nuovo e del diverso
scrive, a pagina 116 del libro che sto attualmente leggendo ormai da tempi immemori (questo).
E del "di più", aggiungevo io mentalmente soffermandomi un poco sulle righe appena lette, quella mattina, sul sedile del treno diretto a Empoli.

"Per voi bianchi e cristiani, la Terra è l'Inferno, il luogo dell'esilio temporaneo nel quale il Grande Spirito vi ha confinato, cacciandovi dal paradiso terrestre..."
scriveva il capo Sioux Piccola Foglia
"Per noi indiani, la Terra è il Paradiso, il luogo che lo Spirito ha creato e scelto appositamente per noi, e che non abbiamo dunque né il diritto, né la voglia di cambiare".
Ci sono quelle pagine che varrebbero di per sé l'intero libro, e lette le quali potresti tranquillamente fermarti, anche se il libro è a tutti gli effetti un bel libro, ben scritto, ben documentato, pieno di informazioni interessanti che non conoscevi e fonte di innumerevoli spunti di riflessione... e indignazione.
Letto questo però una lampadina mi si è accesa, e io ho iniziato a vedere e a rivedere tutto il mio sistema di valori e di pensiero in una luce nuova, e un po' spaventandomi di quel che vedevo e un po' desiderosa di andare fino in fondo, lasciavo che quella luce entrasse, come da dietro una tenda in una stanza fino a quel momento illuminata solo da una piccola abat-jour elettrica, e che le cose riacquistassero il loro posto e la loro forma originarie, non più deformate e stravolte da fonti di luce artificiali e parziali.

Ripensavo a quei popoli un tempo liberi e padroni, fieri e consapevoli del loro posto e del loro ruolo nel mondo, senza particolari preoccupazioni che andassero al di là del presente di una singola vita, consci della limitatezza del tempo concesso loro e, sazi di vita un giorno, capaci di distaccarsene senza rimpianti.
Così almeno pare, a vederli da qui, quei popoli a cui bastò un giro di generazioni per vedere stravolto il loro secolare stile di vita, in un equilibrio con l'ambiente e con la Terra che noi ancora oggi vagheggiamo e contempliamo come ideale e irrecuperabile.

E mi chiedo cosa sia questa infinita ricerca di una Terra Promessa, questa insoddisfazione che ci avvelena l'animo, che non ci permette di vivere a quel modo, centrati sul nostro qui e ora, liberi da rimpianti e nostalgie di altrove immaginari, a vagheggiare strade non percorse e scelte non fatte.

Perché siamo un po' tutti così, è vero.
Sono anche io così, perennemente in bilico tra ciò che ho e che riconosco come mio, ciò che ho costruito e ciò che mi è toccato in sorte senza alcun particolare merito o capacità, e ciò che non possiedo e di cui mi sento in qualche modo decurtata da forze avverse del fato, o per mancanza di opportunità o per mancanza di intraprendenza o oculatezza mie,o per bizzarra e capricciosa concatenazione di eventi o congiuntura storica o astrale.

Pensavo alle prospettive per il futuro di cui ti nutri e ti nutrono sin da quando vieni al mondo, un pochino per gioco un pochino per volo di fantasia, e speranza e entusiasmo di vivere e fare e vedere, ed anche di divenire, appunto; e questa continua rincorsa al divenire sempre qualcuno di diverso, di più definito da quel te un po' sfumato che ti ritrovi durante la pubertà, e quel vagheggiare te future più sicure e determinate, più coraggiose e intraprendenti, capaci di mettere a frutto e dimostrare al mondo le tue capacità finora nascoste; e alle competenze lavorative che metti in mostra nei curricula, che ci devi un po' credere perché siano credibili anche agli altri, pensavo, e mostrarti sempre al meglio del meglio di te, mai minimizzare una tua dote, per modestia o incertezza che sia, mai tacere un'attitudine, e per quanto poco tu la padroneggi, fai sempre sfoggio, senza millantare, ma con tranquilla consapevolezza di ogni tua capacità. Si fa sempre in tempo a migliorare, a implementare, a potenziare.
Fatti conoscere, fai vedere chi sei, chi si ferma è perduto.
E' una corsa disumana, se ci pensi. Ecco, non pensare. Prima finisci la scuola, poi si vedrà.
Ora prendi la laurea, poi ci pensi. Ora trova un lavoro, poco male se non è proprio il lavoro che pensavi, che speravi, che sognavi. Niente, dovevi pensarci prima, in qualche modo si dovrà pur campare, di sogni non si vive.

Mi chiedevo allora quale sia il prezzo della felicità, quanto siamo disposti a sacrificare a questo imperativo dell'arrivare, sempre più in alto, mi raccomando, il più in alto possibile, salvo poi abbassare le mire quando tutto ormai sembra perso, e ti dici, pazienza, mi sarò almeno formato come individuo, tutto quello studio, tutti quegli anni sui libri, sì però te lo dicevano tutti che con la laurea ormai non ci fai più nulla, che ormai c'è solo la new economy, e che i ragazzi a scuola dovrebbero studiare sui computer, e imparare i linguaggi di programmazione invece che poesie a memoria, e studiare bene l'inglese piuttosto che il latino, che è lingua ormai morta, e che se non sai usare il computer sei fuori.
Mi chiedevo quanti di noi si sentano realmente appagati dal loro lavoro, quanti lavorano trovando realizzazione in ciò che fanno e quanti considerano il proprio lavoro tempo sottratto alla propria vita? E davvero possiamo ammettere che anche se i soldi non ti possono dare la felicità, posssano almeno offrirti distrazione dall'infelicità? Accettare di essere infelici per tutta la vita in cambio di un mezzo che ti permetta di riempire il tuo tempo residuo di palliativi, perché tu possa avere sempre meno occasioni di pensare alla tua condizione e renderti conto che sei infelice?
I soldi ti concedono il lusso della distrazione. Distrazione da che? Dall'infelicità o dalla vita stessa?

Personalmente non ne ho mai avuti tanti, e questo lo considero un gran bene.
Quando ne avevo un po' di più, è stato semplicemente perché lavoravo per gran parte del mio tempo e non me ne rimaneva abbastanza per poterli spendere.
Ne misi da parte un bel po' in quei tempi, e francamente più aumentava quel gruzzolo, più mi sentivo un po' schiacciata dalla necessità di doverli mettere a frutto bene, il raccolto di anni di sudore, la traduzione monetaria del mio tempo lavorato.
Ma non ne ho mai avuti così tanti da avvertire il bisogno di distrarmi. Non ho mai avuto la necessità di ricorrere ai soldi per non dovermi guardare dentro e scorgere l'orrore di una vita infelice.

Il nostro stile di vita si traduce nell'imperativo di spendere, noi campiamo comprando.
Non sapremmo sopravvivere una sola notte lassù nelle praterie del nord Dakota, seguendo le piste dei bisonti e nutrendoci di carne secca affumicata nei freddi mesi invernali e radici. Non sappiamo quali frutti danno le stagioni, e anche se fosse non sapremmo procurarceli. Non sappiamo dove e come è stata fatta la maglia che indossiamo. A mala pena possiamo ricordare dove e quando l'abbiamo acquistata.

Le analisi di mercato mi mettono un po' di inquietudine e tristezza. Non fanno che ridurre la varietà dell'esistente a pochi tipi standard di individui, suddividono la massa dei potenziali acquirenti in poche individuabili categorie, e in base a quello indirizzano i loro messaggi mirati. Sanno chi sei tu in base ai beni verso i quali sei orientato. Se sei quel tipo di persona, allora a te pubblicità di macchina figa ma rateizzabile e vacanze low-cost, abbigliamento trandy ma cheap; se invece, allora ti becchi Napisan e materassi ortopedici; se ancora, ecco per te Valsoia e Viviverdebio.
E noi tutti lì a pensare di doverci difendere con le unghie, di dover custodire come tesori inestimabili i nostri dati sensibili, di sprangare con la dicitura privacy qualsiasi possibile accesso alla nostra preziosa e minacciata individualità.
Quando invece la maniera più semplice ed elementare per sottrarsi a quel meccanismo implacabile di creazione ad hoc di bisogni superflui sarebbe semplicemente quello di non acquistare.

Abbiamo case che riempiamo di cazzate e ci lamentiamo della mancanza di spazio vitale.
Passiamo pomeriggi accalcati da Ikea e stiamo male perché non troviamo tempo per un caffé con una amico, o per restare da soli nel silenzio della nostra compagnia a fantasticare un po' affacciati alla finestra, o a leggere quel libro che dobbiamo iniziare da mesi.
Abbiamo innumerevoli canali di accesso, sempre più comodi, sempre più convenienti a quello che ci potrebbe servire, piacere, o solo che ci farebbe piacere possedere, per il puro gusto di possederlo, e abbiamo tante di quelle cianfrusaglie di cui disfarci che per la seccatura di dover trovare qualcuno a cui possano interessare finiamo inevitabilmente per disfarcene nell'unico modo che richiede il minimo sforzo possibile: buttare via.

Pensavo che è abbastanza semplice il meccanismo di sentirci in colpa per le grandi ingiustizie della storia. Oramai sono passate e non possiamo fare più niente per impedire che si consumino, poiché già si sono consumate. Amen, pace ai morti e agli umiliati, pace a chi ha perso la terra e alle civiltà sommerse dall'avanzare indomito del progresso.
Ma per le persone che l'hanno vissuto quello non era affatto il passato, era il loro, tragico, bruciante, rovinoso presente, un presente che presagiva una fine prossima e quasi inevitabile.
D'altra parte se ci mettiamo dalla parte dei pionieri bianchi del west, possiamo immaginare di pensare un pensiero simile a questo: sembra possibile che un continente tanto grande, così pieno di risorse da poter soddisfare le esigenze di tanta della nostra gente in cerca di terra e di fortuna, venga sacrificato per l'incomprensibile ostinazione di un popolo che non vuol rassegnarsi ad abbandonare la sua condizione di cacciatore nomade? Tutte quelle praterie, ettari di terra liberi, lasciati alla migrazione di mandrie brade di bisonti?
In fondo la terra non è di chi ci abita, è di chi ci mette intorno una recinto e dice che è sua.

Eh, sì: noi coi nostri bisogni sempre meno impellenti e le nostre necessità crescenti, le nostre case sempre più piene di cazzate che durano il tempo di una stagione e poi tanto vale buttarle, ché oggi non conviene più aggiustare niente, il nuovo costa meno. Noi non siamo nella condizione di indignarci né di puntare l'indice contro le stragi del passato.

Pensavo anche che in realtà questo lasciarsi vivere, questo accettarsi e accettare il mondo così come lo trovi, può andar bene giusto se immaginato in una specie di Eden come poteva essere quella prateria sterminata e inviolata, ma per quanto mi riguarda condurre una vita così, senza impennate, senza ostacoli da superare, senza mettersi alla prova e fallire, rialzarsi e ritentare, perdere e rassegnarsi, aggiustare il tiro e poi un giorno ti svegli e ti accorgi che quello che hai tutto sommato è tutto ciò di cui hai bisogno, ma lo stesso non sai perché, non sei soddisfatta ancora e sempre ti senti in divenire, insomma dicevo, tutto ciò è in fondo quello che della vita fa vita, e senza questo noi saremmo persi.

Pensavo anche, naturalmente, alle mie figlie, perché tanto gira che ti rigira è su di loro che finisco per far confluire l'epilogo della maggior parte dei miei pensieri, e pensavo a come senta la necessità di contornarle di tutto: di attenzioni, di precauzioni, di oggetti ludici e formativi, di stimoli, di attività, di socialità e di come tutto ciò a volte mi sembri diventare un lavoro faticoso e al limite del sostenibile, in termini di energia, tempo e denaro, e di come si ha la sensazione di arrivare sempre un gradino più in basso di quel che sarebbe giusto.
Ho pensato, in conclusione, che se questo dannarci l'anima per "fare meglio" non ci fa anche "stare meglio", forse consci di ciò potremmo iniziare col riversare meno aspettative, ansie e prospettive su di loro che sono appena all'inizio di questo percorso e hanno bisogno davvero di poco, e tra le cose di cui hanno bisogno c'è la necessità di imparare a riconoscere nel marasma di palliativi che ti distraggono l'animo dall'infelicità, l'essenziale che è la felicità, e siamo noi quelli che dovremmo mostrar loro quell'essenziale.

Pensavo che un tempo credevo che un giorno sarei diventata una persona abbastanza completa, e stabile, una persona formata, ecco, con una storia non più in divenire ma giunta ad un certo equilibrio e con un percorso abbastanza chiaro e spianato davanti a sé.
E invece oggi alla veneranda età di 33 anni, anni che a Gesù Cristo bastarono per gettare le basi per un piccolo stravolgimento epocale di quel che sarebbe stata la futura Storia dell'umanità, io sono ancora una persona assolutamente in divenire, con una storia personale con la "s" minuscola che si sta ancora costruendo e che non sa come potrebbe evolvere.
E non so se davvero quel che vorrei poter fornire alle mie figlie sia il modello di questo individuo formato e stabile a cui poter fare riferimento come al colossale massiccio di Littlebighorn facevano riferimento gli indiani Sioux, anche se spesso vorrei poterlo essere davvero quel modello, privo di dubbi, tentennamenti e pianti notturni. Non so se sia giusto davvero offrire loro un'immagine di me così adamantina e inamovibile, che un giorno per esasperazione non potranno che desiderare di fare a pezzi a picconate (l'immagine, dico, non proprio la mamma, si spera).
Forse va bene anche quest'altro, di modello, in divenire, fatto di creta ancora plasmabile e non scolpito nella roccia di granito, che un po' cresce ancora con loro e si plasma (anche) su di loro, che ancora non ha fatto pace col suo mondo e ancora se ne sente spesso e volentieri inadeguato, o forse è il mondo che non sente adeguato a sé.
Forse in un mondo così imperfetto come è il nostro, offrire delle falle nel sistema di difesa, dei punti deboli nelle nostre recinzioni, è un po' offrire anche delle vie di fuga.

I Sioux comunque mi stanno simpatici, sia chiaro!


Ah, quasi dimenticavo: ho aderito a questa iniziativa:


Sono ufficialmente una messaggera. Lo aggiungo qui visto che vi ho messo a parte delle mie attuali letture con riflessioni a cascata annesse e connesse.

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